Dobbiamo
ringraziare Roberto Regoli, che, con il suo libro sul pontificato di Benedetto
XVI Oltre la crisi della Chiesa (Lindau, pp. 512, e 29,50), ci porta a riflettere su una
transizione decisiva del mondo cattolico nel nostro XXI secolo. Avverto un
certo imbarazzo nel trattare di persone viventi, così vicine, talune presenti.
A volte lo storico contemporaneo viene definito un «giornalista» (in modo
talvolta poco lusinghiero), ma qui siamo davvero a una distanza ravvicinata
dagli avvenimenti, dopo solo tre anni dalla conclusione del pontificato.
Indubbiamente Regoli ha mostrato non solo equilibrio nel trattare il tema, ma
anche molto coraggio.
È anche significativo che alcune carte siano
disponibili grazie alla fuga di
notizie dalle stanze vaticane (e questo rappresenta già un fatto) oppure dalle
intercettazioni da fonte americana (anche se ho qualche dubbio
sull’attendibilità di questo tipo di fonte). Ma, per il resto non vi è accesso
alle fonti. E, d’altra parte, non oso auspicare l’apertura degli archivi del
pontificato di Benedetto XVI, anche se resto convinto che la chiusura degli
Archivi vaticani così a lungo sia un danno per l’indagine storica, ma anche un
male per l’istituzione vaticana ed ecclesiale, su cui si fa storia — chiudendo
le questioni — senza potersi documentare sui fondi archivistici principali. Ma
va accettata questa realtà, si fa la storia dei pontificati dell’età contemporanea
senza consultare gli Archivi vaticani. Con il suo volume Roberto Regoli va
oltre questa problematica, scrivendo una storia così contemporanea da essere
prossima: una storia del tempo presente.
Con il gesto delle sue dimissioni, Papa Ratzinger ha
fatto un atto di grande umiltà. Molti
l’hanno criticato e giudicato. Si è, in questo modo, sottoposto alla critica
storica e della storiografia, oltre che alle opinioni e agli umori di tutti.
Parlare di lui è trattare dei grandi capitoli del suo governo, del magistero
(come fa molto bene Regoli), ma anche dell’uomo e del suo carattere. Per
tradizione secolare, l’uomo-Papa si nasconde e si confonde nel pontificato,
anche perché l’accesso alla persona del Papa è in qualche modo schermata e
filtrata. Ci sono pagine su Pio XII in questo senso: i diplomatici accreditati
in Vaticano notarono una sua trasformazione nel passaggio da segretario di
Stato a Papa, come un’identificazione con il nuovo ruolo. Lo stesso Paolo VI,
nonostante i riflettori mediatici fossero accesi su di lui, era per molti
aspetti nascosto nel pontificato. Il distacco dalla propria terra d’origine e
dal proprio ambiente era un esempio chiaro di questo nascondimento. Pio XII
parlava agli italiani dicendo la «vostra patria» e Paolo VI mai tornò a Brescia.
Il «noi» maiestatico simboleggiava proprio questo nascondimento della persona.
Con Wojtyla, possiamo dire che l’«io» entra
apertamente nel pontificato: la terra
natale, la personalità, il carattere, la storia giovanile… Cambia
irreversibilmente il rapporto tra l’uomo e il papato, che non nasconde più o
non protegge più la persona del Papa. Per questo si deve parlare del carattere
di Ratzinger, così importante nelle sue scelte: della sua timidezza e
riservatezza professorale. Direi che Benedetto è il primo Papa la cui umanità è
stata sondata e giudicata senza alcuno schermo. Bisogna però notare che l’uomo
Ratzinger, divenendo Papa, si è profondamente trasformato nel contatto con la
gente — inusuale per lui —, divenendo affettuoso, popolare, paterno. Non è
poco, anzi dice molto sul «senso del dovere» che ha accompagnato il suo
governo. È quel senso di responsabilità che gli ha fatto accettare l’elezione a
Papa, che non desiderava ma cui non si è sottratto. Infine, il Papa timido ha
preso una decisione che richiedeva un coraggio inaudito, nonostante il parere
contrario di chi veniva consultato: abdicare. Niente di più fermo —diceva una
volta monsignor Gänswein — che la fermezza dei miti. Del resto è lo stesso
coraggio del libro intervista con Seewald, il primo del genere per un Papa.
