di Paolo Ciccioli
Les monuments sont les
crampons qui unissent une génération d’une autre.
Joseph Joubert
In tempi “ultimi” come quelli che stiamo vivendo anche ricerche
dal carattere non volutamente metapolitico possono contribuire a metter luce
nelle ombre che occultano la coscienza dell’uomo. Il testo di Medardo Arduino -
Le radici mediterranee dell’Europa per
una nuova visione della storia, primo di due volumi, offre una metodologia d’interpretazione
storica fondata principalmente sulle discipline socio-economiche, sulla
logistica e sulla storia dell’architettura. Muovendo da tali ambiti del sapere
e dall’osservazione empirica della cultura materiale antica, l’architetto
Arduino compie una lettura della storia italica preromana che è indubbiamente
corretto definire rivoluzionaria. Per dissipare le nebbie e vincere le
superstizioni infatti, occorre a volte quella praticità tipicamente americana
così ben narrata da Oscar Wilde ne Il
fantasma di Canterville. Il fantasma in questione però vive nelle Marche e
possiamo ben dire che è stato smascherato dall’architetto Arduino, con la
collaborazione di Fabrizio Cortella, dopo che ad evocarlo e a denunciarne la
presenza era stato nel 1975 il grande etruscologo Massimo Pallottino che ebbe a
dire «Noi abbiamo un grande fantasma che ci perseguita da molti decenni:
sull'Adriatico questo fantasma sono i Piceni». Ma se a Canterville la fuga del
fantasma produceva una certa mestizia per un senso del soprannaturale che lo
scientismo e il progresso avevano contribuito a dileguare, in questo caso si
può dire che le verità storiche mostrate possono aprire semmai degli scenari dal
risvolto pienamente metapolitico per
la nostra epoca e certamente per l’Italia.
Le ricerche di Arduino prendono le mosse dagli studi di
Giovanni Carnevale sulla tesi di Aquisgrana in Val di Chienti, ma hanno prodotto
negli anni argomenti affatto originali ed indipendenti. La domanda che si è
posto inizialmente Arduino, la cui capacità di interpretazione della storia di
edifici oggi riadattati nelle funzioni e nelle forme è davvero rara, è come
giustificare la ricca presenza di manufatti antichi nelle Marche. Chi ha
finanziato le numerose strade, città, pievi, castelli, municipi presenti nel
centro Italia? Per rispondere a queste domande l’architetto piemontese ha adottato
la propria metodologia elaborata in occasione della sua tesi di Laurea al Politecnico
di Torino, sotto la supervisione del Prof. Andrea Bruno. Secondo tale
metodologia «per leggere il messaggio testimoniale di un manufatto è necessario
conoscere e percorrere tutta la complessa catena di azioni che hanno portato
dalla sua realizzazione allo stato di fatto che è sotto i nostri occhi». Uno
stato di fatto che non è facilmente modificabile come invece per i documenti
scritti, e che può essere intrepretato a partire dall’‘orizzonte tecnologico’,
il quale «comprende tutto l’insieme accessibile delle pratiche esecutive e
delle attrezzature specifiche, le materie grezze e/o i manufatti semilavorati,
in altre parole l’insieme complessivo del saper fare e delle disponibilità dei
materiali e delle fonti energetiche, senza i quali non si può soddisfare
nell’oggetto che si va a produrre, l’originale requisito funzionale». A partire
dallo studio dell’‘orizzonte tecnologico’ che li ha prodotti, i manufatti
possono essere datati in maniera accurata, contribuendo così all’accrescimento
della conoscenza relativa ad una specifica cultura.
