di Primo Siena
Il
saggio di Alberto Buela su “metaetica e metapolitica” (*) ha stimolato
alcune mie riflessioni critiche.
Buela
afferma fin da subito che si tratta di “discipline
o meglio, di pluridiscipline che hanno in comune l’essere teologiche, ovvero
sono orientate verso un obiettivo o fine che una volta raggiunto rende migliore
colui che vi arriva, sia nell’ordine della comprensione che dell’azione” e
conclude affermando una differenza sostanziale tra metapolitica e
metaetica, esponendo quindi le
motivazioni che lo inducono a tale conclusione. E fin qui concordo con lui. (1)
Le
mie differenze con la sua posizione cominciano quando afferma in modo
categorico che “vincolare la metapolitica
alla metafisica è un errore gravissimo
commesso da tutti coloro che non distinguono in modo chiaro e
intelligibile tra ciò che è politico e la politica”. Inoltre, seguendo il
sociologo italiano Carlo Gambescia, afferma anche l’impossibilità di postulare
la metapolitica come un’etica della politica, in quanto essa deve studiare e
investigare la realtà politica per come si manifesta, senza considerare alcuna
causa prima o ultramondana.
Da
parte mia, insisto nel sostenere l’esistenza di una correlazione ineludibile
tra metapolitica e “metafisica della politica”, intesa questa non come una
scienza esclusivamente teoretica, ma piuttosto come misura di un pensiero che
mira all’azione politica concreta là dove il metapolitico stesso può agire.
Qui
m’è d’uopo chiarire la mia riflessione sulla metafisica secondo il magistero di
uno dei miei preclari maestri: Marino Gentile.(2)
Il
grande Maestro insegnava che la filosofia postula una problematicità radicale che comprende l’esperienza nella sua
totalità e fluidità e mira alla ricchezza essenziale del sapere. La filosofia
come problematicità radicale, si articola in esperienza, dimostrazione e concetto, al fine di cercare il
“principio fondante” della metafisica mediante la distinzione tra sapere e conoscere.
Il
conoscere si basa sulle diverse
modalità dell’esperienza, mentre il sapere
è un conoscere che ha la peculiarità
di essere stabile in quanto non tematizzato da altre modalità del conoscere che invece tematizza a sua volta. Inoltre il sapere – afferma Marino Gentile - “non è
ipotetico-deduttivo, piuttosto è sapere
giustificativo”. Allora filosofare consiste nel cercare la connessione tra
l’esperienza “impossibile senza il sapere, e il sapere collegato
all’esperienza”. Questo è il sentiero che percorre la filosofia, come
problematica radicale, per raggiungere la metafisica concepita non già come
scienza separata dalla realtà (come pretende l’antimetafisicismo
contemporaneo), bensì come la ricerca più profonda della realtà ultima o realtà
dell’essere.
Essendo
la radicale problematica del filosofare la condizione specifica della ricerca
del principio necessario per spiegare e capire l’esperienza, essa è destinata a incontrare la
religione, ma non a identificarvisi,
perché nella ricerca filosofica Dio costituisce il punto d’arrivo, mentre che
- secondo la teologia - Dio è il punto di partenza dato dalla
Rivelazione divina.
Seguendo
questo magistero, insisto nell’affermare il rapporto diretto tra politica e
metapolitica, sostenuto inoltre dal pensiero dell’indiano-iberico Raimon
Panikkar quando afferma che “dal livello evolutivo del metapolitico, la
politica progredisce dal piano dell’arte o della scienza al livello della
pienezza esistenziale di ciascun essere umano”.
