Il tema
dell’avanzata inarrestabile della tecnica appassiona molti. Tra loro, filosofi
di grande cultura, come Umberto Galimberti, con il suo denso Psiche e Techne. Da ultimo è sceso in
campo il grande vecchio della filosofia italiana, Emanuele Severino. All’alba
dei suoi 88 anni, il pensatore bresciano ha pubblicato Il tramonto della politica, dal pretenzioso sottotitolo (ma al
grande esperto di Parmenide si può concedere) Considerazioni sul futuro del mondo.
Nessun
dubbio sull’importanza decisiva di tematizzare il rapporto tra tecnica e
politica; ciò che colpisce è la tesi centrale di Severino, ovvero che “la
politica tramonta perché, quando non si rassegna alla propria dipendenza dal
capitalismo, si illude di poter guidare il capitalismo, ossia ciò che è
destinato al tramonto.”
Nel libro,
l’autore riprende e sviluppa temi a lui cari come il rapporto tra politica,
tecnica e filosofia e propone una chiave di lettura della volontà di abbandono
della verità tipica del tempo presente. In questo processo di relativizzazione
generale il capitalismo, per trionfare sui propri nemici, dopo aver emarginato
la politica, deve sfruttare a fondo le potenzialità della tecnica, divenuta
sempre più forte, una serva che si sta trasformando in padrona, svuotando il
capitalismo stesso del suo scopo e conducendolo quindi alla morte. Quello che
oggi ci pare uno scontro epocale, sostiene Severino, è soltanto l’espressione
di una battaglia di retroguardia, tra le diverse “verità” che intendono piegare
il mondo alla loro visione, tutte destinate a essere sconfitte dall’avvento
della tecnica, che potrà compiersi pienamente solo quando quest’ultima potrà
“godere del sostegno della filosofia e raggiungere il proprio scopo: realizzare
tutto quanto è possibile.”
Premesso che
la politica non si illude affatto di guidare il capitalismo, ma ne è
l’interessata servitrice anche contro la volontà popolare, due tesi sembrano
davvero sconcertanti: la prima è che sia in corso uno scontro tra pretese
veritative contrapposte. Spiace contraddire un pensatore di prim’ordine, ma non
è così. Il capitalismo, nella sua forma globalitaria e tecnoscientifica ha
spazzato via, al grido “non c’è alternativa”, ogni visione del mondo ad esso
non riducibile. E’ oggi l’unico giocatore in campo in una partita evidentemente
truccata. Lo stesso Severino ebbe modo, nel corso di oltre mezzo secolo di
speculazione filosofica, di criticare aspramente capitalismo e comunismo (anche
il fascismo, peraltro) considerati entrambi fonti dell’heideggeriana “vita
inautentica”, espressioni del dominio della tecnica. Gli fa velo, nella
circostanza, un retro pensiero nichilista riassunto in una sua frase assai
citata, dalla Follia dell’angelo: “si tratta di capire che la costruzione e la
distruzione hanno la stessa anima”.
Questo è un
punto di divergenza insanabile, e bene fece il solido tomista Cornelio Fabro a
decretare l’inconciliabilità con il cristianesimo delle idee dell’allora
giovane docente dell’Università Cattolica. La seconda tesi cui occorre
ribellarsi è che la tecnica sia il vettore attraverso il quale il capitalismo
verrà svuotato e sconfitto. Idea intellettualistica e, come dire, teoretica,
danzante sulle nuvole, figlia di un approccio che non tiene conto dei rapporti
di forza, ovvero di quella che Machiavelli definì la realtà effettuale. Il
capitalismo è il meccanismo dell’ideologia liberale destinato a determinare e
dominare i rapporti di produzione e, attraverso quelli, l’intera vita del
mondo. E’ dunque struttura, in senso marxiano, mentre la tecnica è, ancora,
sovrastruttura, strumento della dominazione degli uomini da parte del Signore.
Altra cosa,
ma Severino tace sul punto, è il transumanesimo, ossia l’ideologia prima
nascosta ed oggi emergente, distillata nei pensatoi delle oligarchie economiche
e finanziarie, la corrente metaculturale che sostiene un accelerato sviluppo
scientifico e tecnologico volto alla trasformazione della specie umana
attraverso le nuove scienze, informatica, genetica, cibernetica, neuroscienze.
Tutte insieme, sono oggi chiamate tecnoscienze, poiché riuniscono in sé la
scienza, che è sapienza, la tecnica e la tecnologia, ossia l’uso e la pratica
applicazione delle conoscenze e delle abilità acquisite.
