di Aldo La Fata
“Sociologi per caso” è il
titolo dell’ultimo libro di Carlo Gambescia, appena uscito per i tipi
dell’editore di Piombino (Livorno) “Il Foglio”. Sulla copertina è stato
riprodotto un bel quadro del pittore impressionista Gustave Caillebotte dal
titolo “Rue de Paris, temps de pluie”. La Parigi di quel tempo è già diventata
la spengleriana “città assoluta”, la città mondiale, cosmopolita, monumentale,
fatta di pura pietra e per scopi esclusivamente economici. I suoi abitanti
vestono elegantemente (vezzo tipicamente parigino) e sono borghesi nel corpo e
nell’anima, capitalisti al loro esordio.
Forse – ma è solo una mia interpretazione - il quadro vuole suggerirci che è proprio in
quel contesto, per molti aspetti plumbeo (vedi la pioggia), ma anche ricco di
speranze e di avveniristiche previsioni (la grandiosità delle strade con larghe
vie di fuga, la serena e spensierata tranquillità dei passanti) che nascono le
cosiddette scienze sociali, con il parigino (anche lui) Auguste Comte a fare da
apripista.
Ma veniamo ai contenuti.
Il testo è una collatio di saggi (alcuni già editi, ma
di non facile reperibilità, altri inediti) dedicati ad autori annessi con
intelligenza da Gambescia tra le file dei sociologi che non seppero di esserlo,
appunto dei “sociologi per caso”. Nell’ordine: Dante, Machiavelli, Evola,
Jünger, Mann, Tolstoj e Pasolini. Alla cui analisi, Gambescia fa precedere un capitolo introduttivo “sul
metodo”, ossia dedicato al filo conduttore -
quello di una sociologia capace di farsi via letteratura, politica e metapolitica - che unisce, per concetti e regolarità, gli
autori indagati.
L’inserimento dei primi due,
Dante e Machiavelli, a tutta prima può sembrare una forzatura, ma scopriamo
subito che non è così. La “Commedia” ha una struttura triadico-trinitaria che
ricorda molto da vicino il paradigma tripartito della sociologia
strutturale e dinamica di un Sorokin; la descrizione così razionale e lucida,
ai limiti del cinismo, che Machiavelli
fa delle burrascose vicende politiche del suo tempo, ricorda molto da vicino
l’approccio di un moderno sociologo. E siamo così ai lineamenti di una
preistoria e protostoria della sociologia, sia pure per frammenti, ma che
verrebbe voglia di ricostruire sistematicamente.
Certo, come riconosce
Gambescia, qui si tratta solo di assonanze, di identità parziali, di
connessioni tra le parti di un discorso a più voci e quindi di variazioni sul
tema, di differenti modi di interpretare un discorso che ha per “oggetto” la
diversità e complessità delle relazioni politiche e umane nel loro fattuale
divenire. Tra passato e presente si possono dunque trovare concordanze logiche e persino
metodologiche, fermo restando che tra
quel passato pre-industriale, pre-democratico e pre-moderno e il nostro
presente post-industriale, post-democratico e post-moderno, se di analogie si
può parlare, è sempre e solo nel segno della pura casualità. Quel che diceva un
Platone non è proprio esattamente quel che diceva il neoplatonico Bergson,
posto che tra i due esista una qualche specie di ideale e filosofica
continuità.
Ma Gambescia è studioso
serio, preparato e scaltro e sa mettere sempre “fenomenologicamente” tra
parentesi l’identità storica, politica,
ideologica e culturale degli autori che tratta per occuparsi esclusivamente di
quelle tracce, appunto “casuali”, di sociologia presenti nelle loro opere.
Tra i moderni il filosofo
tradizionalista Julius Evola. “Sociologo per caso” secondo Gambescia
soprattutto quando si occupa di “regressione delle caste” o di élites al
potere, anche se siamo in presenza di una prospettiva normativa e metastorica,
da filosofia e da teologia della storia, che poco o nulla avrebbe a che vedere
con le classiche categorie spazio-temporali delle scienze sociali.