Prima di procedere alla presentazione, è necessario
ricordare una regolarità storica ben conosciuta, quella della damnatio memoriae che i Romani ci hanno
tramandato, per cui i popoli sconfitti sono destinati a vedere divelta la loro
memoria storica. Affine alla damnatio
memoriae è il fenomeno individuato da Silvano Panunzio - la Criptopolitica, da intendersi come quell’insieme
di «forze nascoste, ma organizzate, che non appaiono quasi mai in prima fila», e
che determina i destini della Politica quando se ne lascia attrarre. Pur con la
cautela dovuta, specie quando s’introducono in una ricerca storica revisionista
come quella che andiamo a presentare, termini di forte ascendenza metafisica, possiamo
affermare che c’è del criptopolitico nella maniera in cui il fantasma dei Piceni,
e più in generale degli Italici, è stato occultato sia dagli antichi che dai
moderni. La tesi di Arduino muove dalla premessa secondo cui le moderne nazioni
europee, soprattutto la Francia e la Germania, ma anche il potere papale, abbiano
voluto riscrivere la storia passata, specie quella preromana e altomedievale, al
fine di giustificare posticciamente il proprio nation building. Non potendo ignorare il proprio debito verso la
civiltà di Roma, tali potenze europee si rappresentavano come discendenti delle
popolazioni celtiche, barbariche e franche che nell’invadere l’Italia vi apportava
elementi di civiltà, esercitandosi invero a scrivere criptopoliticamente la
storia moderna mentre riscrivevano artificiosamente quella antica e
altomedievale. Ma come si vuole in lingua inglese, “Rome wasn’t built in a day”.
Ciò a spiegare che il processo di apprendimento nella costruzione di città,
strade, armi e il saper fare che caratterizzava l’‘orizzonte tecnologico’ delle
civiltà etrusche e picene, e che verrà poi ereditato dalla civiltà di Roma,
doveva passare dai tempi lunghi di formazione di quelle civiltà centroitaliane che
ebbero modo di fiorire durante l’Età del Bronzo e del Ferro.
Le indagini dedicate al territorio e all’urbanistica muovono
anzitutto dalle analisi della strada, quale «risultato tecnologico che si
realizza per quel processo iterativo di mutuo perfezionamento delle
infrastrutture e della logistica fra manufatto viabile e mezzo di trasporto, in
seguito allo stimolo delle situazioni economiche» che giustificano gli
investimenti infrastrutturali, e quindi la presenza di un potere istituzionale in
grado di indirizzarli strategicamente al fine di collegare fra loro le città. Città
definite da Arduino come agglomerati di scopo, che diventano «sede d’elezione
delle attività dei cosiddetti settori secondario e terziario: le manifatture ed
i servizi ad esse pertinenti, dal commercio alla gestione della cosa pubblica».
Messo in rilievo il collegamento tra strade e città, ne deriva che il primato di
densità viaria, in km per kmq, che le Marche possono vantare in Italia, implica
la presenza di un potere locale che, come la datazione dei manufatti
dimostrano, non può che essere preromano. Tale potere investì risorse sia nelle
strade sia nei centri urbani piceni, come Ascoli, Fermo, Septempeda, Osimo, Ancona
e Urbs Saluia, cioè la città dei Salii nella quale Arduino individua l’Urbe dei
Piceni, riconoscibili per le fortificazioni con cinte urbane ciclopiche,
realizzate come in tutto il Mediterraneo in grossi blocchi litici, che possono essere
giustificati solo in ragione di attività manifatturiere, commerciali e di
terziario indotto, di buon volume e redditività.
L’antico
passato di questa civiltà trova una prova ulteriore nelle lingue e nei supporti
grazie ai quali le conosciamo. In qualità di tecnologo, relativamente alla
Stele di Mogliano conservata presso il Museo Archeologico nazionale delle
Marche, l’architetto torinese arriva a collocare «le più antiche steli picene
nel periodo Cretese Miceneo», che sarebbero quindi «più antiche delle
iscrizioni etrusche su ceramiche ed enormemente anteriori alle iscrizioni Osche
di Macerata in Campania. La scrittura dei Piceni sarebbe, cioè, una scrittura
anteriore all’Etrusco e corrispondente al periodo nel quale, con ipotesi
differenti e molte incertezze, la maggior parte degli studiosi colloca il
lineare A greco». Un’ipotesi del tutto originale questa, che trova conferma
nella presenza di reperti rinvenuti nell’areale italico e risalenti all’Età
della Pietra, come il “ciottolo archeulano” di Tolentino con graffita la donna
lupa, la Venere di Frasassi e la sepoltura del “giovane principe” delle Arene
Candide in Liguria.
