02/06/07

Ori e splendori dei cavalieri delle steppe

Di quei cavalieri leggendari sbucati da dove sorge il sole, avvolti nella polvere e nel mistero, l'ultimo grande storico romano Ammiano Marcellino aveva dato nel IV secolo un'immagine tranciante: «Temono le case come fossero tombe».
Quasi che la loro vita nomade e selvaggia, così diversa dai canoni sedentari della polis mediterranea e macchiata dalle pratiche feroci dei sacrifici umani, potesse solo generare una cultura gretta, minore, perfino barbara.
Invece, no: da Erodoto e Strabone in poi questo è rimasto solo uno stereotipo letterario, ad alimentare un atavico scontro di civiltà. In verità, oltre il limes romano, nelle steppe sconfinate che s'allungano per 7 mila chilometri fino al Fiume Giallo, la cultura nomade si è intrecciata con quella sedentaria. E l'influenza di Cimmeri, Sciiti, Sarmati (poi Goti, Unni, Avari e Khazari) è arrivata in Occidente sulle sponde del Danubio grazie alle cicliche ondate dei gruppi tribali nomadi.
Quest'acquisizione, radicata in studi interdisciplinari, si consolida dopo la visita alla scintillante mostra Ori dei cavalieri delle steppe, inaugurata ieri al Museo del Buonconsiglio. Oltre 400 pezzi delle collezioni dell'Ucraina, in gran parte mai visti in Italia, ci guidano a cavalcare a ritroso nei secoli, dall'invasione mongola dell'Orda d'Oro nel 1220 fino al I° millennio a.C.
Franco Marzatico, direttore del Museo del Buonconsiglio: «Le testimonianze del prestigio delle aristocrazie fra i popoli delle steppe - come questo girocollo d'oro, questa spada di eroe, questo corno potorio per i banchetti - trovano sorprendenti corrispondenze nel mondo occidentale. Molti elementi iconografici furono copiati dai cavalieri delle steppe grazie al contatto con i commercianti greci sul Mar Nero. In direzione opposta, vediamo che i principi occidentali hanno assunto il morso del cavallo come status symbol, così come l'inserimento di corniola e granati alamandini su armi e gioielli d'oro».
Il secondo curator e della mostra è uno specialista d'archeologia asiatica, Gian Luca Bonora: «Ci sono tante steppe, quante sono le popolazioni nomadi - ci spiega - i cavalieri furono anche allevatori, o contadini, o pescatori. Non un impero unico, ma clan, tribù, famiglie, mondi complessi». Tutt'altro che deserti senza storia e storie, come documentano nella sala introduttiva le immagini riprese quest'estate in Kazakhistan dall'operatore Giorgio Salomon e una sequenza de «Il cane giallo della Mongolia».
Tre modelli abitativi affiorano come scialuppe dal mare di zolle d'erba: prima le case del periodo prenomadico, dal IV al II millennio avanti Cristo; poi il rarissimo carro proveniente dal Museo di Odessa (I-II secolo d.C.), prima idea di casa-mobile. Fino alla grande yurta di feltro del Museo di Bologna, la tenda salvata dai secoli per la sua praticità e il suo simbolismo: un palo centrale e un foro tra la nuda terra e le stelle, spazio di vita rubato al cielo e incendiato di colori sgargianti.
Colpisce poi la riproduzione della tomba dei re, il kurgan, che garantiva visibilità di piramide: i sovrani defunti si facevano seppellire in compagnia dei servi, dei cavalli e dalle loro principesse ingioiellate, sfavillanti per sempre.
Quest'esibizione smodata del potere, affidata a collane, bracciali e placchette con l'immagine fantastica del grifone, è un tema ancestrale col quale il Buonconsiglio ha appagato il suo pubblico fedele: «Se il 57% dei visitatori dice di essere tornato al Museo, non possiamo deluderlo», osserva il direttore Marzatico, mentre indica le raffigurazioni del mito di Achille su una faretra d'oro degli Sciiti: al mondo esistono ancora soltanto due oggetti d'oro simili, uno dei quali è stato rinvenuto come probabile bottino di guerra, nella tomba di Filippo II di Macedonia.
Altri oggetti parlano, come quello strano coronamento d'asta bronzeo risalente addirittura al IV secolo a.C., che esprime già il riferimento magico-religioso ad una divinità, forse lo Zeus degli sciiti.
La sesta sezione della mostra, alla quale hanno contribuito anche Concettina Militello e monsignor Crispino Valenziano, documenta anche il lento processo di cristianizzazione delle steppe: spicca all'epoca dei Goti il vescovo Wulfila che s'inventò il glagolitico per tradurre i testi sacri e, secoli più tardi, l'opera di Cirillo e Metodio, apostoli degli Slavi.
Luccicavano anche gli occhi degli archeologi di Kiev ieri all'inaugurazione («quest'interesse italiano consente loro di offrire un'immagine positiva e reale dell'Ucraina», osserva Marzatico) sotto l'affrescata Loggia del Romanino. «Il Buonconsiglio è l'ambiente ideale per questa mostra - conferma Bonora, docente a Bologna - perché è una fortezza inespugnabile, a custodire questi oggetti d'immenso valore scientifico». Fino al 4 novembre, quando gli ori dei cavalieri torneranno a casa.

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