Ma qui è l’oggetto di studio e di indagine ad essere propriamente “sociologico”
e non la sua interpretazione in chiave tradizionale o metafisica, come
d’altronde spiega sempre molto bene Gambescia. Tra l’altro scopriamo (ce
l’eravamo francamente dimenticato) che Evola non disdegnava affatto la
sociologia e che anzi vedeva in essa “un importante campo di lavoro”
potenzialmente utile al pensiero di Destra. E qui Gambescia pesca dalla
copiosissima produzione pubblicistica di Evola il pezzo a più colonne che il
nostro dedicò a Vilfredo Pareto (apparso in seguito nell’antologia
“Ricognizioni uomini e problemi”, Roma 1974). La scelta di Evola andava nella
direzione di un sociologo “anticonformista e antidemocratico”, ma non si deve
dimenticare che Evola non disdegnava, pur criticandolo, un Max Weber molto
presente nelle sue opere di rivolta.
Altro
“sociologo per caso”, a “metà”, “dilettante ma di genio” osserva Gambescia, è
il noto scrittore e filosofo tedesco di
fama mondiale Ernst Jünger, qui
definito “l’anti-Weber”. Leggendo il
denso capitolo che lo riguarda abbiamo forse compreso quanto il nostro sia
stato frainteso, soprattutto da una destra giovanile e militante che ne ha
fatto uno dei suoi idoli marziali, ignorandone invece la complessità, la
varietà delle idee, a volte inclassificabili a volte persino ingenue e comunque
non sempre coerenti e non sempre riconducibili al pensiero della Konservative Revolution.
Comunque, la conclusione di Gambescia è che la perorazione di Jünger per il
conflitto e per la guerra (un fattore sociologico questo di prim’ordine)
risulta alla fine sbilanciata e fuori asse. La sua opera passata “al setaccio
della teoria sociologica” è “L’operaio”, “una autentica miniera di pepite
conflittualiste” (altro punto fermo della moderna sociologia) dice Gambescia e
non solo. Scopriamo così, un nuovo filone d’indagine nella vasta produzione
letteraria del “contemplatore solitario” di Wilflingen.
Restando nell’ambito della
letteratura tedesca del Novecento, l’altro autore che compare nella lista dei
“sociologi per caso”, ma stavolta senza
se e senza ma, è il grande Thomas Mann.
Il suo capolavoro, “I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia”, è secondo
Gambescia “una specie di anticipazione a Capitalismo, socialismo, democrazia di
Joseph A. Schumpeter”. Il capitalismo familiare al centro della vicenda
romanzata, segnerebbe, spenglerianamente, il cruciale passaggio dalla Kultur alla Zivilisation. Scrive a
questo proposito Gambescia: “I vigorosi e creativi ‘animal spirits’ del
capitalismo di cui parla Keynes, a poco a poco, cedono il passo a una scialba e
sempre più fiacca dialettica tra passioni e illusioni” (p. 66). E’ il
cosiddetto “fattore Buddenbrook”, come lo denomina Gambescia (suo il
copyright) una fondamentale e
imprescindibile chiave interpretativa che deve essere acquisita dalla
sociologia moderna.
Dalla letteratura tedesca
alla letteratura russa. L’altro grande scrittore e romanziere reclutato da
Gambescia nelle file dei “sociologi per caso” è Leone Tolstoj. Un sociologo
creativo? un “profeta”? Forse entrambe le cose. Il nostro avrebbe fornito
involontariamente un importante contributo alla “teoria sociologica dell’ordine
spontaneo”, “ossia di un ordine sociale quale esito di imprevedibili processi
interattivi tra milioni di individui” (p. 76). Insomma, il maestro russo
avrebbe suggerito ai sociologi una cosa fondamentale, ovvero l’importanza per
la comprensione e la previsione dei processi storici e sociali, dello studio
degli imprevedibili effetti non intenzionali
delle azioni individuali.