A noi storicamente più vicini, e più consistenti numericamente,
sono invece i manufatti rinvenibili nei musei centroitaliani che l’autore passa
in rassegna nel terzo capitolo, e che dimostrano la potenza di tali fiorenti
civiltà. Per quel che riguarda gli Etruschi, a fronte di una ricchezza culturale
unanimemente riconosciuta, si registra la poca attenzione prestata da storici e
archeologi verso le nuove scoperte provenienti dalle scienze dure. Un esempio
preclaro è quello dell’ascia con tagliente di rame della mummia del Similaun
conservata a Bolzano, che una recente pubblicazione scientifica dimostra provenire
dall’area toscana, giustificando così la conoscenza della metallurgia del rame
in questa regione già dalla seconda metà del IV millennio a.C. La nuova luce che
tali studi gettano sulla storia italica preromana perciò, «può indurre una
revisione delle ipotesi a lungo sostenute sulla diffusione precoce del rame
balcanico in Italia» in ragione del fatto che «tutti gli oggetti trovati a sud
delle Alpi (nord e centro Italia) erano fatti di rame della Toscana o del
meridione delle Alpi» risalente a 5.300 anni fa, creando così «una voragine
cronologica tra l’ascia di Oetzi e i manufatti italici ascritti “d’ufficio” a
periodi storici molto più prossimi a noi».
Se gli Etruschi erano indubbiamente specializzati nelle
produzioni in rame, la forte presenza di reperti in acciaio risalenti alla
prima Età del Ferro nell’areale medioadriatico, dimostrerebbe la perfetta
conoscenza delle tecniche di forgiatura dell’acciaio da parte dei Piceni. É
questa la tesi principale che l’autore elabora a partire dall’osservazione dei
manufatti piceni, una produzione a cavaliere dei tre-quattro secoli fra I e II
millennio a.C., fra cui spicca per importanza il torque. Si tratta di un collare ritorto, la cui provenienza è
unanimemente individuata nelle Gallie transalpine, a dispetto di reperti
rinvenuti in tutta Europa e in particolare nell’areale medioadriatico, al punto
da poterli definire come propri e distintivi della civiltà picena, nel cui
territorio sono stati rinvenuti peraltro i più antichi esemplari risalenti alla
prima Età del Ferro nella località di Colle Pigne a Montedinove. Tali collari
ritorti, ad oggi gli unici che conosciamo della produzione picena in acciaio,
identificano inequivocabilmente i Galli, come mostrato dagli studi sulla statua
del Gallo morente conservata al Museo capitolino a Roma, che per l’autore erano
«i custodi eunuchi delle sacre sacerdotesse Sibille, le leggendarie depositarie
delle scienze e della geodesia», ragion per cui «quest’area potrebbe con buona
approssimazione essere il luogo italico d’origine del collare ritorto, simbolo
sacerdotale prima e gentilizio poi, di quella popolazione che nell’Età del
Ferro appare già articolata in caste, è particolarmente organizzata ed evoluta
sul piano sociale, è produttrice e distributrice, in sinergia con i Rasenna, di
manufatti di metallotecnica centro-italica in tutte le parti raggiungibili
dell’Europa protostorica».
