di Primo Siena
Due destini incrociatisi a Roma
Non ebbi la ventura di conoscere personalmente Carlos Aberto Disandro in vita, ma tra il 7 ed il 9 marzo del 1975 mi incrociai con lui a Roma durante il congresso della Associazione Internazionale per la Cultura Occidentale (AICO) sul tema “La cultura del post-comunismo” e al quale l’eminente filologo argentino partecipava, accompagnato da altri due accademici del suo Paese: Hugo Bauzá dell’Università de La Plata ed Enrique Zuleta Álvarez dell’Universdità di Cuyo.
In quell’occasione assistii al alcune sessioni del congresso, però a quell’epoca non conoscevo ancora la meritata fama del filologo argentino per cui la sua figura fisica passò inosservata. Non così invece fu per il suo intervento, riassunto il giorno dopo in una cronaca del quotidiano Il secolo d’Italia, che archiviai diligentemente.
La cronaca riportata dal citato quotidiano presentava quel suo intervento con queste parole: <L’argentino Carlo Alberto Disandro, filologo classico di fama mondiale, rilevò in una esposizione appassaionata, che la semantica marxista ha invaso la cultura ad ogni livello, pertanto una cultura del post-comunismo dovrebbe ristabilire la giusta connessione tra la tradizione linguistica e le tradizioni popolari completamente travolta dal marxismo. Disandro indicava quindi tre orientamenti propri dell’ateismo posteriore al rinascimento che hanno alimentato il maxismo: uno di carattere teologico-filosofico, il secondo nell’ateismo del homo potens rerum, derivato dal razionalismo critico dei secoli XVII e XVIII, ed il terzo nell’ideologia ateista socio-politica contemporanea. Dinnanzi alle delusoni sofferte da certi strati dell’umanità per le oppressioni dell’ideologia marxista ed i suoi fallimenti, Disandro ha sollecitato il recupero delle autentiche fonti della nostra cultura classica nutrita del mistero teandrico del cristianesimo romano. Il dottor Disandro crede nella forza catartica di una semantica poetica in grado di aprire nuove vie al recupero ed all’instaurazione della creazione lirica sognata da molti poeti. Egli conclude il suo appassionato intervento riaffermando la convinzione che “il regno inviolabile delle Muse (quale inabitazione del Logos nel mondo), saprà affermarsi ancora una volta sui detriti di una ragione tecnificata sparsi dallo strutturalismo marxista nei campi della scienza linguistica”>.
Trascorsero lunghi anni (nel frattempo, per ragioni professionali mi ero trasferito stabilmente nell’America Latina) prima che mi fosse offerta l’occasione d’incontrarmi con Jorge Disandro, figlio di Carlo Alberto deceduto l’anno prima ad Alta Grazia, localià “serrana” nella provincia argentina di Còrdoba. Fu durante il “Terzo incontro iberoamericano di metapolitica” - organizzato dalla rivista cilena Ciudad de los Cesares a Viña del Mar (agosto 1995) - che attraverso il figlio venni introdotto gradualmente nel pensiero originale del filologo argentino, approfondito quindi successivamente mediante il contatto permanente con la comunità umana degli allievi e seguaci di Carlos Alberto Disandro, raccolti attorno alla “Fondazione culturale Decus” con sede nella città de La Plata.
Il provvidenziale incontro con Jorge Disandro, ravvivó in me, con il ricordo del fugace incrocio romano, l’interesse per ampliare ed approfondire il pensiero di suo padre che evocava quello di autori europei a me cari, politicamente e culturalmente scorretti come Giovanni Gentile, Oswald Spengler, Romano Guardini, Julius Evola, Charles Maurras, Attilio Mordini, Silvano Panunzio che avevano nutrito le inquietudini spirituali dei miei anni giovanili.
Nella metá del Novecento, il mio incontro con Guido Manacorda – campione della cultura alternativa dell’Italia postebellica, nutrito di solida patristica sotto severa disciplina aristotelico-tomista – aveva suscitato in me una intensa curiosità per la semantica; disciplina che poi – incamminato sul viale dell’autunno della vita – avrei approfondito appunto attraverso lo studio degli scritti di Carlos Alberto Disandro.
