Avanzati ormai nel Ventunesimo secolo, potevamo sperare in un rinnovamento delle tematiche biologiche, da centocinquanta anni stagnanti intorno al concetto di evoluzionismo, piamente fedele alla Parola dell’ultimo profeta, Charles Darwin. Non ci sarebbe da allarmarsi per una teoria mal definita e troppe volte contraddetta, per una teoria che si ostina a non abbandonare il campo, particolarmente in un’epoca di rapido rinnovamento di paradigmi. Non voglio qui riprendere una discussione scientifica su una enunciazione che per me giace da tempo nel magazzino polveroso della scienza archiviata, ma ribellarmi alle disastrose implicazioni filosofiche e morali che la Teoria seguita a produrre sull’uomo moderno, che in certo modo è “moderno” proprio in virtù della tesi darwiniana. Sto scrivendo al computer e mi accorgo che la parola “Gesù” è sottolineata in rosso come straniera, mentre la parola “Darwin” è entrata nell’italiano corretto. Scriveva Stuart Mill: “Accade spesso che un convincimento, universale durante un’epoca, … in un’epoca successiva diventi un’assurdità così palpabile che l’unica difficoltà è quella di cercar di capire come mai una simile idea possa essere apparsa credibile”. Ciò è stato reso possibile dalla caduta di livello etico e accademico che si è avuta nell’epoca vittoriana e nel secolo successivo. Ha scritto il biologo W. H. Thompson nell’introduzione alla edizione centennale de “L’Origine delle Specie”: “Questa situazione, dove uomini si riuniscono a difesa di una dottrina che non sono capaci di definire scientificamente, e ancor meno di dimostrare con rigore scientifico, tentando di mantenere il suo credito con il pubblico attraverso la soppressione della critica e l’eliminazione delle difficoltà, è anormale e indesiderabile nella scienza”. Più che il danno che la via distorta aperta da Darwin ha recato alla scienza, preoccupa il detrimento morale e culturale che esso ha arrecato e arreca al mondo. In un’epoca in cui il male della terra è identificato con la persecuzione razziale, che è considerata il simbolo del male, è decente che la nostra filosofia e la nostra economia (e l’educazione dei nostri figli) siano fondate sul principio infame della sopraffazione del debole da parte del più forte, del “might is right”? E non si dica che questa è una mia interpretazione malevola del pensiero darwiniano. Queste parole, che cito con raccapriccio, sono di Charles Darwin, nella sua “Origine dell’Uomo”: “Tra tutti gli uomini ci deve essere lotta aperta; e non si deve impedire con leggi e costumi ai migliori di avere successo e di allevare il maggior numero di figli. Tra qualche tempo a venire, non molto lontano se misurato nei secoli, è quasi certo che le razze umane più civili stermineranno e si sostituiranno in tutto il mondo a quelle selvagge”. Questa non era una prospettiva da scongiurare, ma un preciso auspicio. Era l’unico modo per l’uomo di evolversi, secondo i canoni della teoria della selezione naturale, l’unico modo per aumentare la distanza tra i gentiluomini anglosassoni e gli scimmioni africani. Quando ho segnalato il pezzo sullo sterminio delle razze ai miei colleghi darwinisti, nessuno ha francamente preso le distanze dal Profeta della discriminazione, e qualcuno si è limitato a dire che era opportuno collocare la sbadata affermazione darwiniana nel suo contesto vittoriano. Ma nel secolo ventesimo e ancora in questo quegli stermini sono stati messi in atto, prima ancora di quando Darwin avesse previsto. Albert Einstein aveva scritto queste parole inascoltate sul darwinismo: “La teoria di Darwin sulla lotta per l’esistenza e sulla selezione ad essa connessa è stata da molti assunta come una autorizzazione a incoraggiare lo spirito di competizione… Il mondo attuale assomiglia più a un campo di battaglia che ad un’orchestra. Dovunque nella vita economica come in quella politica il principio guida è quello della lotta spietata per il successo a danno dei propri simili”. L’estremo darwinista, Richard Dawkins, deve essersene accorto, trovando comunque il modo di salvare il darwinismo. Anche il cancro, ha ragionato, è un malanno terribile, ma questa non è una buona ragione per non coltivarne lo studio. E’ però una buona ragione per combatterne la diffusione, e nessuno mi risulta stia cercando di debellare Darwin e i suoi effetti. Rimane ai darwinisti l’ultima e inappellabile risorsa, quella di celebrare la grande Teoria come baluardo contro la superstizione e il pregiudizio. Procurarsi un avversario di comodo, un uomo di paglia. Ed eccoli impegnati a dimostrare che hanno ripreso a sventolare le insegne del “creazionismo”. Ritorna il ridicolo racconto del Genesi, che risolverebbe l’origine della vita e delle specie con un artificioso “deus ex machina”, creatore di tutte le specie con una bacchetta magica, in un paradiso terrestre, all’incirca cinquemila anni fa. Il nuovo creazionismo protestante avrebbe solo l’astuzia di nascondersi sotto il nome di “Disegno Intelligente”, senza modificare di un nulla la biblica superstizione. Non voglio entrare nella disputa americana, che è soprattutto una disputa se sia il caso di disputare. Voglio solo dissociarmi dalla pericolosa asserzione della “neutralità” della scienza e quindi del suo diritto a una totale libertà. Una scienza che si fonda, come il selezionismo, sulla banalità del male è cattiva scienza. Una scienza che esalta la malvagità naturale per negare Dio e la ragione è cattiva scienza. Anche i fisici che allestirono a Los Alamos la bomba atomica fecero cattiva scienza, indirizzando la ricerca verso obiettivi criminali. Forse decretarono la morte della scienza e la sua affiliazione alla politica. E aveva ragione Oppenheimer quando, davanti allo spettacolo della prima esplosione nel deserto di Alamogordo confessò sconsolato: “Abbiamo fatto il lavoro del diavolo.”
Nessun commento:
Posta un commento