Ciò
che è metapolitico – sostiene Panikkar - “non si può attualizzare né per separazione né per fuga”; la metapolitica è
il lievito che fa fermentare la pasta e la trasforma, ed è, inoltre, “la
dimensione nascosta di ciò che è politico, la sua profondità”. Esistono
dimensioni dell’essere umano che non appartengono al politico, ma che gli sono
indispensabili; per questo motivo il pensatore indiano-iberico definisce metapolitico l’incontro tra la
dimensione politica e l’uomo nella sua totalità. “La storia umana - egli afferma - non si riduce a una successione
di guerre. L’attività politica non consiste esclusivamente in un insieme di
manovre volte a raggiungere il potere […] Nell’attività politica l’uomo ha
successo e si realizza oppure fallisce e si sente frustrato; forgia il proprio
destino al quale non può sottrarsi. La politica non è una specialità dei
politici e ancor meno dei politologi. E’ patrimonio dell’uomo in quanto nutre
la sua vita essendo inseparabile dal metapolitico “.(3)
Panikkar insiste sul fondamento antropologico della metapolitica e ne
indica la profonda dimensione umana in quanto luogo nel quale “ogni progetto
politico acquisisce la propria anima; anima che è immanente al politico pur
trascendendolo. La vera immanenza è sempre il luogo dell’esperienza della
trascendenza”.(4) E poiché, secondo Aristotele, l’uomo è un animale politico,
la politica è necessaria alla sua realizzazione pur se rappresenta uno solo
degli aspetti dell’essere umano. In effetti l’esperienza dell’uomo non è
racchiusa solo nella storia, e perciò nella politica, dato che la realtà
possiede inoltre una dimensione invisibile, nel contempo immanente e
trascendente la vita stessa. “Non esiste solo il temporale, il corporale e il
sociopolitico - chiarisce Panikkar - ma senza di esso non esiste nemmeno
l’eterno, lo spirituale e il teorico; la realtà è indivisibile”.(5)
Panikkar
ci ricorda che lo zoôn politikon di
Aristotele vuol significare anche che la “politica appartiene alla religione e
la religione alla politica”, poiché gli dèi sono gli dèi della Città; e conclude
affermando che la metapolitica unisce finalmente due mondi precedentemente non
comunicanti: il mondo religioso e il mondo politico. Due mondi nei quali
l’essere umano agisce eticamente sorretto da principi spirituali e
trascendenti.
Egli
spiega anche che il metapolitico non
è sinonimo di transpolitico o di superpolitico in quanto si basa sull’humanum che sorregge il politico, sicché
la politica si sviluppa come un’attività essenzialmente umana. Per questo
l’esperienza del metapolitico raggiunge la pienezza umana e la sua armonia con
il cosmo.
Dal
canto suo, il metapolitico italiano Giovanni D’Aloe, formatosi al magistero di
Silvano Panunzio, commenta opportunamente al riguardo che Metapolitica e
Metafisica sono gemelle, perché “così come la metafisica designa il superamento
della natura, la metapolitica designa il superamento della polis in quanto città dell’uomo che a sua volta è il riflesso della
città di Dio”.
Il
principio di trascendenza risulta, inoltre, implicito nella politica che non
può sottrarsi dall’essere considerata come un ramo etico della convivenza umana
organizzata (recte scire) in senso fisico, sociologico e giuridico (recte agere). E qui la politica pratica
raggiunge infine, nei suoi risultati e conseguenze concrete, la metafisica
stessa, come insegnava Marino Gentile, il quale, in una famosa introduzione ad
un corso accademico su “Il filosofo di fronte allo Stato” (anno 1960),
affermava: “Una filigrana naturale collega l’uomo allo Stato perché non esiste
ordine giuridico né morale, come non c’è ordine fisico, senza metafisica”.
Secondo
questa prospettiva, nell’azione politica interviene una delicata mediazione tra
principi etici e situazioni concrete della vita sociale orientata alle esigenze
e necessità dell’uomo, con il proposito di trovare nei codici etici un senso
ultimo della vita sia delle persone che delle collettività.
Ma
qui emerge un’altra discrepanza con Alberto Buela, il quale sostiene che: “l’etica non può stabilire norme; esse
vengono da una tradizione vissuta, da un éthos vigente, e l’etica è solo un chiarimento teorico di questo éthos. Possiamo
chiarire solo quello che già ci determina per quello che siamo. Per tanto non
si può raggiungere né una fondamentazione ultima né un éthos universale”.