Le
tecnoscienze paiono a noi la concretizzazione del Golem, figura mitica e
concetto ricorrente della tradizione ebraica, l’essere di argilla a cui viene
data la vita attraverso riti esoterici da parte dei più sapienti rabbini. Il
significato letterale è embrione, massa grezza. Secondo tradizione il golem è
un potente essere antropomorfo di materia inerte. Come un robot, il golem
esegue gli ordini del suo creatore, ma è privo di pensiero e di emozione, in
quanto non possiede anima. Per dargli vita, sulla fronte gli viene scritta la
parola emet, verità; per distruggerlo, viene cancellata la prima
lettera, ma met significa morte.
Il Signore
oggi intronizzato è il tecnocapitalismo, ovvero il capitalismo che controlla e
domina, possiede la tecnologia e ne decide gli esiti, una forza inesorabile che
avanza e distrugge ciò che trova sul proprio cammino, in nome di un epocale
cambio di paradigma esistenziale ed antropologico. Golem, non a caso, in ebraico
moderno significa anche robot. La tecnica è l’alleata più potente del
capitalismo, non certo la sua nemica, ed un cambiamento potrà avvenire – lo
scenario è il più sconvolgente – solo allorché la tecnica, soprattutto
attraverso la cibernetica, potrà replicare se stessa, decidere da sé obiettivi,
addirittura darsi dei fini senza o contro il controllo umano. La strada, da un
punto di vista pratico, è aperta, ma modi e tempi sono ancora del tutto
sconosciuti.
Qui si
inserisce la terza obiezione al pensiero di Severino, allorché egli sembra
sperare in un’alleanza tra tecnica e filosofia. Se, come egli afferma, tutte le
verità sono sconfitte dalla tecnica, unico scopo possibile è realizzare
“tecnicamente” tutto quanto è fattibile, con il sostegno della filosofia. E’
possibile che chi scrive abbia frainteso o preso un grossolano abbaglio
(interpretare il pensiero dei pensatori è sempre arduo…), ma ci sembra che
Severino, gran conoscitore della filosofia greca, proponga nientemeno che la
definitiva fuoruscita dalla tradizione del pensiero occidentale.
I greci
fondarono la civiltà di cui siamo figli degeneri sul concetto di limite, sulla
prudenza (phrònesis) e sul principio di non contraddizione. A Platone ed
Aristotele siamo debitori quasi di tutto, in particolare dell’idea di bene e di
male. Una filosofia che si alleasse con la tecnica commetterebbe due tragici
errori: da un lato, la tecnica è “pensiero che non pensa”, non ha altro scopo
che funzionare, come ha ben capito Galimberti. La sua dimensione è del tutto estranea
al giudizio, ai fini, alla direzione, che è il senso del pensiero speculativo.
Non ha bisogno della “mosca cocchiera”, avanza da sola. Filosofo, “amico
della sapienza” è colui che ragiona su ciò che vede e fornisce un giudizio.
Tecnico è colui che prende atto dei progressi della scienza, e utilizza le
leggi fisiche da essa scoperte per usi pratici (tecnologia).
In questo
senso, la filosofia altro non diverrebbe che la copertura “colta” per
realizzare la legge di Gabor. Dennis Gabor, eminente fisico ungherese, teorizzò
che tutto ciò che si può realizzare “tecnicamente”, si farà, e tutte le
possibili combinazioni saranno tentate. La scienza, purtroppo, ha titolo per
ragionare in tal senso, figlia e nipote di Prometeo e di Adamo che si ribella a
Dio, cioè al limite da lui posto, ma la filosofia è la coscienza critica,
l’occhio vigile e morale dell’uomo che, uscito dalla caverna di Platone, vede
la luce ma teme l’accecamento.
L’altro
errore, ben gradito al dominio capitalista, corollario dell’altro, è quello di
accettare un ruolo subalterno. Il Signore paga la ricerca, oggi soprattutto
nell’ambito dell’elettronica, della genetica, delle biotecnologie e delle
nanotecnologie, prescrive l’invenzione continua di nuove applicazioni. La
filosofia, rassegnata a non partecipare al grande gioco, si limiterebbe ad
applaudire e fornire la copertura teorica all’avanzata amorale della Tecnica. Doctores
tiene la Iglesia, dottori ha la Chiesa, afferma un detto castigliano, a
significare che un impianto di giustificazioni a posteriori è sempre pronto,
anche e soprattutto per le nefandezze.
Ad una retta
filosofia, liberata anche dal sogno husserliano di diventare scienza, va al
contrario il compito di essere, a suo modo, “katechon”, ciò che frena,
impedisce, sottopone a giudizio che può essere negativo, e lascia quindi la
Tecnica – cioè i suoi padroni- soli con le loro immense responsabilità. Un
eventuale sopravvento della tecnica sul capitalismo, peraltro, sarebbe un
evento ancora peggiore del male. Ha invece ragione Severino a constatare
l’inevitabilità del passaggio, in larga parte compiuto, dalla gestione politica
a quella tecnoscientifica dei processi politici.
