02/12/19

Il grattacielo e il formichiere di Carlo Gambescia. Sociologia del realismo politico


di Aldo La Fata

Carlo Gambescia ha scelto come titolo del suo ultimo libro una suggestiva ed efficace metafora sapientemente espunta dall’opera poetica di Eugenio Montale, quella del grattacielo e del formichiere, figure che ci ricordano la duplicità di registri in cui si muove l’umano proteiforme, costantemente diviso tra altezze vertiginose e avvilenti bassezze. Il “realismo politico” che è l’opzione teorica dell’Autore, parte da questa evidenza antropologica, per approdare infine a quella “retorica della transigenza” dominata dal principio gnoseologico della comprensione su base etica. Gambescia, frequentatore assiduo del pensiero liberale alla cui scuola multiforme e multiversa si è lungamente e solidamente formato, abituato al pensiero rigoroso e all’approccio sine ira et studio, parte da un tentativo filosofico di definizione della “realtà” in rapporto al soggetto percipiente, condividendo l’opinione dello psicologo sociale Leon Festinger secondo il quale la realtà, non in sé ma come significato, è soggetta ad un fenomeno di “dissonanza cognitiva”, ovvero di incapacità dell’individuo di accordare desiderio e rappresentazione della realtà, esattamente come accade nella celebre favola attribuita ad Esopo La volpe e l’uva: la volpe affamata, incapace, perché per lei troppo in alto, di afferrare l’uva che pende dal pergolato, elabora allora la conclusione che si tratta di frutti acerbi che non è il caso di raccogliere.
Giacché la realtà con la sua complessità eccede sovente la nostra capacità di comprensione, piuttosto che pervenire a conclusioni azzardate o fallaci, è preferibile e forse anche conveniente, relativizzare le proprie convinzioni. In questo modo ci si immunizza anche da quei funesti e pericolosi radicalismi ideologici che, com’è noto, hanno sempre prodotto conflitti e guerre.
Niente faziose partigianerie dunque, né pro né contro questa o quella idea, ma distaccata e lucida analisi della realtà “a guardia dei fatti”. È questa in brevissima sintesi la posizione filosofica di Gambescia ascrivibile in certo modo al relativismo gnoseologico di un Socrate, ma applicato alle scienze sociali e solo come “metodo” di studio e non alle personali verità acquisite o alla verità  tout court. L’etica ad esempio, pure se alla fine il bene viene fatto coincidere con il male minore o con l’utile, vale sempre come principio regolatore generale. Su questo Gambescia non transige neanche come sociologo.
Resta la difficoltà di armonizzare e rendere coerenti le dissonanze interpretative con le quali lo studioso si imbatte costantemente e che ne mettono costantemente a rischio le analisi. Il metodo induttivo seguito da Gambescia che, com’è noto, procede dal particolare all’universale, lascia la porta aperta a ulteriori approfondimenti e indagini, a domande a cui seguiranno sempre nuove domande perché mai in una realtà mutevole e cangiante le risposte possono essere definitive. È allora buona norma confrontarsi con i risultati conseguiti dai colleghi. In questo senso Gambescia si serve di un’ampia messe di autori di vasta erudizione: dai classici M. Weber, V. Pereto, G. Mosca, R. Michels, P.A. Sorokin, J. Freund, B. Croce, Ortega y Gasset, W. Röpke ai più attuali J. Molina, E. Shils, R. Aron, I. Berlin, T.J. Geiger, R. Niebuhr. M. Wight, D. Negro, G. Miglio, A. Del Noce.
C’è infine un ulteriore strumento richiamato da Gambescia che può aiutare il sociologo e il realista politico nel discernimento, e questo è l’ironia.  Il ricorso dialettico e socratico all’ironia garantisce il realista dall’irrigidirsi nei confronti di chi non la pensa come lui e gli consente di analizzare i fatti con il dovuto distacco, senza farsi coinvolgere troppo né dall’emotività, né dalla passione politica. Insomma, un sottile contrappeso antidogmatico alla hybris interpretativa di una certa razionalità moderna a volte propensa alle domande a risposta chiusa.
Quando si parla di “realismo politico” di solito si pensa subito alle posizioni di un Machiavelli o di un Thomas Hobbes, ma nel caso di Gambescia la questione è più sottile e meno scontata. Gambescia per se stesso ha scelto la divisa del “liberalismo triste”, archico-conservatore, “né soddisfatto, né insoddisfatto, né conservatore, né progressista, né devoto allo Stato, né al Mercato, bensì, più semplicemente a guardia dei fatti” (traggo la citazione dal libro di Gambescia che tratta specificamente questo soggetto Liberalismo triste. Un percorso: da Burke e Berlin, Ed. Il Foglio, Piombino 2012).