Vorrei però accennare all’elezione, da parte di un collegio di cardinali che in larga
maggioranza non si era mai riunito per scegliere un Papa, a causa del
lunghissimo pontificato di Wojtyla «Papa eterno», il Papa di sempre per molti
di noi. Morto Giovanni Paolo II, i cardinali spaesati e incerti guardano al
«fratello minore» dello scomparso, saldo nella dottrina, suo collaboratore,
anche se non altrettanto carismatico… Fu un conclave molto preparato, più di
quelli di Wojtyla, di Montini, di Roncalli o di Bergoglio. Da questa
«preparazione» che ad alcuni parve eccessiva, nasce un grande equivoco sui
motivi per cui fu eletto Joseph Ratzinger e sulla sua immagine come Pontefice.
Fu eletto da chi voleva assicurare una rilettura rigorosa
del pontificato di Giovanni Paolo II
che, con il suo stile carismatico e una spiritualità alla Soloviev (se così
possiamo dire), lasciava spazio alla possibilità di essere interpretato in vari
sensi, anche molto «aperti». Si pensi, ad esempio, allo «spirito di Assisi»,
l’esperienza voluta fortemente da Wojtyla, che aveva riunito, nel 1986, leader
di tutte le religioni a pregare per la pace, in un dialogo interreligioso molto
allargato, e che aveva lasciato perplesso il teologo Ratzinger.
Tra i grandi elettori di Benedetto XVI, bisogna fare il nome di López Trujillo, che fu tra i
principali organizzatori della maggioranza al conclave, con un’intensa attività
di colloqui. Il cardinale Martini disse di averlo sentito dire: «Non sai quanti
pranzi e cene mi è costato questo Papa!». Niente di scandaloso (del resto, se i
cardinali fossero andati al conclave in ordine sparso e senza un’idea,
sarebbero stati ugualmente criticati). In ogni modo, la sistematica
preparazione fu espressione della volontà di votare un Ratzinger come
«carabiniere della Chiesa» — per usare l’espressione cara al cardinale
Ottaviani, in altri tempi.
Questa era l’immagine di Benedetto XVI, che la stampa gli attribuiva: duro, illiberale,
restauratore… Del resto, proprio insieme a López Trujillo, Ratzinger aveva
fatto la battaglia contro la teologia della liberazione, per volontà di
Giovanni Paolo II. È nato come «Papa della restaurazione». L’omelia del
cardinale Ratzinger, nella Missa Pro Eligendo Romano Pontifice, del 18 aprile
2005, sembrava confermare questa qualificazione: la piccola barca della Chiesa
naviga nel mare agitato del secolarismo e del relativismo, secondo una visione
di sfida della modernità secolare che dura da due secoli.
L’«opposizione» viene chiamata «gruppo di San Gallo» (ma la recente biografia, con la regìa autobiografica
del cardinale Daneels, mostra l’esiguità del gruppo episcopale di San Gallo) .
In realtà il gruppo era coordinato dal cardinale Silvestrini, un grande
diplomatico, che non partecipava al conclave per limiti di età e portava avanti
la figura del cardinale Martini. E qui bisogna dire che i rapporti tra
quest’ultimo e Ratzinger furono sempre di chiara divergenza sui grandi temi, ma
anche di grande stima, come Ratzinger dichiara, nel libro in onore dell’arcivescovo
di Milano: un rapporto tra professori dalle idee differenti, ma che si
riconoscevano mutuamente un alto livello accademico e culturale .
Così non credo all’ipotesi di un trasferimento dei
voti del gruppo di Silvestrini, che
aveva scelto Martini, sul cardinale Bergoglio, bensì su Benedetto XVI (con
qualche eccezione). Si dice che Martini, gesuita anche lui, non considerasse
Bergoglio all’altezza del compito. Dal mito dei «voti di Martini» riversati su
Bergoglio nasce l’idea che l’elezione di Francesco sarebbe in continuità con
l’ipotesi di Martini, formulata nel 2005. Ma credo che senza Benedetto XVI e le
dimissioni, non ci sarebbe stato Francesco. Su Ratzinger ci fu una larga
convergenza di voti: Ruini lo appoggiò in seconda battuta, da esterno rispetto
al gruppo di Trujillo, probabilmente perché considerato troppo italiano o
politico. La candidatura alternativa, Bergoglio, era invece quella di un
latinoamericano, che raccoglieva gli incerti e gli oppositori alla soluzione
Ratzinger. Non si tratta di un blocco organizzato, come mostra bene Regoli.