I numerosi altri reperti visibili nei musei locali, oltre
a mostrare grande sofisticatezza, segno delle capacità tecniche acquisite dai Piceni,
spiegano, in ragione della gran quantità di oggetti in acciaio presenti, che
«la forgiatura è una tecnica posseduta in loco e non la si deve ricercare
altrove». A partire dai residui in acciaio delle lavorazioni delle armi, i Piceni
realizzavano infatti molti altri oggetti durevoli e di uso quotidiano, come
«gli spiedi per arrostire, graticole, alari di sostegno degli spiedi […]
coltelli, manici di pentole, di secchielli e di casseruole, morsi per cavalli,
staffe, fermagli e cerchioni per le ruote delle bighe». Il rinvenimento dei
cerchi in acciaio delle ruote, dimostrano sia l’esistenza in epoca preromana di
quei carri ad un asse che a Roma si chiameranno bighe, sia la necessaria
presenza delle strade battute a cui si accennava più sopra. Ulteriori manufatti
tipici della società picena sono poi i dischi pettorali, gli scudi bronzei
rotondi sbalzati, precursori degli scudi Ancili portati in processione a Roma
dai guerrieri Salii, e gli elmi a calotta tipo Montegiorgio. Altrettanto
indicativi sia dell’articolazione della società picena che degli scambi
commerciali che tale civiltà intratteneva con l’Europa transalpina sono le
spade falcate e le spade dritte in acciaio. L’autore individua nelle spade
falcate picene delle armi particolarmente adatte allo scontro isolato uomo a
uomo, sviluppate perciò per rispondere alle esigenze militari non già di
eserciti da battaglia, bensì per quelle «guardie di scorta dei convogli
mercantili che incessantemente percorrevano le piste ed i sentieri dall’Italia
verso tutte le direzioni del centro Europa», e che formavano una vera casta nel
periodo di massima espansione dei Piceni.
Signore dei Cavalli. Decorazione in lega
di rame fusa a cera persa.
[Immagine e didascalia
tratta dal volume a pag. 263]
Approntata l’elencazione dei principali manufatti piceni,
vale la pena proseguire la presentazione esponendo la storia della tecnologia
protagonista del saggio di Arduino, cioè l’acciaio piceno che risulta essere in
realtà un’eredità culturale degli Ittiti. Si tratta dell’unica concessione
dell’architetto torinese al dogma che descrive la civiltà italica come
debitrice di quella greca. Quando nel XIII sec. a.C. scoppiava la guerra fra
Achei e Ittiti, questi ultimi, scopritori delle caratteristiche della lega
ferro-carbonio, poiché sconfitti, rilocalizzandosi nell’areale centroitaliano,
trovavano un ambiente manifatturiero sviluppato e lasciavano «un segno
indelebile nella memoria dei Piceni e degli Etruschi come testimonia la
diffusione della conoscenza dei poemi omerici nelle pitture delle tombe dal
lato tirrenico dell’Appennino e la mitizzazione di Enea e dei Troiani sul
versante adriatico, con Antenore». Una volta consolidata la pratica della
lavorazione dell’acciaio, l’accrescersi di tali attività provocava la ricerca di
stagno nella direzione nord-ovest dell’Europa lungo la ‘via dello stagno’,
sebbene le traiettorie commerciali dei Piceni non sdegnassero l’est, cioè la ‘via
dell’ambra’, determinando così la divisione dell’Europa nelle due metà delle
lingue romanze ad ovest, e delle lingue germaniche e slave ad est. La ‘via
dello stagno’, che partiva dal centro Italia e aveva un interporto naturale a
Marsiglia (la cui etimologia deriverebbe da mas
salya, cioè casa dei Salii), proseguiva
lungo le vie d’acqua costituite dai grandi fiumi dell’attuale Francia – il
Rodano, la Saona, la Loira e la Senna, per giungere fino ai giacimenti di
stagno, indispensabile per legare il rame e per la produzione dell’acciaio,
dunque strategica per le economie etrusche e picene, presenti in grande
quantità nelle Isole Britanniche, in Cornovaglia e in Irlanda. Lungo tale via s’insediavano
gli Italici, che davano così avvio al fenomeno della romanizzazione delle Gallie,
producendo quella cultura gallo-romana debitrice in tutto delle popolazioni
centro-italiane. A dimostrazione di tale tesi ci sono l’esclusiva presenza di
divinità italiche come descritte da Cesare nel De Bello Gallico, la cui spedizione militare è da interpretare come
volta a indurre a più miti consigli le popolazioni transalpine che stavano
formando un polo geopolitico indipendente e concorrenziale rispetto a Roma, e gli
studi di Dumezil per il quale nel contesto delle mitologie europee non esiste alcun
riferimento ai miti gallici autoctoni, fatta eccezione per la favola di
Cappuccetto Rosso. Con l’aumento dei volumi di produzione e la necessità di
accedere a nuove fonti di approvvigionamento, si apriva nell’VIII sec. a.C. la
via del commercio con la Sardegna, ricca di giacimenti di stagno, ferro e
argento, e naturalmente favorevole ad Etruschi, Punici e Magnogreci, ma che escludeva
i Piceni privi di uno sbocco sul mar Tirreno. Nacque Roma, per la precisa
scelta strategica dei Piceni di fondare un interporto sul Tirreno, e nacque
adulta, con riferimenti giuridici e sociali già maturi, ereditando altresì
«l’organizzazione dei “guerrieri torquati” delle scorte armate alle carovane»
distintiva della civiltà picena. Nel testo viene pure riportata la teoria di
Massimo Pallottino sulla fondazione di Roma, da parte di generici gruppi
italici orientali. Mentre il nome di Roma s’imponeva nel mondo, comportando
come per tutti gli imperi una ricollocazione delle attività produttive nelle
periferie, e il conseguente e ben noto infiacchimento del carattere italico, si
procedeva a cancellare le tracce della civiltà picena. In ragione di tale
espansione multinazionale, l’impero si trovava impreparato a gestire lo tsunami
di Creta del 365 d.C, che segnava l’inizio della fine per Roma con lo
spostamento del baricentro fra Milano e Ravenna, da dove sbarcavano numerosi
profughi dall’Oriente, fra cui numerosi monaci cristiani che, ritiratisi sugli
Appennini, permettevano la rinascita spirituale dell’Occidente europeo, unanimemente
attribuita a S. Benedetto da Norcia, che pure deve esser stato ammaestrato dai
monaci orientali, come rilevato anche da Silvano Panunzio. In un testo dedicato
a Santa Rita il filosofo cristiano invocava per il circondario di Cascia maggiore
antichità rispetto al corso medievale, mettendo nel conto «S. Pacomio e S.
Basilio, il Monachesimo orientale, S. Antonio Abate e gli asceti della Tebaide.
Di tutto ciò v’erano tracce negli eremi rupestri della valle casciana e persino
in Roccaporena: come dimostra la “Grotta d’oro” dell’asceta sconosciuto,
proprio di fronte, in alto, alla casa di Rita e sempre presente ai suoi occhi
di fanciulla».
Le ricerche compiute dall’autore possono interrogare il
lettore, certamente più a suo agio fra le certezze della storia ufficiale, sulla
realtà di popoli antichi la cui esistenza politica confligge con le tesi riportate.
Stiamo parlando ad esempio della cultura celtica, della cui espressione
culturale però non conosciamo altro che manufatti italici. Non disponiamo
infatti di fonti sulla lingua celtica, sconosciuta a noi perché suppostamente
riservata solo ai druidi iniziati, né si registrano rinvenimenti di città o
strade celtiche, ma solo dei cimiteri in campi di urne, ritenuti distintivi
della civiltà celtica, con riguardo ai quali Arduino fornisce però una
spiegazione in grado di definirli, rispetto ai cimiteri per tumulazione, sulla
base di questioni strettamente pratiche, quali l’usanza di avere le spoglie dei
propri cari, morti durante un lungo viaggio, non distanti dai luoghi domestici.
Facendo riferimento ai ritrovamenti di Hallstatt e di La Tène, gli archeologi e
gli storici transalpini costruirono a tavolino una civiltà celtica che dopo
aver invaso l’Italia settentrionale, svanì del tutto inspiegabilmente, in
contemporanea alla spedizione di Cesare nelle Gallie, cioè intorno all’ultimo
quarto del primo secolo a.C.. I dubbi sollevati dall’autore non sono affatto
isolati, trovando riscontro fra ricercatori contemporanei, come Gilbert Kaenel,
per il quale è «consigliabile non identificare la cultura materiale di La Tène
con un’“etnia”», sebbene per quanto icastica troviamo più efficace la
proposizione di Arduino secondo cui: «chiamare “celtico” un qualunque utente
dei prodotti della metallotecnica (unica testimonianza che si vuole “celtica”)
è come dire che sono di etnia Svizzera, della cultura di La-Chaux-de-Fonds,
tutti coloro che indossano un orologio da polso e, come conseguenza, tutti
devono parlare la stessa lingua». Non diversamente dai Celti, anche le civiltà
umbro-osco-sabelliche, svolgerebbero la stessa funzione al contempo riempitiva
e mistificatoria.
A margine di così tanti argomenti, del tutto conseguenti
da un punto di visto logico rispetto ai ritrovamenti effettuati, ci sentiamo di
muovere un’obiezione alla tesi di Arduino sulla successione delle divinità
italiche, secondo cui l’imporsi di Giove, quale nuova divinità alto-picena, sia
dovuto all’emergere della nuova società dedita all’industria e al commercio in
sostituzione della precedente economia agricola devota a Saturno. Ci sembra questa,
una determinazione dello strutturalismo economicista che mal si adatta all’indagine
sul fattore religioso, che come esposto da Dumezil nei suoi studi sull’articolazione
tripartita, risultava essere sempre prioritario e mai determinato dalle sfere del
potere politico e di quello economico.
Decorazione di “cista
prenestina” raffigurante Nerio Menerua che, deposto l’elmo e lo scudo, aiutata
da Cupido, blandisce Marte cingendolo fra le braccia e accarezzandolo. Il
disegno è copiato da quello pubblicato da G. Dumezil nella sua tesi di laurea.
L’oggetto originale, dichiara Dumezil, è scomparso.
[Immagine e didascalia
tratta dal volume a pag. 231]
Le tante novità presentate dall’autore attorno a temi
trattati in maniera così radicalmente dissonante rispetto ai canoni della
storia ufficiale, farà forse storcere il naso a qualche purista delle fonti.
Per rassicurare gli animi, andrebbe tenuto nel debito conto che la questione
delle fonti nella storia è un tema dibattuto in dottrina da almeno due secoli.
La nostra conoscenza della storia antica e medievale deriva infatti da quel metodo
storico della “critica delle fonti” introdotto da Niebuhr e Mommsen, e in
generale dalla storiografia tedesca nel XIX secolo, che aveva suscitato
numerose perplessità, fra cui quelle del filosofo americano Charles S. Peirce
il quale ne tratta con rigore scientifico nel suo On the logic of drawing history from ancient documents. In questa
ricerca, Peirce polemizza contro gli storici tedeschi e i loro metodi che si
ispirano arbitrariamente e maldestramente alla logica di David Hume, al fine di
riservarsi «una nobile libertà nel costruire la storia che più soddisfa le loro
opinioni soggettive». Ma oltre a questa specifica polemica contro gli storici
tedeschi, Peirce presenta nel proprio studio un metodo di ricerca in grado di
fondare una nuova e più vera critica delle fonti, alla luce dei ritrovamenti
archeologici. Scrive il logico americano
che «la storia antica viene scritta in parte a partire dai documenti e in parte
dai monumenti. L’ultima generazione ha fornito così tanti esempi del rifiuto, da
parte dell’archeologia, delle conclusioni degli storici dei documenti, al punto
da porre la questione se l’intera procedura logica di quest’ultima classe di
studiosi non sia radicalmente sbagliata. Lo scopo di questa ricerca è di
mostrare che è proprio questo il caso; che la teoria logica sulla quale gli
storici dei documenti procedono è una cattiva logica; e di esporre e difendere
il vero metodo logico di trattare gli antichi documenti storici». In
particolare mettendo alla prova tale metodo, a partire dal Libro XIII della Geografia di Strabone, Peirce espone un
caso studio sulle opere di Aristotele. Coincidenza vuole che anche in questa
ricerca, gli aspetti logistici del trasporto materiale e della conservazione delle
opere di Aristotele si intersechino con quelli propriamente documentali.