Il magistero di Guido Manacorda, associato alle lezioni di Marino Gentile seguite durante i miei studi nell’antica Università di Padova, aprì la mia mente al filone d’oro della cultura umanista in una società abbagliata dal mero progresso economico e tecnologico, ma debbo all’incontro intellettuale con l’opera di Carlos Alberto Disandro se la mia vocazione docente scavò nel profondo significato interiore di una educazione radicata nelle linee di una cultura umanistica che, iniziatasi storicamente nell’antichità, perdura nel tempo come categoria esemplare dell’umano, il cui midollo consiste nella profondità essenziale della parola quale logos fondante della linguistica.
Qui l’insegnamento di Disandro s’innesta nel pensiero del mio Maestro metapolitico Silvano Panunzio quand’egli afferma che per l’alessandrino Filone – grande ammiratore di Platone e del suo purissimo idioma – il Logos interiore (Pensiero) approfondisce il Logos exteriore (Parola); per cui lo stesso Panunzio da ciò ricava la seguente conclusione: <Nella sua massima espressione il Logos giovanneo è Parola interiore, Verbo non pronunciato che si fa visione rivelata>.
Con il senso trascendente e sacro del linguaggio concorda altresì Attilio Mordini – che mi fu grande e buon amico oltre che maestro insigne – quando nel suo aureo libro Verità del linguaggio (pubblicato postumo presso l’editore Volpe, in Roma nel 1974), appoggiandosi sull’autorità dell’opera principale di San Isidoro da Siviglia (Etimologiae), sostiene l’origine divina del linguaggio umano con queste parole: <Il linguaggio scaturisce dall’ineffabile perché nella sua essenza intima esso è circostanziale all’anima dell’uomo; e si manifesta quando la voce divina dell’Essere sorge sulle labbra del primo uomo dalla profondità del suo cuore e si deposita sugli animali e sulle cose>.
Alla ricerca di una geopolitica americana
Prima di giungere in territorio iberoamericano, avevo appreso qualcosa sulla geopolitica attraverso il pensiero di Karl Haushofer e Hans Wigert; ma la comprensione autentica dei traguardi umanistici di quella scienza la debbo all’insegnamento di Carlos Alberto Disandro; il quale in questa terra australe mi fece comprendere il suo significato romanico; un significato che appartiene agli abitanti di questo subcontinente americano sia per la tradizione semantica che per il destino di una stirpe di fondatori. Tale senso romanico si contrappone tanto ad un marxismo capitalista come al marxismo comunista, ambedue strumenti di una “geopolitica esoterica, tracciata in definitiva contro la terra e quindi contro l’uomo; geopolitica che rappresenta l’ irreggimentazione di una divinità mondiale infeconda che trasferisce all’uomo il dominio degli abissi del mondo con il pretesto di una supposta dignità dell’uomo, della ragione e della scienza”.
Fu attraverso il contributo intellettuale di Carlos Disandro che riuscii a comprendere il pericolo, nelle sue diverse sfaccettature geopolitiche, della “rivoluzione culturale” nordamericana propagata dai nefasti alchimisti del Council on Foreign Relations e che – spiega Disandro - <ha coperto l’utilizzazione delle guerriglie contronazionali sotto l’innocente e pomposo nome di diritti umani, diritti di Caino opposti al cadavere innocente di Abele; di quel Caino che per Tubalcan è il padre di qualunque geopolitica tecnocratica>.
Disandro in primo luogo rileva che in senso cosmografico, geologico e geografico l’America è un continente segnato da una intensa polarità, con caratteristiche opposte: boreali ed australi, artiche ed antartiche; caratteristiche che determinano la separazione tra gli oceani Atlantico e Pacifico. Secondariamente questo continente non ha né lingua né stirpe fondante, perché ció che in esso esiste non è originario ma derivato; non v’è in esso sacralità fondante, ma piuttosto una disponibilità ed apertura ad una sacralità recuperata da spazi diversi. Di conseguenza: <quando questo contesto entra nella storia universale – tra i secoli XV e XVII – lo fa nello spazio geopolitico aperto dall’impero romano e dai suoi risultati medievali, ma altresì nello spazio circoscritto dalle tensioni religiose di questi secoli>.