Il grande equivoco dell’elezione di Benedetto XVI fu l’immagine dura del Papa eletto «carabiniere della
Chiesa», presto smentita dai fatti. Giustamente Regoli scrive: «Vuol convincere
e non imporre. Qui appare una caratteristica di Ratzinger, che è allo stesso
tempo la forza e la debolezza del suo pontificato». La sua forza «gentile» è un
magistero articolato e convincente, esaminato con attenzione nel volume di
Regoli, ma che credo meriterà in futuro un ulteriore approfondimento anche di
carattere teologico. Ratzinger si rivela l’uomo della grande tradizione,
argomentato, chiaro, che vuol essere persuasivo. Per certi aspetti, non
rispondente alla figura di chi deve mettere ordine nella Curia, secondo le aspirazioni
di chi l’aveva eletto. Se c’era in lui un desiderio di ordine, si collocava sul
piano ideale e teologico.
Lo «spirito di Assisi», caro a Giovanni Paolo II, come si è detto, non lo aveva mai convinto;
Ratzinger non cambiò visione, ma non corresse l’eredità del suo predecessore.
Fece alcuni interventi puntualizzanti, oltre a recarsi ad Assisi nel 2011 per
celebrare i 25 anni dell’incontro dell’86, curando direttamente l’evento con un
suo stile peculiare. Anche la riforma liturgica di Paolo VI non lo aveva
proprio convinto, perché gli sembrava archiviare la tradizione con un rapido
gesto di governo: provò a far evolvere la liturgia attraverso l’esempio di
quella papale, proposta alla Chiesa, poi con il recupero della Messa di Pio V
(Regoli si chiede se fu una concessione ai lefebvriani o un’intenzione
personale di reintrodurla). Ma tutto questo in uno stile di riflessioni
teologiche e con un metodo persuasivo, non imperativo.
Proprio la riforma liturgica era stata emblematica del modo di governare di Paolo VI, quello di un
sovrano illuminato e riformatore, che non rinunciava al «potere del Papa», ma
era consapevole delle opposizioni presenti: «Un Papa bolla e l’altro sbolla;
bisogna far presto!», diceva a mons. Bugnini, segretario della commissione per la
Liturgia del Vaticano II, su quale ora è uscita una biografia in francese.
Montini aveva una chiara coscienza dell’opposizione interna di destra e di
quella pubblica e chiassosa progressista.
Basterebbe rileggere la personale e indifesa lettera
di Benedetto XVI ai vescovi dopo il
caso Williamson (Richard Williamson, vescovo lefebvriano era stato riammesso
nella Chiesa cattolica da Benedetto XVI nonostante le dichiarazioni
negazioniste sulla Shoah). «Ma che è un Papa questo?», disse duro uno degli
organizzatori della sua elezione, manifestando lo scarto tra i motivi per cui
era stato eletto e le scelte da Papa. Ratzinger deluse chi lo aveva portato al
soglio, perché — al di là di scelte puntuali — non si prestò all’opera di
restaurazione nel senso richiesto. Non fu un «carabiniere».
Ratzinger nomina in prevalenza personale conservatore e sicuro (perché la chiarezza dottrinale gli sembra
prioritaria), ma sceglie pure il cardinale Hummes, che si era dichiarato
favorevole all’ordinazione dei viri probati prima di venire a dirigere
la congregazione del clero. Lo chiama come collaboratore per riavvicinare la
Chiesa brasiliana, che aveva vissuto una crisi nei rapporti con Roma all’epoca
di Wojtyla.
Ratzinger non può essere considerato un
tradizionalista, se si guarda allo
spessore teologico e culturale del suo pensiero. Rende però scontenti anche i
suoi sostenitori. Nel 1966, Joseph Ratzinger affermava acutamente: «Il Concilio
segna il passaggio da un atteggiamento di conservazione a un atteggiamento
missionario, ed il concetto conciliare contrario a “conservatore’”non è
“progressista”, ma ”missionario”». Ma missionario in che mondo? E il Papa
contemporaneo non deve essere il primo missionario?