Strabone racconta della sorte dei manoscritti aristotelici, passati dalle mani
di Teofrasto a quelle di Neleo di Scepsi, poi trasportati da Atene in Asia
minore, e qui conservati in un locale umido e sotterraneo, quindi riportati ad
Atene da Apellicone, che ricopia i manoscritti danneggiati in maniera
filologicamente scorretta, per poi essere consegnati a Tirannione nell’87 a.C,
dopo la presa di Atene da parte di Silla. Come scrive Peirce è grazie a questa
conquista storica, e alla nuova edizione a cura di Andronico di Rodi, che noi
oggi conosciamo Aristotele e la sua filosofia. In tale ricerca Peirce compie un’analisi
accurata al fine di dimostrare che numerose parti delle edizioni critiche a noi
pervenute dei Primi Analitici di
Aristotele, come quella di Giorgio Colli che segue l’edizione di Waitz e
Bekker, probabilmente i due curatori tedeschi della collazione contro cui
Peirce polemizza per il loro principio della minor probabilità (less likelihood) applicato al racconto di
Strabone, risultano essere presenti sia interpolazioni che parti corrotte. Ad
esempio nel secondo libro degli Analitici
Primi, «i primi quattro capitoli sono dedicati a considerare in quali
occasioni possono essere tratte conclusioni vere da premesse false. Seguono poi
tre capitoli, di circa 70 righe, o più precisamente 146 righe, sulla
dimostrazione circolare. Tali capitoli mi sembrano fuori luogo, per la ragione
che Aristotele non ha ancora concluso la sua ricerca dal carattere puramente
formale, che viene interrotta dalle ricerche sulle dimostrazioni circolari; e
per l’ulteriore ragione che non appena queste ricerche giungono alla
conclusione, con il XVI capitolo, Aristotele dedica un capitolo alla Petitio Principii, che è quasi
esattamente la stessa cosa della dimostrazione circolare; e non credo che un
pensatore così sistematico li avrebbe separati». Molti altri sono i casi, più
pregnanti ma anche più tecnici, mostrati da Peirce, il cui metodo potrebbe
essere adottato per una riconsiderazione delle fonti storiche documentali di
nostra conoscenza, che lungi dall’essere le Tavole della Legge, proprio perché
soggette ad alterazioni di varia natura, potrebbero e dovrebbero essere
sottoposte a metodi scientifici di verificazione come quello elaborato da
Peirce, come più volte reclamato per parte sua da Arduino.
Per concludere la presentazione di questa originale
ricerca storica, che nelle intenzioni dell’autore vuole costituire una cornice,
necessariamente sintetica, a partire dalla quale potranno poi essere elaborati
ulteriori studi monotematici, vorremmo congedarci con una citazione di Franz D.
Gerlach tratta dalla prefazione allo studio sulla Storia di Roma, scritto insieme a Johann J. Bachofen, nel quale i
due professori di Basilea, nel polemizzare contro il tedesco Niebuhr, e più in
generale con il metodo tedesco della “critica delle fonti”, invitano il popolo
italiano a scrivere da sé la storia di Roma e la propria storia. Un invito
questo che facciamo nostro, ed estendiamo a tutti i ricercatori e uomini di
buona volontà, animati dall’amore per la verità. «Noi riconosciamo il nostro compito come un
dovere; […]. Noi non vogliamo ascoltare le idee, le supposizioni e i giudizi
del diciannovesimo secolo sull’antica Roma, ma vogliamo conoscere le gesta e i
destini dei Romani come essi stessi li intesero, li concepirono e li
tramandarono. Gli interpreti più fedeli della vita di un popolo saranno sempre
coloro che, originari della stessa patria e cresciuti tra le memorie dei padri,
sempre attraversati dal respiro del passato, sono in grado di trovare nel
proprio cuore la chiave per comprendere enigmi la cui soluzione è spesso
impossibile per i cronisti stranieri. Infatti la vita dei popoli non può essere
compresa come qualcosa di diviso e di spezzato […]. La fede [del popolo romano]
in un continuo legame col mondo degli dèi ha donato una tinta particolare alla
sua comprensione dei fatti. Disconoscere questa peculiarità della tradizione e
schernirla con il senno dell’oggi, o addirittura trarne motivo per contestare
la credibilità degli storici è a dir poco antiromano, e, secondo la nostra
convinzione antistorico. Se, come sostiene Platone, il simile può essere
compreso solo dal simile, il sapere e la fede di Roma devono essere la guida
nella nostra esposizione delle gesta dei Romani».