Quando il secolo XVIº segna la convergenza tra storia e geografia, le terra dell’Iberoamerica occupano lo spazio interno dell’impero romano, mentre l’America anglofona (coincidente più o meno con il Nordamerica) si estende alla periferia dello spazio suddetto. Da qui sorge la opposizione polare tra un’America ispana romanizzata e lo spazio dell’America britannica “ separata da quasi tutto l’orbe restante, come a suo tempo osservò il romano Virgilio a proposito dei britannici e degli iberici.
L’America Iberica abbraccia un territorio che dall’anno 1861 si conosce comunemente come America Latina; denominazione questa apparsa nella Revue de Races Latines di Parigi, ma risalente sia al francese Michel Chevalier, ideologo della teoria “Panlatina” di Napoleone IIIº, come al liberal-progressista cileno Francisco Bilbao, il quale la utilizzò in una conferenza dettata nel 1856 in Francia.
Il concetto di ”America Latina” costituì l’arma per rompere con le radici culturali ispaniche, identificate dagli indipendentisti “criollos” iberoamericani più radicali con la sudditanza allo straniero dell’epoca coloniale considerata come “epoca barbara”.
Osservo, a questo riguardo, che la denominazione di America Latina, a causa delle sue origini polemiche si è andata progressivamente logorando, mentre altre espressioni (come America Ispana o Iberomaerica) risultano alquanto riduttive rispetto d’ una realtà geopolitica più intensa e profonda essendosi essa proiettata in uno spazio interno romanizzato, come seppe intuire a suo tempo Tomas Stearn Eliot; il quale per quanto concerne il continente americano affermò:
<Quali eredi della civiltà europea, siamo tuttora cittadini dell’impero romano>.
Tale espressione giustifica la definizione del territorio iberoameircano di America Romanica coniata da Carlos Alberto Diosandro.
L’America Romanica e l’America Fenicia
Il concetto di Ispanicità che domina lo spazio iberoamericano si riconnette – a mi avviso – al significato di Impero Ecumenico Universale, per cui tale ispanicità nulla ha a che vedere con il nazionalismo illuminista alla francese o con l’ imperialismo dominatore degli anglosassoni. L’ispanicità rivela invece affinità evidenti con l’idea indoeuropea e romana dell’imperium, così ben chiarita dal tradizionalista italiano Julius Evola.
In coincidenza con Evola, anche Carlos Alberto Disandro sostiene che Roma fu sempre imperiale, sia nella sua lontana epoca monarchica come nella successiva era repubblicana perché questa era la vocazione del suo destino provvidenziale.
L’uso romano di lanciare ponti con arpioni dalle sue navi per agganciare i navigli nemici, permetteva di combattere nel mare come su una terraferma in miniatura. Analogamente, per gli Iberici – come già per gli antichi Romani – navigare significava conquistare, cioè: sbarcare in terraferma e farla propria. Navigare i mari, per gli Iberici come per i Romani costituiva un mezzo, non un fine.
L’impero romano aprí gli spazi dove si affermarono successivamente le lingue romanze. Questi spazi vennero assunti quindi dalla geopolitica iberica in una traiettoria transoceanica e transemisferica sulla quale navigò Cristoforo Colombo proiettando sull’impero iberoamericano gli archetipi atlantici dell’ecumene cristiana: abbondanza, sapienza, felicità.
La vocazione imperiale dei conquistatori iberici si manifestò in terra americana mediante l’assunzione del Diritto Romano e nella diffusione delle loro lingue romanze derivate principalmente dal latino dei Romani.
La lingua castigliana e il portoghese degli Iberici, propagandosi ai popoli conquistati, - come ricordava in un lontano 14 dinovembre del 1947 un colto uomo d’arme trasfornatosi in uomo politico, Juan Domingo Perón - <contribuì ad universalizzare e a rifondare nel mondo conosciuto la cultura greco-romana, matrice della civiltà occidentale>.
