Ma oggi che la Sicurezza dello Stato ha comunque in mano l’opera, non mi rimane altro che pubblicarla immediatamente.
Aleksandr Solzhenitsyn, settembre 1973.
In questo libro non vi sono personaggi né fatti inventati.
Uomini e luoghi sono chiamati con il loro nome.
Se sono indicati con le sole iniziali, è per considerazioni personali.
Se non sono nominati affatto, è perché la memoria umana non ne ha conservato i nomi: ma tutto fu esattamente così.
L’anno millenovecentoquarantanove ci capitò sotto gli occhi, a me e alcuni amici, una curiosa nota nella rivista Natura dell’Accademia delle Scienze.
Vi si diceva, in minuti caratteri, che in riva al fiume Kolyma, durante gli scavi, era stato trovato uno strato sotterraneo di ghiaccio, antico torrente gelato, e racchiusi in esso esemplari pure congelati di fauna fossile (di qualche decina di millenni fa).
Fossero pesci o tritoni si erano conservati tanto freschi, comunicava il dotto corrispondente, che i presenti, spaccato il ghiaccio, li mangiarono sul posto, VOLENTIERI.
Probabilmente i pochi lettori della rivista si saranno meravigliati quanto lungamente il pesce può conservarsi nel ghiaccio.
Ma ben pochi avranno capito il significato vero, titanico, dell’incauta nota.
Noi lo capimmo subito.
Vedevamo chiaramente tutta la scena nei suoi minuti particolari: come i presenti spaccavano con accanita fretta il ghiaccio; come calpestando i sommi interessi dell’ittiologia e respingendo l’un l’altro a gomitate, si strappavano pezzi di pesce millenario, lo trascinavano al falò, lo sgelavano e si saziavano.
Lo capimmo perché eravamo tra quei PRESENTI, tra quella possente razza di detenuti, unica al mondo, che sola poteva mangiare VOLENTIERI un tritone.
Kolyma era infatti l’isola più grande e celebre, il polo della efferatezza di quello straordinario paese che è il GULag, geograficamente stracciato in arcipelago, ma psicologicamente forgiato in continente, paese quasi invisibile, quasi impalpabile, abitato dal popolo dei detenuti.
Questo Arcipelago s’incunea in un altro paese e lo screzia, vi è incluso, investe le sue città, è sospeso sopra le sue strade, eppure alcuni non se ne sono accorti affatto, moltissimi ne hanno sentito parlare vagamente, solo coloro che vi sono stati sapevano tutto.
Ma, quasi avessero perduto la favella nelle isole dell’Arcipelago, essi hanno serbato il silenzio.
Per un’inattesa svolta della nostra storia qualcosa, infinitamente poco, dell’Arcipelago è trapelato alla luce.
Ma le stesse mani che stringevano le nostre manette ora si alzano a palme protese, concilianti: Lasciate stare! Non si deve rivangare il passato! Si cavi un occhio a chi lo rimesta!.
Il proverbio però aggiunge: E due a chi lo scorda.
Passano i decenni e rimuovono irrevocabilmente cicatrici e piaghe.
Certe isole nel frattempo hanno sussultato, si sono dissolte, il mare polare dell’oblio le ha inondate.
Un giorno, nel secolo futuro, questo Arcipelago, la sua aria, le ossa dei suoi abitanti, congelate nello strato di ghiaccio, appariranno ai posteri quale inverosimile tritone.
Io non avrò l’audacia di scrivere la storia dell’Arcipelago: non mi è stato possibile leggere i documenti.
Toccherà a qualcuno conoscerli, un giorno? Chi non vuol RICORDARE ha avuto tempo sufficiente (e ne avrà ancora) per distruggere tutti i documenti fino all’ultimo.
Io che sento gli undici anni passati lì, non come vergogna, non come sogno maledetto, io che ho finito quasi per amare quel mondo mostruoso e ora per di più, grazie a una svolta fortunata, sono diventato il confidente cui giungono tanti tardivi racconti e lettere, saprò io portare ad altri qualche ossicino, un po’ di carne? carne del resto ancor viva, del tritone; vivo, del resto, ancor oggi.
da ARCIPELAGO GULAG
Traduzione di Maria Olsùfieva
Arnoldo Mondadori Editore 1974
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