Ratzinger guarda al secolarismo e all’Occidente, come scenario su cui agire per riaffermare un
orizzonte cristiano, dove vuol quasi compiere l’operazione che portò Wojtyla a
cambiare gli equilibri nell’Est Europa: vuole confrontarsi con l’illuminismo
mediante le armi del dialogo. Si pone in continuità con la lettura di Giovanni
Paolo II sul secolarismo, che Wojtyla conquistava anche con il suo carisma.
Ratzinger può contare sulla simpatia dei russi ortodossi, che hanno grande
stima del Papa della tradizione, e sappiamo della disponibilità del patriarca
Kirill ad incontrarlo, se le dimissioni non avessero troncato la trattativa.
Questa visione del secolarismo è una chiave di lettura
che Francesco non respinge del tutto,
ma integra in una visione della modernità globale e liquida, in cui uomini e
donne vivono da spaesati. Bergoglio sa che la cultura, cui Ratzinger si era
rivolto, da grande, affrontandola in modo articolato — si pensi al discorso ai
Bernardins a Parigi sulla scia dell’antico libro di Jean Leclerq, Cultura
umanistica e desiderio di Dio — non muove i mondi, specie nelle dinamiche
globali. Vangelo e carisma sono al centro del discorso di Francesco, e
provocano un capovolgimento del modo con cui il papato affronta la modernità e
il secolarismo: qui la novità.
Si dovrebbe approfondire l’idea di Chiesa come
minoranza: la «minoranza creativa»
ratzingeriana, quella del discorso di Subiaco, non è la stessa idea di
minoranza del cardinale Danneels o di una minoranza-lobby per i valori non
negoziabili. Ma non è nemmeno l’idea di Chiesa di popolo di Bergoglio. Come si
realizza l’idea di Chiesa propria di Papa Benedetto?
Ma torniamo al tema centrale. Ratzinger comincia con il malinteso di Ratisbona,
ricostruito molto lucidamente da Regoli: una dotta citazione diventa una bomba,
con gravi conseguenze anche per la vita di alcuni cristiani in Oriente. Ma il
Papa non è solo un intellettuale o un professore, che peso hanno le sue parole?
L’attacco mediatico internazionale, violentissimo, saggiò la fragilità della
posizione di Papa Ratzinger. Si può dire che, in varie riprese, a partire dal
quel settembre 2006, non è stato più risparmiato: Benedetto XVI ha avuto
costantemente contro la grande stampa internazionale, almeno fino alle sue
dimissioni. Non credo alle congiure, ma c’è stata una dinamica di coincidenze e
una sinergia che ha mostrato come, fino alle dimissioni, Ratzinger sia stato
visto come chi ha «somatizzato» la crisi o l’agonia del cattolicesimo. Si
poteva andare oltre la crisi? Sì, con il suo pensiero e la sua fede indicava
una via per il futuro della Chiesa, ma la sua stessa figura diventa la crisi,
tanto da pensare che il declino fosse insito in questa stagione della Chiesa.
A questo si aggiunge il problema del governo. Il Papa è scrupoloso e il suo senso del dovere
fortissimo: basti pensare ai tanti viaggi nel mondo di un uomo che non amava
viaggiare, fatti con attenzione e serietà. Ma la macchina curiale non
funzionava molto. Paolo VI l’aveva architettata dopo il Concilio, rafforzando
la Curia romana in un cattolicesimo più plurale, associando i vescovi, facendo
della Segreteria di Stato il perno del governo con una scelta innovativa. Era
la Segreteria da cui Montini veniva e che, da Papa, mise alle sue dirette
dipendenze, essendo in pratica il segretario di Stato di se stesso, attraverso
l’azione di un forte sostituto, monsignor Benelli. Paolo VI, come principe
riformatore, voleva guidare la recezione conciliare attraverso i cambiamenti
nella Curia.