Lo spazio geopolitico dell’Impero Romano-Iberico (coincidente con i Paesi del Vicerame delle Indie Occidentali conquistato dagli spagnoli e l’Impero portoghese del Brasile) si colloca necessariamente in una posizione diversa e perfino antagonica rispetto allo spazio geopolitico del Nordamerica occupato ampiamente dagli Stati Uniti; i quali dinnanzi alle caratteristiche dell’America Romanica assumono in ragione delle loro radici storiche e antropologiche le caratteristiche di una America Fenicia.
Infatti lo spazio dell’America del nord fu colonizzato in maggioranza da puritani evangelici europei ed anglofoni guidati dalla legge mosaica del Vecchio Testamento interpretata fanaticamente. Considerandosi come “razza eletta”, essi si sentirono partecipi dello stesso spirito che animò gli antichi Israeliti contro i Filistei e praticarono quindi una politica di annichilamento radicale verso le tribú indigene degli indios pellirossa.
Di conseguenza questa America puritana ed anglofona si sviluppó secondo una geopolitica talassocratica di tipo fenicio, influita da una inclinazione commerciale di tipo marittimo ed associata alla dottrina religiosa del calvinismo secondo cui “il successo economico è un segno della predilezione di Dio”.
Esistette un’America, quella del sud, fedele alla sua anima celta, aliena quindi dallo spirito moderno, vincolata ad una cultura organica che univa l’uomo bianco all’indio, che coltivò la preferenza per le radici rurali e gli spazi aperti delle motagne e dei boschi, ma fu sconfitta dagli americani yankee, sedotti dallo spirito commerciale della rivoluzione industriale progressista nata in Inghilterra.
I nordamericani odierni sono gli eredi, nella loro maggioranza, dell’America commerciale ed urbana uscita vincitrice dalla guerra di secessione contro l’America rurale dei confederati. Per quest’America - come per gli antichi Fenici - navigare significa soprattutto commerciare secondo una modalità di dominio alla quale, se fallisce, si sostituisce la forza militare.
La figura del Nordamerica odierno non è quella, quindi, di una nuova Roma – come suggerisce una interpretazione superficiale – ma piuttosto la brutta copia di una Cartagine resuscitata.
Qualcosa di assai diverso occorse nell’America Iberica, nella quale il cattolicismo predominante e l’eredità ispanica favorirono la visione di una geopolitica territoriale di tipo romanico dove il navigare significa dirigersi verso la terraferma e farla propria per condere urbem, fondare insediamenti nuovi, gettare radici di nuove convivenze, costituendo questo obiettivo lo scopo e la finalità principale del navigante.
Disandro rileva che i conquistatori iberici delle terre americane applicavano il concetto romano del tueri terram, dell’amministrare la terra dandole un ordine secondo un bagaglio di saggezza implicita, perché nella etimologia di tueri (derivata dal verbo latino intueri) affiora appunto la parola intuizione che racchiude in sé i germi della sapienza.
Le considerazioni di Disandro mi hanno indotto a riflettere sulla differenza dei modelli di navi usate dai fenici e dai romani. I primi (i Fenici) navigavano su scafi snelli, rapidi che quasi si confondevano con le onde del mare; i secondi invece (i Romani), navigavano su scafi robusti e massicci, quasi dei fortilizi marittimi, la cui possanza si ritroverà nei galeoni spagnoli che solcheranno l’Atlantico ed il Pacifico per prendere possesso di territori americani ribattezzati con la denominazione di “Indie occidentali”.
I conquistatori iberici battezzavano le popolazioni dei territori conquistati trasformandoli ipso facto in cristiani elevati allo stesso livello etico dei conquistatori; e ciò accadeva perché lo sterminio programatico non entrava nel loro piano strategico di conquista. Di conseguenza gli abusi dei conquistatori (che ci furono) erano delitti gravi secondo il codice etico-legale del mondo iberico fondato sul trinomio libertà, carità, giustizia, princìpi del De Monarchia di Dante, successivamente adulterato dalla rivoluzione francesa che sostituirà la carità per la fratellanza e la giustizia per l’ uguaglianza.