Francamente
(e me ne dispiace) non posso condividere il sorprendente determinismo che qui
affiora nel pensiero di Buela. Continuo a pensare che non appartenendo l’etica
all’ambito della fisica (vale a dire, della materialità), la politica stessa
presenta allora un fondamento antropologico collegato all’éthos che a sua volta
recupera l’essenza dell’essere umano nella sua alta e profonda dignità di
creatura.
Giustamente
il mio altro maestro nell’ateneo patavino, Umberto Antonio Padovani, affermava
che la politica, come “arte del buon governo” (poiché il “mal governo”
appartiene alla criptopolitica e non
alla politica positiva), è orientata a risolvere positivamente ed equamente la
problematicità della vita associata. In conseguenza Padovani sviluppava la
logica fondamentale del discorso politico come un sillogismo la cui premessa
maggiore, filosofica, è costituita dalla teoria generale che la politica deriva
dall’antropologia e dalla morale; mentre la premessa minore è formata dalla
situazione concreta di un determinato popolo secondo i parametri delle scienze
sociali.
Poiché
l’ethos si rapporta all’essere della
persona considerata nella sua essenza profonda che la costituisce, la politica
– scienza sociale dell’essere umano - raggiunge di conseguenza la metafisica
come condizione fondante della metapolitica.
Alberto
Buela conclude affermando che “in
metapolitica, d’altra parte, non parliamo di ethos bensì di ecumeni, ovvero di
grandi spazi di terra abitati da uomini che condividono lingue, credenze,
abitudini e un ethos particolare”.
Sinceramente,
qui non capisco la posizione di Alberto il quale dopo aver sostenuto che “l’etica non può fare regole” perché “queste vengono da una tradizione vissuta, da
un ethos vigente”, essendo essa “solo
un chiarimento teorico di questi ethos”, finisce per contrapporla agli
ecumeni. Egli parla di ecumeni e non di ethos perché “l’idea di ecumene è alla base delle concezioni geopolitiche in quanto
implica grandi spazi. Che ieri furono l’Ellade per i greci e la Romanitas
per i romani, come oggi lo sono Iberoamerica per noi o Angloamerica per gli
yankee. L’idea di ecumene mostra che il mondo è in realtà un pluriverso e non
un universo, come lo pensò l’illustrazione e il liberalismo politico”.
Mentre
condivido l’idea degli ecumeni – e la sua contrapposizione tra pluriverso (che
rappresenta meglio la diversità del glocalismo
rispetto al globalismo totalizzante) e universo- mi
risulta invece difficile capire perché negli spazi degli ecumeni non possa
rientrare l’etica, sia individuale che collettiva, dato che l’ethos ha radici
nell’essenza qualitativa dell’uomo
singolo come anche nella comunità di persone.
Supporre
che nell’Ellade greca pensatori come
Socrate, Platone, Aristotele e che nella Romanitas,
uomini come Catone, Cicerone, Seneca, Marco Aurelio (solo per citarne qualcuno)
ignorassero l’etica, mi sembra un’incongruenza imperdonabile.
Per me la politica – che non può essere
estranea agli ecumeni - esprime anche una delicata ma necessaria mediazione tra
i principi e i valori etici, e le situazioni concrete della vita sociale con il
proposito di raggiungere il senso ultimo della vita individuale e collettiva.
Una
ulteriore discrepanza con Alberto Buela concerne il pessimismo che lo induce a condividere con
Heidegger l’idea che “dopo lo
sconvolgimento della seconda guerra mondiale che lasciò sessanta milioni di
morti nel cuore dell’Europa, si è spezzata qualunque possibilità di esistenza
di un ethos universale come costitutivo basico per un umanesimo. Così che
parlare di umanesimo si è convertito in un non senso”.