Egli ne
sembra tuttavia soddisfatto, segnalando l’incontro della volontà tecnica e di
quella filosofica. Sembra, in verità, la giustapposizione antiumana di due
volontà di potenza che si fondono, ed a scomparire è la ragione filosofica, che
si libera dello sguardo morale. Anzi, sottolinea che questa sarebbe “la
coerenza estrema dell’Occidente”, che realizza una sorta di pax technica
in un superstato tecnico, che, peraltro, avrebbe comunque un governo (o governance)
e dei dominatori. Vecchia regola è che chi paga i suonatori decide la musica,
per cui nessun potere è tecnico, ma è sempre politico, nel senso che determina
rapporti di forza nella vita concreta della polis e degli uomini che la
compongono. Insomma, da Severino ci arriva una sorta di assenso ad un
destino, quello del dominio tecnoscientifico, che non è affatto pax, se non nel
senso della fine del pensiero e del giudizio critico, un deserto dell’Unico che
Diego Fusaro chiama “eterofobia dei globalitari”, cioè dei Signori del denaro.
Sono i loro i padroni, banditori, ispiratori, mandanti e finanziatori delle
tecnoscienze, cui sono interessati per un unico motivo, la capacità di dominio
sull’uomo e sul mondo, oltre ogni limite, che è lo scopo, o meglio, la
hybris, la tracotanza orgogliosa, la selvaggia volontà di potenza di cui il
capitalismo assoluto unico e finale è portatore.
La
riflessione deve quindi esplorare un campo spesso trascurato dai filosofi,
ovvero il grande inganno del potere globalitario che riduce tutto a tecnica, a
procedura, a pilota automatico, avendo proclamato la propria eternità sistemica
e negato la possibilità di alternative. Un totalitarismo singolare, le cui
sbarre non sono meno ferree per il fatto di risultare poco visibili. La ragione
tecnica, o la riduzione di tutto a tecnica, è, a nostro avviso, il grande
espediente di potere responsabile del tramonto della politica, e la dubbia pax
technica di cui parla Severino deve essere smascherata come strumento
essenziale della dittatura del tecnocapitalismo. Capitalismo basato sul
possesso e l’orientamento della tecnica: i nomi, infine, significano qualcosa.
E’ utile
partire dalle definizioni universalmente accettate: la tecnica è l’insieme
delle regole pratiche da applicare nell’esercizio di un’attività intellettuale
o manuale; il procedimento specifico seguito nell’esecuzione di un lavoro o di
un’opera; l’utilizzazione della scienza a fini di immediata utilità; ogni
applicazione pratica di una scienza, poiché l’attività umana tende a creare
congegni, inventare macchine per sottomettere le forze naturali all’uomo e
soddisfare le sue esigenze pratiche. Da tutto quanto esposto, si inferisce
che la tecnica è un mezzo. Poiché i mezzi servono a scopi, il rapporto
invertito tra i meccanismi e gli obiettivi è una finzione, una menzogna ad uso
di chi, appunto, domina e determina i fini. L’abbiamo definito il Signore, ed è
la cupola finanziaria ed industriale che ha privatizzato scienza e ricerca in
vista delle pratiche applicazioni di loro interesse.
L’astuzia
del Signore che, rammentiamolo, possiede tutto, è quella di aver costruito un
vero e proprio “nomos della tecnica”, ossia un senso comune accettato,
una falsa, ma creduta legge di natura che situa i mezzi, le modalità, le
tecniche, al di sopra di ogni altro principio, destituendo, o meglio celando i
fini. La parola greca nomos designa la prima misurazione, da cui derivano
tutti gli altri criteri di misura; ha poi assunto il significato di norma a
fondamento, che “intesa nel suo significato originario è quella che meglio si
presta a rendere l’idea del processo fondamentale di unificazione di
ordinamento, localizzazione”. (Carl Schmitt).
La tecnica è
impersonale, ma niente affatto neutrale. Non è un principio da mettere ai voti,
né può essere oggetto di dissenso: non si può dissentire dalla sfericità della
terra o dall’equazione d’onda di Maxwell. Il trucco magico è far coincidere il
sapere tecnico con il pensare tecnico, che è una contraddizione in termini.
Pensiamo all’informatica: ci è stato insegnato che per conseguire un certo
risultato, poniamo entrare in un programma di calcolo si fa così, si segue un
determinato percorso scandito da quei gesti e solo da quelli, poiché, in caso
contrario, non funziona, ci respinge. E’ la concretizzazione del “si” di
Heidegger: si fa, si dice, si deve. Ma, spiega il pensatore di Messkirch,
questa è la notte del mondo, e ciò che massimamente si deve pensare è che non
si pensa. Al Signore va bene così: la tecnica è un cruscotto fabbricato per suo
conto, pieno di comandi e di un quadro di strumenti. Strumenti, appunto, da
azionare in determinate circostanze per scopi precisi, predeterminati dal
libretto di istruzioni.