Disandro, con un’ardita interpretazione, vincola la conquista iberica delle Indie occidentali all’umanesimo latino radicato nell’uomo romano definito come homo conditor, cioè l’uomo fondatore d’imprese profondamente aderito alla terra “giacchè aggiunge ad essa un ámbito di sacralità che nasce dall’uomo medesimo: l’agricoltura”. E qui il filologo Disandro ci ricorda che il vocabolo agricoltura è eminentemente latino, trattandosi di un vocabolo collegato con i riti di fondazione che nella cultura arcaica romana sono collegati all’operazione agricola di segnare nel terreno con l’aratro il traccciato delle mura entro le quali erigere la civitas.
Attraverso il rito sacro di fondazione, l’homo conditor eleva il suo atto umanistico agli spazi della trascendenza perché, annota Disandro: <Ogni atto umano fondamentalmente è sempre un’azione sacra e pertanto, quando apre le vene della terra come quando ne raccoglie i frutti , il romano percepisce il sacro nell’agricoltura e per mezzo di essa egli compie un rito sacro che attraverso questa modalità lo vincola allo spazio cosmico>.
Qui, l’uomo romano, definito homo conditor da Disandro, richiama alla memoria la proiezione storica dell’eroe di cui ci parla Giovanbattista Vico nella sua famosa Scienza Nuova; cioè l’uomo primitivo che brucia la ingens sylva per ridurla a terra coltivabile e dar inizio così ai cicli storici secondo una propspettiva religiosa che trova la sua matrice nell’altare sul quale arde il fuoco sacro che scalda ed alimenta la vita. L’umanesimo latino dell’homo conditor romano s’innesta perfettamente sulla figura del conquistatore iberico che in terra americana consolida la sua conquista fondando città, popolando i territori conquistati e integrandosi progressivamente nelle popolazioni indigene mediante un processo che darà vita ad una stirpe meticcia sorta dalla fusione di culture e razze tra gli indigeni ed i conquistatori: mistura di guerrieri, monaci ed avventurieri che costituisce il segno distintivo dell’uomo indoamericano che fonde in sé le caratteristiche psico-spirituali dell’idalgo iberico e dell’indio locale. Infatti nello spazio dell’America di lingua romanza, il processo d’integrazione razziale costituisce, più che una questione di pelle, un processo di osmosi vitale e socioculturale mediante il quale ispanismo e indigenismo si amalgamarono nella latinità romanica.
Mescolandosi i conquistatori con le popolazioni indigene attraverso un processo di assimilazione culturale e religioso culminato nel crogiolo della cristianità romana, si forgiò una razza che il messicano José Vasconcelos definì cosmica, analoga alla razza rossa atlantidea, gli elementi caratteristici della quale prevalgono negli elementi somatici delle popolazioni mesoamericane e dell’America andina integratesi nella civiltà romana dei conquistatori iberici con i quali hanno formato una nuova civiltà.
Questa civiltà risulta dalla fusione dell’uomo ellenico – definito da Disandro homo theoreticus, coltivatore di un amore costante per la verità – con le caratteristiche del vir romano, coltivatore della terra e fondatore di città. L’elemento di questa fusione è dato dall’homo mediator che fa dell’abitante dell’America Iberica un suscitatore di simboli secondo l’etimologia greca della parola (syn-balléin) derivata da un verbo che significa “porre in contatto, riunire” e di un termine che esprime il tutto, sicchè il vocabolo “simbolo” abbraccia la totalità per estenderla, quindi, ad una relazione dinamica tra il visibile e l’invisibile
Non a caso il condor, signore delle altezze celesti, nella mitologia andina è considerato “messaggero del sole”, simbolo di quella nuova stirpe cosmica che popola l’America Romanica.