Ammetto
che l’uso e l’abuso dei vocaboli umanesimo
e humanitas nel corso degli ultimi
secoli ci abbiano somministrato umanesimi dalle più diverse sfumature: quello
socialista di Jaurés, quello cristiano di Maritain, quello esistenzialista di
Sartre, fino ad arrivare a un umanesimo in chiave libertaria che cerca di
incorporare – come commenta Jacques Lafaye - la pianificazione economica ed
ecologica “ad una prospettiva sedicente umanista”.(6) E in effetti si può
concordare sul fatto che si tratti di un concetto troppo usato e abusato con
molteplici significati (persino contraddittori tra di loro) per potergli
affidare un ulteriore senso positivo, come denunciava Heidegger nella sua
“Lettera sull’Umanesimo” (1946).
Queste
adulterazioni del vocabolo umanesimo
abbisognano necessariamente di una rettifica semantica del concetto, coerente
con la sua origine ed eredità storica che risale all’uomo romano considerato
come uomo fondazionale: l’homo conditor,
aderente alla terra ed unito ad essa dalla sacralità che sgorga dall’uomo
stesso in quanto agricoltore che coltiva la justissima
tellus (così Carl Schmit definisce la terra perché accoglie, nutre e
ricompensa l’uomo per il suo lavoro).(7)
Nella
lingua latina il vocabolo agricoltura
indica “una direzione fondazionale dove il fondazionale si unisce al sacro nel
medesimo contesto”. Quando il romano rompe la terra e raccoglie i suoi frutti,
“ne percepisce la sacralità e attraverso l’agricoltura compie un’azione sacra”.
(8)
L’homo conditor
romano ha la sua proiezione storica nell’eroe politico del quale ci parla Gian
Battista Vico nella sua Scienza Nuova:
l’uomo che brucia la ingens sylva (la
foresta selvaggia) per ridurla a terra coltivabile e iniziare così i cicli
storici secondo una prospettiva religiosa che trova la sua matrice nell’altare
sul quale arde il fuoco sacro che alimenta e riscalda la vita.
Qui
l’umanesimo dell’homo conditor romano
coincide precisamente con la figura del conquistatore iberico che nella nostra
America fu fondatore di città, popolò i territori conquistati e si integrò a
poco a poco ai popoli nativi mediante un processo capace di forgiare in modo
eccezionale una nuova civiltà e una stirpe meticcia sorta dalla fusione di
culture e razze tra conquistati e conquistatori; mistura di guerrieri, monaci e
avventurieri che ha generato i tratti dell’uomo indo-iberoamericano il quale
possiede nel sangue una parte dell’idalgo e del gaucho, dell’europeo esiliato,
dell’indio oppresso e del meticcio insicuro.
L’homo conditor romano aspira alla
trascendenza dell’homo theoreticus
greco che coltiva l’amore contemplativo per la verità; perché il coltivatore
della terra e il costruttore di città ha necessità di incorporare la profanità
tellurica alla sacralità attraverso la partecipazione a un ordine numinoso. Ma
l’unione dell’homo conditor con l’homo theoreticus ha bisogno anche di un
terzo elemento rappresentato dall’homo
mediator spinto dall’eredità dell’homo
conditor; eredità assunta secondo una coscienza escatologica, vale a dire,
dalla preoccupazione per il fine ultimo dell’umanità in transito sulla terra.
Tutti
questi elementi restituiscono il giusto senso all’umanesimo concepito - come insegnava il mio maestro Marino Gentile
- come essenza della filosofia, perché la vera natura dei concetti ha il suo
fondamento nell’essere umano il quale non si sviluppa per arbitrio nel mondo
della storia, ma mediante libertà e varietà.(9) Cosicché il fondamento
teoretico dell’umanesimo si esprime nel sapere filosofico implicante “il
problema metafisico e il suo recupero attraverso il valore classico della
tradizione greco-romana, inserita però nelle esigenze del sapere
contemporaneo”.
Mentre
Alberto Buela conclude “che non esiste
nessuna ragione seria e fondata
per sostenere l’esistenza di un nuovo umanesimo” poiché “tanto la metaetica come la metapolitica ci
mostrano questa verità”, io mi azzardo a sostenere tutto il contrario,
perché privare la metapolitica del suo rapporto intrinseco con la metafisica,
l’etica e l’umanesimo significa svuotarla di ogni senso e contenuto, cioè farla
diventare sterile.
