di Aldo La Fata
Carlo Gambescia ha scelto come titolo del suo ultimo
libro una suggestiva ed efficace metafora sapientemente espunta dall’opera
poetica di Eugenio Montale, quella del grattacielo e del formichiere, figure
che ci ricordano la duplicità di registri in cui si muove l’umano proteiforme,
costantemente diviso tra altezze vertiginose e avvilenti bassezze. Il “realismo
politico” che è l’opzione teorica dell’Autore, parte da questa evidenza
antropologica, per approdare infine a quella “retorica della transigenza”
dominata dal principio gnoseologico della comprensione su base etica. Gambescia,
frequentatore assiduo del pensiero liberale alla cui scuola multiforme e
multiversa si è lungamente e solidamente formato, abituato al pensiero rigoroso
e all’approccio sine ira et studio,
parte da un tentativo filosofico di definizione della “realtà” in rapporto al soggetto
percipiente, condividendo l’opinione dello psicologo sociale Leon Festinger secondo
il quale la realtà, non in sé ma come significato, è soggetta ad un fenomeno di
“dissonanza cognitiva”, ovvero di incapacità dell’individuo di accordare
desiderio e rappresentazione della realtà, esattamente come accade nella
celebre favola attribuita ad Esopo La volpe
e l’uva: la volpe affamata,
incapace, perché per lei troppo in alto, di afferrare l’uva che pende dal pergolato,
elabora allora la conclusione che si tratta di frutti acerbi che non è il caso
di raccogliere.
Giacché la realtà con la sua complessità eccede
sovente la nostra capacità di comprensione, piuttosto che pervenire a conclusioni
azzardate o fallaci, è preferibile e forse anche conveniente, relativizzare le
proprie convinzioni. In questo modo ci si immunizza anche da quei funesti e
pericolosi radicalismi ideologici che, com’è noto, hanno sempre prodotto conflitti
e guerre.
Niente faziose partigianerie dunque, né pro né
contro questa o quella idea, ma distaccata e lucida analisi della realtà “a
guardia dei fatti”. È questa in brevissima sintesi la posizione filosofica di
Gambescia ascrivibile in certo modo al relativismo gnoseologico di un Socrate,
ma applicato alle scienze sociali e solo come “metodo” di studio e non alle
personali verità acquisite o alla verità
tout court. L’etica ad esempio,
pure se alla fine il bene viene fatto coincidere con il male minore o con l’utile,
vale sempre come principio regolatore generale. Su questo Gambescia non
transige neanche come sociologo.
Resta la difficoltà di armonizzare e rendere coerenti
le dissonanze interpretative con le quali lo studioso si imbatte costantemente
e che ne mettono costantemente a rischio le analisi. Il metodo induttivo
seguito da Gambescia che, com’è noto, procede dal particolare all’universale, lascia
la porta aperta a ulteriori approfondimenti e indagini, a domande a cui seguiranno
sempre nuove domande perché mai in una realtà mutevole e cangiante le risposte
possono essere definitive. È allora buona norma confrontarsi con i risultati
conseguiti dai colleghi. In questo senso Gambescia si serve di un’ampia messe
di autori di vasta erudizione: dai classici M. Weber, V. Pereto, G. Mosca, R.
Michels, P.A. Sorokin, J. Freund, B. Croce, Ortega y Gasset, W. Röpke ai più
attuali J. Molina, E. Shils, R. Aron, I. Berlin, T.J. Geiger, R. Niebuhr. M.
Wight, D. Negro, G. Miglio, A. Del Noce.
C’è infine un ulteriore strumento richiamato da
Gambescia che può aiutare il sociologo e il realista politico nel discernimento,
e questo è l’ironia. Il ricorso
dialettico e socratico all’ironia garantisce il realista dall’irrigidirsi nei
confronti di chi non la pensa come lui e gli consente di analizzare i fatti con
il dovuto distacco, senza farsi coinvolgere troppo né dall’emotività, né dalla
passione politica. Insomma, un sottile contrappeso antidogmatico alla hybris interpretativa di una certa
razionalità moderna a volte propensa alle domande a risposta chiusa.
Quando si parla di “realismo politico” di solito si pensa
subito alle posizioni di un Machiavelli o di un Thomas Hobbes, ma nel caso di
Gambescia la questione è più sottile e meno scontata. Gambescia per se stesso ha
scelto la divisa del “liberalismo triste”, archico-conservatore, “né
soddisfatto, né insoddisfatto, né conservatore, né progressista, né devoto allo
Stato, né al Mercato, bensì, più semplicemente a guardia dei fatti” (traggo la
citazione dal libro di Gambescia che tratta specificamente questo soggetto Liberalismo triste. Un percorso: da Burke e
Berlin, Ed. Il Foglio, Piombino 2012).
Gambescia ha adottato anche un’altra espressione per
definire la sua posizione: metapolitica, da lui definita “scienza dei mezzi e
dei fini” che si avvale delle costanti sociologiche e politiche storicamente
riscontrabili per interpretare la storia. Punto di vista indubbiamente troppo
elevato per piacere e compiacere i miserabili dilettanti della politica allo
sbaraglio della nostra povera Italia da non potersi paragonare neanche alla
lontana ai Lincoln, Bismarck, Lioyd George, Roosevelt il cui realismo politico
l’autore porta ad esempio per caratterizzare storicamente la sua posizione
teorica e pratica.
Nella seconda parte del libro, Gambescia affronta la
dottrina criminogena della politica il cui registro è l’indifferenza verso il
male (Silvano Panunzio qui avrebbe parlato di criptopolitica), l’affievolirsi e
quasi lo spegnersi della sensibilità etica e cognitiva con il conseguente e
inevitabile pervertimento dello Stato e anche dell’idea di Stato con i
nazionalismi totalitari del Novecento che ben conosciamo. È storia di ieri.
Storia di oggi potrebbe essere il cosiddetto “sovranismo populista” se non ci
fosse il sospetto, come insinua forse con lungimiranza l’autore, che si tratti
di un semplice “bluff politico” (p. 48).
E qui Gambescia fa entrare in gioco le riflessioni
sui meccanismi di interdipendenza sociale di Theodor Julius Geiger che ci
ricorda la pericolosità degli atteggiamenti divisori e tribali e l’importanza
della cooperazione collettiva per evitare di finire in rovina. Su questo punto,
in una nota, Gambescia cita il dimenticato Giuseppe Ferrari (1811-1876): “Siamo sul nostro pianeta, come l’equipaggio
sulla nave; giungerà essa in porto? potrà attraversare l’oceano del vuoto?
Havvi un porto? I venti possono sommergere la nave, gli scogli possono
infrangerla; le malattie, la fame, il freddo possono mietere l’equipaggio; nel
fatto, i marinai muoiono, le vele sono squarciate, sovente le braccia mancano
al lavoro, qualche volta eccedono; non si conosce la nave, non fu bene
esplorata: per lungo tempo operavasi come se il porto fosse a qualche lega di
distanza, disprezzavansi gli istrumenti, il sartiame, i viveri ammassati nella
stiva. Ma conviene avanzare, il cielo vuole che si passi, uccide chi si ferma;
vieta il retrocedere. Bisogna operare come se vi fosse un porto, come se i
venti fossero destinati a condurci, come se le rupi, le sabbie, le correnti
fossero create a bella posta per tener desta l’attenzione dell’equipaggio. La
vita vuol che si viva” (Filosofia
della rivoluzione, 1851).
Ora, “l’unica forma politica finora escogitata
dall’uomo che rende”, scrive Geiger, “relativamente sopportabile a tutti
l’inevitabile coercizione esercitata dalla collettività sull’individuo è la
democrazia” (p. 59). Una democrazia pragmatica però fondata sulla funzionalità
degli interessi economici (il tanto vituperato e criticato da destra e da
sinistra “governo dei tecnici”, ma in Gambescia con un supplemento di senso
politico) e non sulle emozioni o peggio sulle passioni individuali e collettive.
Realismo politico quello di Geiger, come quello del
grande politologo spagnolo Dalmacio Negro Pavón, che ha parlato con inventiva di
“política farmacológica” per distinguerla sia dalla “politica utópica” (un
assetto ideale che non troverà mai riscontro nella realtà) che dalla “politica
cratològica” (basata sull’uso della forza), entrambe foriere di conseguenze
negative per tutta la società e che spesso sfociano, come ci ricorda Gambescia,
in una politica criminogena e criminale. Bisognerà allora riesumare il vecchio
detto di Voltaire e che Don Bosco soleva ripetere continuamente: “l’ottimo e il
meglio sono spesso nemici del bene”. Quindi, realisticamente, in politica è
sempre bene rimanere con i piedi piantati per terra e non disperdere sforzi ed
energie in progetti impossibili.
Emerge da tutto questo discorso, che qualche lettore
potrebbe anche disapprovare, ma che onestamente non fa una grinza, l’urgenza di
un rinnovato senso di responsabilità che faccia evitare alla società italiana e
al mondo politico a cui è rivolto quasi come un accorato appello, le pericolose
derive demagogiche del qualunquismo e dell’anti-democrazia. I richiami di Gambescia
al metodo socratico maieutico che invita a non smettere mai di interrogarsi e all’impegno
civile dell’intellettuale, ci sembrano, in ultima analisi, le cifre etiche e,
se l’autore ce lo consente cristiane, di questo libro. Un punto prospettico che
pur restando tutto interno al perimetro accademico e scientifico delle scienze
sociali, non è per niente irrilevante, perché, come dicevano i medievali, il “recte
vidère” è sempre alla base del “recte fàcere”.