Mi sembra interessante, rilevare a questo punto, che il processo d’assimilazione religiosa e culturale culminato nel crogiolo di una razza cosmica euroindia, trova il suo simbolo nell’apparizione misteriosa della Vergine di Guadalupe; simbolo per cui il fatto della conquista è assunto non come un atto di subordinazione dei sudditi ai loro conquistatori, bensì come un rito reso attraverso il tributo offerto al re di Spagna; rito inteso come un atto sacrificale incruento, estraneo a qualunque valore venale di scambio.
Il cattolicismo prevalente nella società iberoamericana, ha radicato – come commentava a suo tempo Carl Schmitt – l’America Romanica ad una visione geopolitica continentale quale elemento decisivo del suo destino.
Il simbolo guadalupegno – come intuì altresì Carlos Alberto Disandro – ci indica il destino escatologico e metapolitico preconizzato nella polarità iniziatica delle terre dell’America Romanica; e in questo simbolo Michele, l’Arcangelo guerriero, assume un ruolo protettore, quello di un katekón; cioè della forza che impedisce la tentazione di espandere nello spazio dell’America Romanica le potenze acherontiche che tentano di ridurre ed occultare la nostra concezione religiosa della vita, come sta accadendo nei Paesi occidentali dell’emisfero boreale dove sta prevalendo un eccesso di razionalismo e di vitalismo materialista.
Tutte le caratteristiche dello spazio umano, storico e geopolitico dell’America Romanica, nei secoli XVIIIº e XIXº si sono adulterate per l’influenza del movimento concettuale e politico dell’illuminismo europeo; influenza esercitatasi sullo sviluppo del processo d’indipendenza del continente americano che, distorsionandosi, s’ imbastardì.
Simon Bolivar, Antonio José de Sucre, José de San Martin, Bernardo O’Higgins, Juan Manuel de Rosas, coltivarono un progetto incompiuto d’indipendenza dell’Iberoamerica volto a conservare gli spazi imperiali e linguistici dell’America Romanica per proiettarli sull’ incrocio dell’asse polare, il cui destino è il Sud, e l’asse emisferico il cui destino è un manifestarsi nello spazio geopolitico continentale che abbraccia i due oceani, l’Atlantico e il Pacifico. Ma con il trascorrere del tempo si andò spegnendo l’orgoglio dei padri fondatori dell’indipendenza americana. La maggioranza della classe dirigente iberoamericana progressivamente si rassegnò a vivere in un rapporto di dipendenza culturale ed economica foranea. L’imitazione di modelli xenofobi è purtroppo all’origine del dramma storico-sociale delle nazioni iberoamericane, le quali tagliarono i loro vincoli con le proprie radici tradizionali sommergendosi in una ricorrente oscillanzione tra regimi tirannici e periodi d’anarchia, tra una democrazia ridotta a puro formalismo e pseudocesarismi civico-militari: forme mascherate di vassallaggio verso la dominazione straniera.
Carlos Alberto Disandro, affrontando questa perniciosa realtà – definita come “Invasione globale” - e navigando come sempre contracorrente - ha osato elevare la sua voce potente e sapiente per bandire una seconda guerra d’indipendenza contro l’imperio dell’usocrazia e di una ecumenicità apatrida, antiteandrica e antiperborea. Al tempo stesso ha indicato un cammino metapolitico in grado di rinnovare in terra americana l’antico rito del condere urbem onde rivivere nuovamente la tradizione romana dell’atto di fondazione mediante la quale collocare la pietra angolare del regime fisico-semantico della Res publica nello spazio profondo e concreto della vita politica e della cultura: spazio orientato dai punti cardinali di una geopolitica bioceanica volta a dominare il mare non secondo le regole del commercio, ma quelle classiche del conquistatore marittimo che considera romanamente il mare come corpus e pontus.
Disandro riproponeva insomma l’etica del “navigare necesse” osservata dai popoli ancorati alla terra e che trova la propria proiezione nell’avventura marittima di Enea e Cristoforo Colombo, edotti nella semantica del governare, orientare la rotta per dominare l’ignoto, dirigere le volontá dei popoli iberoamericani verso il progetto emancipatore della seconda indipendenza.