Ma il sistema vaticano non funzionava alla perfezione. Le classi dirigenti, come quelle degli Stati
europei, scendono di livello e le vocazioni scarseggiano. Anche il governo di
Giovanni Paolo II fu molto criticato. Ma la realtà era che, con il suo carisma,
Wojtyla suppliva ai problemi di governo. Benedetto XVI non è un carismatico e
nella gestione della Curia non gli fu perdonato nulla, pur avendo all’attivo
un’importante e dolorosa operazione di purificazione della Chiesa dagli
scandali sessuali, che costituivano un grave problema ereditato dai pontificati
precedenti. Del resto, come si vede anche oggi, la riforma del governo vaticano
va avanti lentamente e non è facile tracciare un diverso profilo della Curia.
Il governo è deficitario, ma il carisma lo compensa.
Un altro esempio è la diplomazia vaticana: gli Stati non l’apprezzano molto — come scrive
Massimo Franco in La crisi dell’impero vaticano… — mentre in passato,
all’epoca della guerra fredda era importante. Quando era guidata dal cardinale
Casaroli o da monsignor Silvestrini, e da Papa Wojtyla con la sua geopolitica
profetica, si erano coperti i vuoti di un sistema diplomatico che aveva varie
mancanze. Si pensi all’irrisolta questione cinese (malgrado la bella lettera di
Papa Benedetto ai vescovi della Cina) e la partenza di monsignor Parolin dalla
Segreteria di Stato. Del resto Benedetto non riceve frequentemente i nunzi.
Ma non è solo la diplomazia ad avere difficoltà: il problema è la Segreteria di Stato e la criticata
nomina del cardinale Bertone, non proveniente dalla diplomazia. Ma il problema
non è solo il cardinale Bertone. Senza una Segreteria capace, la Curia montiniana
non funziona. Regoli ricorda come gli amici di Ratzinger gli avessero chiesto
di cambiare segretario di Stato con un passo collettivo, ma lui lo difese,
coprendolo in questa e altre occasioni (ma il cardinale Casaroli affermava che
è il segretario di Stato che ha il dovere di couvrir la couronne). Molti
pensano che questa scelta sia stata dettata semplicemente dal desiderio di una
continuità di lavoro con un collaboratore di vecchia data come il cardinale
Bertone. Ma c’è di più.
Progressivamente Benedetto XVI, uomo di integrità
cristallina, che tanto puntava sulla
parola e sulla persuasione, sulla comunicazione colloquiale nella Chiesa, si
rende conto che è soggetto a pressioni e forse non vuole essere ridotto a
Papa-pensatore, che lascia il governo «personale» ad altri. Non è un caso che
un’ultima inchiesta secretata — ma trasmessa al nuovo Papa Francesco in modo
ben visibile — chiude il suo pontificato. Bertone gli era apparso un presidio
per evitare di essere sopraffatto. Se così dev’essere, se mancano le forze, se
si è già detto e insegnato tanto di quello che si poteva dire, perché restare?
Qui la scelta delle dimissioni che illuminano la forza dell’uomo,
l’accettazione dell’ignominia del giudizio di tutti, insomma la sua umiltà e il
non tradire la sua missione.
Benedetto XVI non è l’immagine della crisi, della fine del pontificato di origine europea come
sembra esaurito quello di nazionalità italiana (addirittura, nel conclave del
2013, l’ipotesi di un Papa italiano sembra a molti un incubo); non è una
parentesi, anche se la sua figura non si impone. Basta rileggere oggi i suoi
testi e ci si trova di fronte a un pensiero limpido e profondo, non unilaterale
(basta menzionare la coraggiosa Esortazione apostolica sulla Parola di Dio). Un
Padre della Chiesa, non un Papa missionario o carismatico. Oggi il Papa può
essere tale?
L’uomo Ratzinger non ha voluto imporsi alla storia e alla Chiesa, ha percorso la via della mitezza, della
fede e dell’intelligenza. Non emerge con evidenza e qui la storia avrà il compito
di mettere in rilievo la sua figura. Un brano della Caritas in veritate mi
è sembrato autobiografico, quando parla della «presunzione di dover realizzare,
in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà
farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore.
È Dio che governa il mondo e non noi. Noi gli presteremo il nostro servizio
solo per quello che possiamo e finché egli ce ne dà le forze. Fare però quanto
ci è possibile con la forza di cui disponiamo…».
È la visione di chi si è definito umile operaio della vigna del Signore. Ringraziamo Roberto Regoli
che ha avuto il coraggio e l’intelligenza di cominciare a scrivere da storico
su questa figura.
Fonte: