20/08/09

La gabbia d’acciaio. Come l’azienda manipola la vita

Michela Marzano vive da una decina di anni a Parigi. Trascorre le sue giornate in biblioteca o al Cnrs dove lavora. La sua occupazione principale è pensare e scrivere. Ha 39 anni ed è una delle poche italiane che in Francia, paese dove ha pubblicato tutti i suoi libri, riscuote un credito indiscusso. Si è occupata di tematiche legate al corpo, un monumentale Dictionnaire du corp è apparso per l´editore Puf nel 2007, e tra qualche mese uscirà in traduzione per Mondadori.
Di lei parlano i settimanali francesi. Le Nouvel Observateur l´ha inserita tra i cinquanta intellettuali più influenti in questo momento in circolazione. Le sue analisi sulla società hanno un peso e una ricaduta in Francia. Ha lavorato sulla pornografia e sul modo in cui oggi possiamo applicare quel difficile concetto che si chiama etica. Recentemente è uscita con un libro dedicato alla paura (Visage de peur). Lo scorso anno era apparso un saggio tradotto e pubblicato in questi giorni da Mondadori con il titolo Estensione del dominio della manipolazione (pagg. 202, euro 18).
La tesi del libro è che c´è un pensiero manageriale che tende a uscire dall´ambito dell´azienda per invadere ogni parte della vita privata e sociale dell´individuo. A uniformarla. E lo fa in maniera subdola e seduttiva, apparentemente senza costrizione.
«Lei pensi», osserva la Marzano, «all´immagine della “gabbia d´acciaio” che Max Weber usa per descrivere la condizione dell´uomo moderno. Quella situazione di impossibilità a evadere da una società fondata sul modello disciplinare si è trasformata in questi anni in qualcos´altro, in una gabbia d´acciaio riverniciata e riproposta come “gabbia dorata”».
Si è passati dall´imposizione alla persuasione. Che cosa accade nella nuova gabbia?
«Ciascuno è invitato a dare il suo “libero consenso” a ciò che ci si aspetta da lui, a conformarsi alle attese, a privilegiare i comportamenti socialmente condivisi e, se i risultati non arrivano, non può che prendersela con se stesso. È un processo di assimilazione fondato sulla seduzione della retorica. Si tratta di un modello manageriale fondato sulla dissimulazione dei vincoli: non sono io che ti chiedo obbedienza, ma sei tu che “spontaneamente” me la offri. È il prezzo dell´integrazione e del successo».
Il successo è una componente della nostra società.
«D´accordo, ma che succede se non ce la fai? Secondo questa ideologia tutti coloro che non riescono a imporsi sono considerati dei “falliti”, dei deboli che resteranno per sempre ai margini della società e del potere».
Lei sostiene che la mutazione della logica aziendale è avvenuta passando dal fordismo e taylorismo al toyotismo. Cosa ha comportato questo cambio di prospettiva?
«Il “toyotismo” è solo una tappa di una rivoluzione manageriale che promette ai più devoti felicità e benessere. Poco importa se poi la stragrande maggioranza delle persone si trovano prigioniere di una logica pericolosa che le svuota dall´interno».
Il “toyotismo” è una nuova filosofia di lavoro, nata in Giappone, che corrisponde all´idea che una società non può essere retta solo da vincoli gerarchici. Lei lega la nuova visione aziendale alla caduta della vecchia società disciplinare. Da che cosa è stata sostituita?
«Da un nuovo ordine in cui i “diversi” gli “anormali”, tutti coloro che non ottengono il successo sperato, si ritrovano ancora una volta ai margini della società. Dietro la retorica contemporanea che valorizza la libertà e l´autonomia personale, si nascondono nuove regole e nuove norme di comportamento».
A questo proposito lei descrive l´esperienza del coaching, termine preso in prestito dal linguaggio sportivo. Il coach non è un filosofo né uno psicoanalista. Non è neppure un controllore di anime, è piuttosto un motivatore. È quello che si prende cura del lavoratore, della squadra, in nome della produttività. Cosa vuol dire “prendersi cura”?
«All´origine il “prendersi cura” era direttamente legato alla pratica della conoscenza: ognuno era invitato a comprendersi e a accettarsi a partire dalla propria specificità e differenza. Oggi si assiste a un obbligo e a una codificazione del prendersi cura: ognuno deve prodursi secondo una serie di ricette per arrivare a gestire le proprie emozioni, rinforzare l´auto-stima, controllare il proprio linguaggio e le proprie immagini. Lo scopo è quello di produrre un uomo conforme alle attese, impeccabile e perfetto».
Un uomo che potenzialmente abbia le caratteristiche di un leader, anche se sprovvisto di carisma.
«Non credo che il leader possa fare a meno del carisma. Per essere leader bisogna suscitare un certo entusiasmo. Il problema è semmai legato al tipo di carisma che oggi affascina. Nell´antichità esistevano degli eroi che catalizzavano l´attenzione del popolo e che erano pronti a sacrificarsi di fronte al pericolo. Oggi i leader promettono mari e monti, ma non sono mai disposti a sacrificarsi. Cercano una gloria immediata e quando parlano di sacrifici, si tratta sempre dei sacrifici degli altri. La loro abilità è soprattutto retorica. Gli esseri umani per loro non hanno alcun valore».
Tra gli effetti dell´ideologia manageriale c´è la sua estensione alla politica. Il partito-azienda ne è un esempio. Non ritiene che l´aziendalizzazione della politica – sondaggi, marketing, eccetera – abbia prodotto indebolimento e banalizzazione della democrazia?
«Tenderei a invertire il processo, nel senso che è la banalizzazione della democrazia a rendere possibile l´aziendalizzazione della politica. Il vero problema della contemporaneità è che la democrazia si è svuotata dall´interno, riducendosi a una serie di pratiche formali. Non basta ottenere la maggioranza dei voti per parlare di democrazia».
E cosa dovrebbe fare una democrazia?
«Dovrebbe avere il compito di garantire un certo numero di diritti e di promuovere una serie di valori. Oggi attraverso i sondaggi, il marketing e più generalmente la manipolazione dell´opinione pubblica e la costruzione del consenso, la democrazia non garantisce più nulla, non promuove più alcun valore».
Lei si è occupata in un libro del tema della paura. Non ritiene che l´uso strumentale di questo sentimento rilanci un´idea di società disciplinare, costruita sul controllo e la repressione?
«È un esito più che probabile. La paura, che è un´emozione umana che tutti conosciamo e che può a volte essere salutare, soprattutto quando ci avverte di un pericolo e ci spinge a mobilitare le nostre risorse interne per superarlo, è oggi completamente strumentalizzata».
In che modo?
«La strumentalizzazione comincia quando si cerca un capro espiatorio, quando si dice alla gente che per superare la paura bisogna cacciare gli stranieri, accettare le milizie armate nelle città, o ancora considerare normale il fatto che le persone siano schedate in base al loro Dna. È allora che la paura diventa una forma di panico e che tutti coloro che non sono conformi sono guardati come pericolosi: non si ha più fiducia in nessuno e la società non si fonda più sul dialogo e l´accoglienza ma sul controllo e la repressione».
Cosa c´è dopo la manipolazione?
«Se non si riesce a uscirne, il rischio è il ritorno di forme di totalitarismo. Come lo spiegava bene il nipote di Freud, Edward Bernays, nel suo libro sulla propaganda, coloro che riescono a manipolare l´opinione pubblica, creano progressivamente una forma di governo invisibile che dirige un paese. E il passaggio dal governo invisibile al totalitarismo è breve».
Lei ha una formazione filosofica, ha studiato a Pisa con Remo Bodei. Colpisce una sua affermazione per cui la filosofia avrebbe trascurato l´indagine sulla società. La filosofia deve sostituirsi alla sociologia?
«Anche se in questi ultimi decenni molti filosofi si sono trincerati nella loro torre d´avorio, dietro un sapere ultra-specialistico e lontano dalle preoccupazioni della gente, la vocazione della filosofia resta sempre la stessa: analizzare in modo critico l´epoca in cui si vive, cercando di fornire una serie di strumenti per ragionare e per decostruire i linguaggi e le immagini e i codici culturali e sociali che ci circondano. Lo scopo di un filosofo, per me, non è quello di “fotografare” la società come fanno i sociologi, né di dare delle ricette di vita, come fanno molti coach, ma di permettere alla gente di acquistare una distanza critica di fronte ai nuovi sofismi, per esempio quelli del management aziendale o del linguaggio dei media, e quindi di non essere più succubi delle ambiguità della lingua che rappresenta un´arma nella mani di coloro che hanno il potere politico, dei media, dei soldi».

(Autore: Antonio Gnoli, Repubblica 25/6/2009)



Nessun commento:

Posta un commento