Fu con una visione di futuro nutrita di cultura classica che il grande filologo argentino volle ribattezzare la mistica terra sudamericana come America Romanica della quale egli, vigoroso pensatore olistico, auspicava la rinascita nel senso romano-italico che fluiva dalla antiche radici dei suoi antenati
Per tutto questo, e per molto di più, Carlo Alberto Disandro ha meritato il titolo di aedo, secondo il significato autentico del vocabolo greco (derivazione di aoidós); cioè il titolo di cantore della antica tradizione epica che egli ha recuperato e rinnovato nel secolo ventesimo. Aedo metapolitico, quindi, secondo una prospettiva sacra e trascendente della costante conversione vichiana del Factum nel Verum mediante la idea-forza del mito che in tempi di confusione babelica riafferma il decoro del Verbum con il decoro dello spirito nell’anima e nel cuore dell’uomo americano; e gli apre contemporaneamente l’erto cammino ascendente verso quel principio iberboreo in cui - come cantò lo stesso Carlos Disandro – “se vive incólume, en la incólume edad de oro de aquella fiesta que convivió Perseo”.
Cantore epico, dunque, di quella metapolitica che costituisce la sublimazione spirituale, concettuale ed estetica della politica reintegrata nel suo spazio luminoso, trascendente dell’Arte del Buon Governo, così ben raffigurata dagli affreschi dipinti da Ambrogio Lorenzetti sulle pareti del Palazzo Comunale di Siena.
Sulla sua tomba, custodita sulle colline di Alta Grazia – nome altamente simbolico del luogo che raccoglie nel suo nome, il patrimonio incalcolabile del suo legato spirituale e culturale – sta inciso, nel suo castigliano sonoro, questo verso poetico:
He cantado piadosamente el fuego
En tiempos de su reino oscurecido
Quel fuoco, pietosamente cantato da lui, riscalda ed illumina il bivacco dove restano fraternamente riuniti tutti coloro che coltivano il suo magistero, in attesa vigilante di una rinnovata aurora dell’America Romanica.
1)Carlos Alberto Disandro, umanista e poeta, fu il maggiore filologo classico dell’Argentina nel secolo XXº. Nacque il 2 giugno del 1919 nella città di Córdoba (Argentina). Cattolico militante fin da giovane, autore di libri che segnano con una indelebile impronta personale la cultura argentina della seconda metà del Novecento, visse una traiettoria académica accidentata. A causa della sua adesione al Movimento peronista fu espulso dalla cattedra universitaria dai governi che succedettero alla caduta di Perón (16 settembre 1955); vi fu reintegrato solo con il ritorno di Perón alla presidenza della nazione argentina il 23 settembre del 1973, ma fu nuevamente epurato dopo la morte del generale ed il ritorno di una dittatura militare (24 marzo 1976). Continuó con tenace volontà e coerenza il suo magistero fondando istituzioni culturali private; tra esse merita d’essere ricordata soprattutto la “Fondazione Culturale Decus”. Morì nella località cordovesa di Alta Gracia il 25 gennaio del 1994.
2)Jorge Disandro, docente di materie tecnologiche nell’Università de La Plata, ha assorbito dal padre una forte cultura umanistica (domina perfettamente il greco classico e la lingua latina, coltiva il canto gregoriano). Presiede con acume e capacità organizzativa la “Fundación Cultural Decus” dedicata alla diffusione del pensiero del padre e, nel solco di quello, alla coltivazione della cultura umanista classica nello spazio dell’America Romanica. Il contatto con Jorge Disandro e La
3)L’affermazione di Eliot si trova in On Poetry and Poets , Farrar, Strauss, New York 1957, p. 135-148; e precisamente nel cap. “Virgil and the Christian World. Una sua traduzione italiana si trova c/o Bompiani, Milano 1960 , sotto il titolo “Virgilio e la Cristianità” in: Sui Poeti (p. 133-45).
4)Traduzione italiana: Ho cantato pietosamente il fuoco / nei tempi del suo regno oscurato. Questo verso appartiene al lungo poema intitolato Sonetos a la gloria del fuego. Ed. Hosteria Volante, La Plata, 1972. Pag. 132.