Gambescia ha adottato anche un’altra espressione per definire la sua posizione: metapolitica, da lui definita “scienza dei mezzi e dei fini” che si avvale delle costanti sociologiche e politiche storicamente riscontrabili per interpretare la storia. Punto di vista indubbiamente troppo elevato per piacere e compiacere i miserabili dilettanti della politica allo sbaraglio della nostra povera Italia da non potersi paragonare neanche alla lontana ai Lincoln, Bismarck, Lioyd George, Roosevelt il cui realismo politico l’autore porta ad esempio per caratterizzare storicamente la sua posizione teorica e pratica.
Nella seconda parte del libro, Gambescia affronta la dottrina criminogena della politica il cui registro è l’indifferenza verso il male (Silvano Panunzio qui avrebbe parlato di criptopolitica), l’affievolirsi e quasi lo spegnersi della sensibilità etica e cognitiva con il conseguente e inevitabile pervertimento dello Stato e anche dell’idea di Stato con i nazionalismi totalitari del Novecento che ben conosciamo. È storia di ieri. Storia di oggi potrebbe essere il cosiddetto “sovranismo populista” se non ci fosse il sospetto, come insinua forse con lungimiranza l’autore, che si tratti di un semplice “bluff politico” (p. 48).
E qui Gambescia fa entrare in gioco le riflessioni sui meccanismi di interdipendenza sociale di Theodor Julius Geiger che ci ricorda la pericolosità degli atteggiamenti divisori e tribali e l’importanza della cooperazione collettiva per evitare di finire in rovina. Su questo punto, in una nota, Gambescia cita il dimenticato Giuseppe Ferrari (1811-1876): “Siamo sul nostro pianeta, come l’equipaggio sulla nave; giungerà essa in porto? potrà attraversare l’oceano del vuoto? Havvi un porto? I venti possono sommergere la nave, gli scogli possono infrangerla; le malattie, la fame, il freddo possono mietere l’equipaggio; nel fatto, i marinai muoiono, le vele sono squarciate, sovente le braccia mancano al lavoro, qualche volta eccedono; non si conosce la nave, non fu bene esplorata: per lungo tempo operavasi come se il porto fosse a qualche lega di distanza, disprezzavansi gli istrumenti, il sartiame, i viveri ammassati nella stiva. Ma conviene avanzare, il cielo vuole che si passi, uccide chi si ferma; vieta il retrocedere. Bisogna operare come se vi fosse un porto, come se i venti fossero destinati a condurci, come se le rupi, le sabbie, le correnti fossero create a bella posta per tener desta l’attenzione dell’equipaggio. La vita vuol che si viva” (Filosofia della rivoluzione, 1851).
Ora, “l’unica forma politica finora escogitata dall’uomo che rende”, scrive Geiger, “relativamente sopportabile a tutti l’inevitabile coercizione esercitata dalla collettività sull’individuo è la democrazia” (p. 59). Una democrazia pragmatica però fondata sulla funzionalità degli interessi economici (il tanto vituperato e criticato da destra e da sinistra “governo dei tecnici”, ma in Gambescia con un supplemento di senso politico) e non sulle emozioni o peggio sulle passioni individuali e collettive.
Realismo politico quello di Geiger, come quello del grande politologo spagnolo Dalmacio Negro Pavón, che ha parlato con inventiva di “política farmacológica” per distinguerla sia dalla “politica utópica” (un assetto ideale che non troverà mai riscontro nella realtà) che dalla “politica cratològica” (basata sull’uso della forza), entrambe foriere di conseguenze negative per tutta la società e che spesso sfociano, come ci ricorda Gambescia, in una politica criminogena e criminale. Bisognerà allora riesumare il vecchio detto di Voltaire e che Don Bosco soleva ripetere continuamente: “l’ottimo e il meglio sono spesso nemici del bene”. Quindi, realisticamente, in politica è sempre bene rimanere con i piedi piantati per terra e non disperdere sforzi ed energie in progetti impossibili.
Emerge da tutto questo discorso, che qualche lettore potrebbe anche disapprovare, ma che onestamente non fa una grinza, l’urgenza di un rinnovato senso di responsabilità che faccia evitare alla società italiana e al mondo politico a cui è rivolto quasi come un accorato appello, le pericolose derive demagogiche del qualunquismo e dell’anti-democrazia. I richiami di Gambescia al metodo socratico maieutico che invita a non smettere mai di interrogarsi e all’impegno civile dell’intellettuale, ci sembrano, in ultima analisi, le cifre etiche e, se l’autore ce lo consente cristiane, di questo libro. Un punto prospettico che pur restando tutto interno al perimetro accademico e scientifico delle scienze sociali, non è per niente irrilevante, perché, come dicevano i medievali, il “recte vidère” è sempre alla base del “recte fàcere”.