Raccogliendo
ancora una volta il magistero di Marino Gentile, affermo insieme a lui:
“L’umanesimo è celebrazione della bellezza della persona in quanto si
identifica nel sapere filosofico che senza residuo dogmatico alcuno,
problematizza tutta la realtà e considera la storia dell’uomo in tutte le sue
espressioni spirituali”.(10)
In
quest’ottica umanistica la metapolitica sviluppa una feconda dialettica tra la
gradualità dei valori etici e le istanze pratiche della politica, chiarendo in
tal modo la capacità della politica stessa di dirigersi verso una soluzione
positiva del problema della vita (veritas
salutaris), ispirata a un fondamento olistico della persona umana
restituita alla sua missione fondazionale pro
aris et focis. Ovvero, essa suscita e favorisce nell’inquieta società del
terzo millennio, la riunione di uomini liberi secondo la tradizione universale
romano-cristiana nella quale affiora nuovamente il progetto metapolitico di indirizzare
l’homo viator dell’era post moderna
del ventunesimo Secolo verso un modello di civiltà capace di elevare l’arte del
buon governo della Civitas hominum
attraverso la riconciliazione personale e l’armonia sociale sostenute dalla
Giustizia e dalla Concordia.
Solo
all’uomo, tra i diversi esseri viventi della terra, è concessa la possibilità
di raggiungere la grande Apokastasis,
vale a dire, il ripristino di ogni cosa
alla condizione originale che accompagna il trionfo del “rinascimento
interiore” come riaffermazione della libertà responsabile dell’uomo, rinato in
spirito e verità per riscattare in se stesso i veri e abbandonati diritti
dell’essere umano, secondo il suggestivo magistero di Giovanni Pico della
Mirandola conchiuso felicemente e brillantemente nel De hominis dignitate: creatura divina nel divino Pluriverso.
NOTE
1.-
Essendo la metaetica una disciplina segnata dall’utilitarismo e dal
pragmatismo, come giustamente chiarisce Alberto Buela, secondo il mio parere
può apportare ben poco alla metapolitica, almeno come io la concepisco (ovvero,
in senso verticale), e che valuta la politica diffondendosi per i sentieri
ardui della metafisica e dell’escatologia.
2.-
Marino Gentile (1906-1991). Formatosi secondo il magistero spiritualista
cristiano di Armando Carlini nelle prestigiosa Scuola Normale dell’Università
di Pisa; Cattedratico nell’antica Università di Padova (1951-1989), fu il
fondatore e animatore della “scuola patavina di filosofia” impegnata nella
riscoperta, in prospettiva attuale, della filosofia aristotelica concepita come
un contributo al riscatto della metafisica classica.
3.- Cfr. R.
PANIKKAR, El espíritu de la política:
homo politico. Península, Barcelona 1999, p.14.
4.- IBIDEM, p.
170.
5.- R.
PANIKKAR, Paz y desarme cultural. Ed. Sal Terrae,
Santander 1993, p. 103.
6.- Cfr.
JACQUES LAFAYE, Por amor al griego,
México 2005.
7.-
Cfr. C. SCHMIT, Il nomos de la????? Terra.
Ed. Adelphi, Milano 1991, p. 20.
8.-
Cfr. C.A. DISANDRO, Humanismo. Fuentess y
desarrollo histόrico. Ed. Decuss 2004, p. 364-369.
9.-
Cfr. M. GENTILE, Che cos’è il sapere.
Introduzione umanistica alla filosofia. Ed. La Scuola, Brescia 1947, p. 11.
10.-Cfr.
M. GENTILE, L’Umanesimo. Saggio
pubblicato in Le basi dell’unità europea.
Atti dell’Istituto Internazionale di Studi Superiori “Antonio Rosmini”, Bolzano
1956.
(traduzione dallo spagnolo di Letizia Fabbro)