Come tra gli uomini di
lettere ci sono i “sociologi per caso”, così pure ci sono quelli
non tanto per caso ma per scelta
ponderata e deliberata. Pier Paolo
Pasolini fu sicuramente uno di questi. Tuttavia, la sua fu una sociologia
“impressionistica”, di scarsa o nulla scientificità, quindi poco convincente e
un po’ d’antan. Gambescia la definisce “sociologia dell’austerità” a base di
demonizzazione del capitale in chiave marxiana, arcaismo contadino e
“modernismo reazionario”. Lascio al lettore la scoperta delle inedite
consonanze tra Pasolini ed Enrico Berlinguer.
Qualche parola per finire.
Intanto, sia ben chiaro che
in queste righe ho solo accennato e per sommi capi ai contenuti del libro, la
cui densità concettuale non è riassumibile nello spazio angusto di una
recensione. Si pensi solo, all’idea, certamente discutibile dal punto di vista
della visione panunziana, ma
comunque degna di riflessione, di una
sociologia capace di farsi politica e metapolitica attraverso il dialogo con la grande letteratura. Non è infatti di un libro facile che stiamo
parlando, come in generale mai lo sono i
libri di Gambescia che, ultimamente, suppongo per esigenze editoriali, si
costringe dentro esigue cento pagine.
La sociologia, in quanto
tale, poi, non è quel cliché al quale ci hanno abituato i
media con i “sociologi della domenica”, ma una disciplina severa, che richiede
adeguata preparazione storica e cultura generale di buon livello (diciamo
sicuramente di livello universitario). Un buon sociologo deve attingere agli
ambiti disciplinari più diversi, dalla psicologia alla storia, dall’economia
all’antropologia, dalla politologia al
diritto alla statistica, e deve, per riprendere una suggestiva espressione di
Gianfranco Miglio, esser capace di “pensare per millenni” e quindi volare molto
alto. Da qui l’obbligo, culturale e professionale, di aggiornamenti e studi continui.
Non va dimenticato altresì
che in sociologia sono moltissimi i testi e gli autori di riferimento
e tra questi ultimi non sono pochi quelli che contendono terreno ai maggiori filosofi speculativi. Con Gambescia
potremmo fare i nomi, ad esempio, di Robert Michels, Pitirim
Sorokin, Edward Shils, Roberto Nisbet e Giuseppe Palomba.
Ma certo
nell’arco di una sola vita non è che si possa leggere tutto. E allora,
piuttosto che accarezzare progetti di lettura tanto ambiziosi quanto
improbabili, meglio selezionare al massimo. In questo senso i libri di Carlo
Gambescia sono sempre una garanzia.
Grazie Aldo!
RispondiEliminaFigurati Carlo, è sempre un piacere leggere le tue cose e oggettivamente si tratta di un'opera di pregio che vale la pena consigliare.
RispondiEliminaRecensione esemplare, centrata e "motivante" come non se ne leggono più, complimenti vivissimi
RispondiEliminaTroppo buono, grazie! Merito del libro.
RispondiEliminaUn saluto cordiale
Pasolini, recensendo il primo libro intero tradotto in Italia di Coomaraswamy, ossia "Induismo e buddhismo", scrisse di essersi “molto emozionato” alla lettura dello “straordinario compendio”. Non solo, ma ne diede anche una lettura politica, o meglio metapolitica. Si veda:
RispondiEliminahttp://www.pasolini.net/saggistica_induismo-buddismo-ppp.htm
Grazie davvero Antonello per la segnalazione. Non conoscevo il testo che ho letto con grande interesse. Pasolini era certamente un uomo intelligente e di buona cultura, ma non ha mai smesso i panni dell'ideologo con i piedi ben piantati per terra. In questa particolare circostanza mi sembra si possa dire di lui, parafrasando Gambescia, che fu "metapolitico per caso".
RispondiEliminaBellissima recensione, caro Aldo. M'incuriosisce in particolare l'interpretazione di Jünger che sembra davvero molto originale.
RispondiEliminaun saluto cordiale e buone feste a tutti i lettori!
Paolo C.