Ai vari
livelli corrispondono differenti profili di accesso: la grande maggioranza può
solo pigiare i pulsanti della tastiera, che si offrirà generosamente di
suggerire in anticipo le parole da digitare. Qualcuno potrà azionare comandi
più sofisticati, solo pochissimi dovranno conoscere quello che c’è dentro, il
funzionamento del manufatto, soprattutto sapere perché esiste. Alla
tecnica manca qualsiasi eticità (la sittlichkeit di Hegel) ed è del
tutto estranea a qualsiasi orizzonte di trascendenza, o semplicemente di
alterità. Essa “è”, sta, incombe, e ogni domanda o obiezione non è solo
sconsigliata, ma risulta superflua e indegna di risposta. Ne poniamo una: chi
ha scritto il libretto delle istruzioni?
Soprattutto,
chi lo ha commissionato, perché, qual è la ratio sottostante? Il
beniamino della tecnica non è solo l’uomo senza qualità alla Musil, ma il Peter
Pan che rifiuta di diventare adulto, un giocherellone a vita, connesso, sempre
sorpreso dalle novità della moda, affascinato come a cinque anni di età dalla
nuova macchinina. La tecnica prevede miliardi di operatori intercambiabili,
capaci di digitare pulsanti e padroneggiare una tastiera, migranti del virtuale
in cerca di accesso ai database, una plebe afflitta dal desiderio compulsivo,
che si accontenta delle FAQ (Frequently Asked Questions, le domande più
frequenti a cui sono predisposte in rete risposte omnibus). Un’umanità
che confonde la mappa con il territorio e che non squarcia mai il velo di Maya.
Ciò che conta è che la tecnica esista, ci sia, e poiché c’è, è buona e giusta,
reale e razionale, scimmia di Hegel.
L’impersonalità
della tecnica è passiva, il contrario esatto di quella impersonalità attiva
prescritta da Evola che è la fortezza morale del ribelle e dell’uomo
differenziato, colui che non agisce in vista di scopi pratici e non persegue il
successo pubblico. Tocqueville intuì il “potere immenso e tutelare” di un mondo
ridotto a procedure, meccanismi e false libertà, impegnato a mantenere i
sudditi nello stadio dell’immaturità permanente, affinché restino nella
dimensione del gioco infantile (puer ludens, non homo ludens!) e
“non pensino che a divertirsi”. Attraverso la tecnica, il Signore
tecnocapitalista ha portato a compimento il suo capolavoro, realizzando l’uomo
senza dissenso, senza interiorità, senza profondità, senza Dio, senza padri e
senza valori che non siano descrivibili in algoritmi, compressi in software
tutti uguali, con etichetta del prezzo in denaro, gradita la carta di credito.
Antonio
Gramsci, un pensatore che i padroni del mondo hanno studiato assai bene, parlò
della riduzione degli uomini a gorilla ammaestrati (Quaderni dal carcere VII),
che hanno accettato ed introiettato le regole tecniche come uniche e
vincolanti, anzi come sola libertà possibile. L’esito ovvio è “libertà è
schiavitù”, nella neolingua di Orwell. Per questo, rimaniamo stupefatti dallo
sguardo benevolo di Severino nei confronti della tecnica, sino all’offerta
implicita di un’alleanza in cui la filosofia dovrebbe fornire l’impianto
teorico di sostegno. La tecnica, cioè il Signore, non ne ha affatto bisogno, e
comunque è solo un’illusione da logomachia accademica pensare di battere il
capitalismo per sussunzione da parte di Techne. E’ vero il contrario, tanto che
possiamo affermare che la Tecnica è il sistema operativo del Capitalismo
globalitario. Oggi e sicuramente domani. Dopodomani, chissà, la macchina
potrebbe essere provvista, dall’uomo che l’ha creata, degli strumenti per fare
da sola.
Ma sarebbe
un giorno ancora peggiore di quelli che stiamo vivendo, con buona pace dei
filosofi che prendono abbagli nel corso dei loro estenuanti giochi linguistici.
Il nomos della tecnica, annunciato dal tramonto della politica, non ha bisogno
di improbabili previsori: la nottola di Minerva, lo ha insegnato Hegel, inizia
il suo volo sul far della sera. La filosofia, come ogni conoscenza umana,
comprende una condizione storico esistenziale solo dopo che si è prodotta. Non
ha facoltà predittive o precognitive. Può solo immaginare: umano, troppo umano,
transumano: la fine, probabilmente meritata, della nostra specie.
Autore: Roberto
Pecchioli
Fonte: Ereticamente
Fonte: Ereticamente