Prefazione scritta da don Ferdinando Sudati
L'Autore di questo saggio, Pier Francesco Zarcone, è un credente, meglio,
un cristiano appartenente all'ortodossia, fornito di una laurea in diritto
canonico e autore di un precedente libro su Gesù*. Ma è anche uno
storico del movimento operaio di provenienza anarchica e da alcuni anni
esponente di un’associazione politica internazionale che si autodefinisce in
termini di «utopismo rosso». È anche un valente islamologo e altre cose ancora.
Questo sia detto per meglio inquadrare la genesi intellettuale del libro,
qualche sottolineatura che egli fa nel testo e per apprezzare l'onestà con cui
conduce la sua ricerca.
È raro trovare un laico, e non teologo di professione, che abbia la
competenza in materia religiosa e la capacità di comunicare il suo sapere,
attraverso la scrittura, quali ha l'Autore. Il lettore si troverà di fronte a
un'opera impegnativa, ma assolutamente non oscura o complicata, a motivo della
limpidità dello stile. Che è già un grosso merito.
Il messia armato tocca un tema
abbastanza discusso a metà del secolo scorso. Sebbene abbia avuto un interesse
piuttosto di nicchia, non ha perso di attualità neanche all'inizio del XXI
secolo, allorché nuovi approfondimenti storici e biblici, e una maggiore
indipendenza da schemi ideologici correnti, permettono di vedere con più
equilibrio la figura e la vicenda di Gesù. Tra il fare di lui un (aspirante)
messia che opta per la via militare e politica allo scopo di rovesciare il
potere di Roma, oppure un pacifista non violento che aborre anche solo l'idea
di usare mezzi energici per cambiare la società oppressiva del tempo e
instaurare il «regno di Dio» in terra d'Israele, forse c'è uno spazio
intermedio che potrebbe essere quello realmente occupato da Gesù. O in cui
potrebbe essersi collocato in alcuni momenti della sua vita.
L'Autore di queste pagine privilegia indubbiamente la storia, senza però
trascurare la dimensione teologica, perché quando si tratta di Gesù è quasi
impossibile separare nettamente i due ambiti (cfr. il capitolo «La
divinizzazione del messia Gesù»). Intanto, la presente ricerca mette a
disposizione del lettore una mole di nozioni generali attorno all'epoca e alla
persona di Gesù, ma che riguardano anche gli sviluppi successivi, e perfino
attuali, che richiederebbe altrimenti la consultazione di decine di libri.
Dunque, una miniera d'informazioni e di aggiornamenti su Gesù e il
cristianesimo. Prezioso anche il capitolo d'appendice, una carrellata storica
sui movimenti ereticali e le dissidenze religiose nel cristianesimo che arriva
sino all'oggi.
L'aspetto però decisamente insolito, per noi che non siamo specialisti in
materia, è proprio ciò che costituisce l'asse portante della ricerca, vale a
dire l'ipotesi – chiamiamola ora così – di un Gesù che aveva qualcosa a che
fare con le armi o, perlomeno, che non fosse del tutto estraneo a esse.
Dico subito: non nel senso del Gesù che compare in copertina, che pure è
un'immagine pittorica tutt'altro che banale e, anzi, pregevole. La copertina di
un libro deve attrarre, provocare qualche reazione, perché questo è il suo
scopo, e possibilmente condensare il tema del libro. Ma si dà per scontato che
possa andare un po' per suo conto rispetto al libro e quindi a essa non bisogna
chiedere troppo.
Il Cristo guerrigliero di Alfredo Rostgaard è una creazione di fantasia –
il fucile nemmeno esisteva a quell'epoca -, eppure interpreta un aspetto di
Gesù meno peregrino di quanto saremmo disposti ad ammettere. In questa immagine
molti uomini del nostro tempo potrebbero riconoscere Gesù e insieme
riconoscersi in lui. Di fatto, a latitudini diverse dalla nostra, così è stato
(si veda, in Appendice, «La teologia della liberazione» e «La croce e il
mitra») perché anche questo Gesù è in qualche modo presente nei vangeli.
Magari, non proprio con le armi in pugno – di questo non c'è testimonianza – ma
quantomeno nel senso che non ha obbligato qualcuno dei suoi seguaci, che le
portava alla cintola o sotto il mantello, a disfarsene.
Un grande esperto del giudaismo e del cristianesimo primitivo ritiene che
Gesù non progettasse alcuna campagna messianica politico-militare, sebbene il
suo messaggio avesse implicazioni politiche molto forti perché mirava a
cambiare l'assetto della società (1). Lo stesso autore fa notare come il
gruppo di Gesù non fosse del tutto pacifista, se era attrezzato quantomeno a
difendersi, come si legge in Mt 26,51: «Ed ecco, uno di quelli che erano
con Gesù impugnò la spada, la estrasse e colpì il servo del sommo sacerdote,
staccandogli un orecchio». In Luca sembrano più di uno quelli in grado di
colpire con la spada: «Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava
per accadere, dissero: «Signore, dobbiamo colpire con la spada?». E in
Giovanni, chi brandisce la spada ha un nome preciso, che non ci saremmo
aspettato: Simon Pietro, sebbene Gesù gli intimi di rimettere la spada nel
fodero (cfr. Gv 18,10-11). Una volta si dice espressamente che Gesù
abbia rivolto questo invito ai suoi seguaci: «Ma ora [...] chi non
ha spada, venda il mantello e ne compri una» (Lc 22,36).
Sono parole da prendere realisticamente o solo metaforicamente? Non c'è
dubbio che abbiano senso metaforico le sue parole: «Non crediate che io sia
venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada»,
ma non siamo sicuri che sia così anche per le altre. Ammesso che le parole
siano sue, perché anche qui si affaccia la questione degli ipsissima verba
Iesu, cioè del tentativo, per quanto arduo, di discernere quanto è
attribuibile al Gesù prepasquale piuttosto che alla libera interpretazione
degli evangelisti e delle comunità sorte dalla pasqua. In ogni caso, prima di
rispondere sensatamente all'interrogativo, leggiamo questo libro, che ha
precisamente lo scopo di riportare in luce un aspetto su cui la tradizione già
dall'inizio e per suoi motivi è stata incline a sorvolare e addirittura a
occultare. Non del tutto, però. L'operazione, infatti, non è riuscita alla
perfezione, perché ha lasciato marcatori, cioè tracce e indizi su cui gli
studiosi di oggi, con gli strumenti a loro disposizione, possono ancora
lavorare per ricostruire qualcosa della personalità di Gesù che sembrava
impensabile anche solo pochi anni fa.
Il messia armato non ha scopi
sensazionalistici e non intende sostituire il Gesù che ci hanno consegnato i
vangeli con un Gesù sbilanciato a tutti i costi sul versante politico, militare
e violento, ma farci capire meglio certi suoi discorsi e cosa può aver
determinato, a torto o a ragione, la sua condanna capitale. Come interpretare,
ad esempio, il versetto in cui Giovanni mette sulla bocca di Gesù le parole:
«Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto
perché non fossi consegnato ai Giudei» (Gv 18,36)? Cosa c'è dietro
queste parole? Non si avverte in esse un retroterra piuttosto concreto
nonostante il tentativo di epurarle? Hanno per caso subito un lavaggio semantico?
Dopo aver letto questo libro esse hanno acquistato per me un suono diverso,
sebbene non voglia trarne conclusioni affrettate. Per associazione mentale ho
pensato a un versetto simile: «O credi che io non possa pregare il Padre mio,
che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli?» (Mt
26,53). Con la differenza che mentre questo detto di Matteo appare
chiaramente iperbolico, quello di Giovanni conserva sfumature che potrebbe
benissimo avere fondamento nella realtà storica, e adombrare qualche progetto o
tentativo d'insurrezione, poi abbandonato perché considerato senza possibilità
di successo o non rispondente all'ideale di Gesù.
Un altro eminente studioso del Gesù storico non ha dubbi sul fatto che egli
abbia proclamato la resistenza non violenta contro l'ingiustizia
dell'imperialismo romano, per quanto non ne sia stato lui l'inventore poiché ci
sono state esperienze ebraiche di resistenza a Roma sia violente sia non
violente «prima, durante, e dopo il tempo di Gesù e [...] il programma di Gesù
per il Regno di Dio s'inserisce all'interno di tali opzioni contemporanee» (2).
Ma anche i ribelli non violenti erano giustiziati, sebbene in tal caso
venissero risparmiati i loro seguaci. La decisione di Pilato attesta quindi
l'aspetto rivoluzionario dell'azione di Gesù (3).
Sono suggestioni che aggiungono forse qualche sfumatura alle cose ben
fondate presenti nel nostro libro, i cui risultati non voglio anticipare perché
li deve scoprire il lettore accettando la fatica e il piacere di scorrere
queste pagine.
Voglio però proporre un piccolo esperimento, che mi è suggerito proprio
dall'affermazione dell'Autore che «l'icona più adeguata [di Gesù] non è stata
ancora dipinta», e a un suo fugace cenno al Gesù dell'iconografia cattolica che
mostra il suo «sacro cuore». Ammettiamo allora che a un cristiano cattolico sia
dato di scegliere unicamente fra due icone di Gesù, quella del guerrigliero di
Rostgaard e quella del sacro cuore, la cui devozione e immagine si deve a santa
Margherita M. Alacoque († 1690) e, nella versione più recente, a santa Faustina
Kowalska († 1938). Dove cadrà la sua scelta? Sicuramente su quella del Gesù
sacro cuore. Il nostro cattolico potrebbe addirittura sentire ripugnanza per
l'altra. Eppure, l'immagine di Gesù sacro cuore, per quanto a noi più familiare
e carica di buoni sentimenti, forse non è meno fuorviante di quella del Gesù
con moschetto ad armacollo. Prese in se stesse sono entrambe false o, se
vogliamo, tutte e due vere a patto che si integrino. Gesù non è quel buonista,
per non dire quel pacioso e melenso, qual è stato fatto passare da certa
agiografia. Se ha detto - o gli è stato attribuito il detto, non importa ora -
«imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), ha pure
dichiarato, sia pure in un contesto di parabola, «via, lontano da me,
maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt
25,41). E delle Scritture cristiane, più note come Nuovo Testamento,
fa parte anche un libro chiamato Apocalisse, zeppo d'immagini forti,
violente e perfino truculente, che hanno per protagonista sia Dio sia il
«Figlio d'uomo». Siamo per l'appunto nel genere apocalittico ed escatologico,
ma ciò non toglie che in quelle pagine si descriva, ad esempio, un Figlio
d'uomo con «in mano una falce affilata» che non serve precisamente per mietere
il grano ma per vendemmiare sulla terra un'uva da gettare «nel grande tino
dell'ira di Dio», la cui pigiatura darà una quantità industriale di sangue
(cfr. Ap 14,14-20).
Non è mia intenzione trarre conclusioni al posto del lettore. In certo
senso non lo fa nemmeno l'Autore, che con perizia e grande onestà accompagna il
lettore lungo la ricerca da lui compiuta, lasciandogli il privilegio e l'onere
di decidere se essere convinto o meno dalle argomentazioni che egli porta. Non
voglio però terminare questo invito a inoltrarsi nel viaggio affascinante
proposto dal libro di Zarcone senza desiderare per i lettori la mia stessa
esperienza, quella cioè di chi inizia un libro con una buona dose di sospetto –
per non dire di diffidenza - nei confronti del titolo e del tema,
prosegue in esso sentendo accrescere l'interesse, e termina con la convinzione
di avere scoperto una sfaccettatura nuova della figura di Gesù e del suo
ambiente storico. Forse il Gesù di «dopo» non coinciderà esattamente con quello
di «prima», ma ci sembrerà di conoscerlo e capirlo meglio, e di essere più
attrezzati per una lettura meno ingenua dei vangeli, ma più aderente alla
storia e alla fine più proficua, senza che nulla debba andare perduto della
ricchezza che essi rappresentano per la nostra vita.
don Ferdinando Sudati
Note
* Gesù. Profeta rivoluzionario, Macroedizioni,
Diegaro di Cesena 2007.
(1) Antonio Piñero, Ciudadano Jesús. Respuesta a todas las preguntas,
Atanor, Madrid 2012, p. 137-138.
(2) John Dominic Crossan, The
power of parable. How fiction by Jesus became fiction about Jesus,
HarperOne, New York 2012, p. 128.
(3) Ibidem,
p. 131.