Caro Gambescia, innanzitutto grazie per aver accettato l'intervista. Sappiamo che lei di solito non ne concede facilmente e che per noi ha voluto fare un'eccezione. Può spiegarcene la ragione?
Perché caro La Fata la stimo anch’io. Il suo sito è ben fatto e documentato. E merita attenzione. Vede lei, pur avendo una posizione sulla metapolitica diversa dalla mia, si pone sempre in posizione di ascolto e mai di chiusura pregiudiziale. Lei dialoga, altri invece al massimo denigrano. Magari alle spalle. Perciò il piacere è tutto mio.
La ringrazio di nuovo…
Le dirò di più: ho scoperto, e non proprio di recente, che certi presunti intellettuali di destra, quelli che si lavano la bocca due o tre volte al dì, con il termine metapolitica, non conoscono il suo sito… E la cosa, per un verso è un titolo “nobiltà”, suo e mio; per l’altro fa capire che razza di ignoranti “circolino” a destra… E non in senso stradale.
Prima di entrare nel merito del Suo ultimo libro “Metapolitica-L'altro sguardo sul potere” (Edizioni Il Foglio, ottobre 2009), ci premeva chiederle di Giuseppe Palomba. Lei sa che Palomba era intimo amico di Silvano Panunzio e che sul finire degli anni Settanta accettò di collaborare e di scrivere per la nostra rivista “Metapolitica”. Ora si dà il caso che a più di vent'anni dalla sua morte, occorsa nel 1986, di questo studioso eclettico e profondo, non parli più nessuno. Persino sul Web dove solitamente si trova tutto di tutti, si dura fatica a trovarne una qualche notizia. Lei, che a noi risulti, è stato il solo a dedicargli un profilo sul Suo blog (http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com). Come si spiega a Suo giudizio questa damnatio memoriae?
Mi permetta di aggiungere che ho anche riproposto una sua “microstoria” del pensiero politico italiano, uscita per i tipi di Settimo Sigillo. Comunque sia, grazie della “citazione”. Anche perché ignoravo il corposo pendant metapolitico-panunziano di Giuseppe Palomba. Perciò mi complimento “a posteriori” con lei e la rivista, per avere avuto questo insigne e originale pensatore tra i collaboratori.
Si figuri… Ma per tornare al Palomba studioso?
Un grande incompreso. Perfino dagli stessi economisti eterodossi, o presunti tali. Geminello Alvi, una volta, quando ci si frequentava, lo liquidò definendolo un confusionario… Anche se, come poi scoprii, Alvi si esprimeva così perché lo aveva letto superficialmente. Ecco, di regola, gli economisti non leggevano Palomba perché lo ritenevano troppo filosofo, mentre i non economisti, lo leggevano ma non lo capivano, perché lo giudicavano troppo difficile, fermandosi al Palomba paretiano-amorosiano innamorato delle scienze matematiche… Una vera tragedia.
Che importanza ha avuto nella sua formazione l'opera di Palomba?
Io sono arrivato a Palomba indirettamente. Attraverso il tagliente Vilfredo Pareto e il sulfureo Enrico Leone. Alla Biblioteca della Fondazione Sturzo, alla fine degli anni Ottanta, mentre lavoravo su di loro, scoprii un suo studio edito nel 1934 (L’eterogeneità sociale e l’economia corporativa” - “Rivista di Politica Economica”), dove Palomba analizzava Pareto, Leone e la circolazione delle élite all’interno della società corporativa. Rimasi fulminato dalla sua sapiente capacità di applicare la riflessione sociologica all’economia.
Amore a prima vista.
Sì. Diciamo che Palomba è andato oltre Pareto e Amoroso coniugando sociologia, economia (anche matematica) alla filosofia della storia. E qui viene il bello: perché il pensiero filosofico-storico di Palomba passa per varie fasi, e in questo senso è molto ricco e tutto ancora da scoprire: spengleriana (anni Quaranta), guénoniana (anni Cinquanta) e infine agostiniana (anni Sessanta ). Mentre nell’ultima fase, si ha una fusione armonica delle tre fasi precedenti.
Interessante.
Mi piace ricordare - perché spiega l’ispirazione dialogica del suo pensiero - una dedica di suo pugno su un estratto intitolato Dialoghi fra un cattolico e un marxista, anno di grazia 1978, inviato all’Istituto Gramsci, dove ora è consultabile: “Umile omaggio di un timido tentativo. Giuseppe Palomba”. Ecco chi era il Nostro: un intellettuale che si sforzava di parlare con tutti: dai comunisti - come nel caso della dedica - ai guénoniani e al composito mondo del tradizionalismo. Ecco quel che mi ha insegnato.
Veniamo ora al suo libro: Metapolitica-L'altro sguardo sul potere. Come sa la parola “metapolitica” ci sta molto a cuore e confessiamo che il vederla apparire sul frontespizio di un libro, pur se da posizioni diverse, ci fa un certo effetto. A quando risale la sua scoperta di questa parola?
L’ho scoperta quando ho scoperto la Nuova Destra di Marco Tarchi. Diciamo, nella seconda metà degli anni Ottanta. E in certo senso l’ho subito interpretata come una “metasociologia”. Ma su queste cose, se mi passa la “botta” di narcisismo, la invito a leggere il mio nuovo lavoro, scritto a quattro mani con l’amico Nicola Vacca, giornalista e scrittore, A destra per caso (Edizioni Il Foglio), a giorni in libreria, dove parlo anche di queste cose…
Sarà mio piacere leggerlo. Lei, infatti, osserva nel suo libro che la parola “metapolitica” è stata recepita dalla Nuova Destra ma che in quell'ambiente nessuno fino ad oggi si è peritato di farne l'oggetto di uno studio specifico. Quale può esserne la ragione a Suo avviso?
A volte, in certi ambienti culturali, si danno per scontate alcune cose che scontate non sono… Ed evidentemente la “metapolitica” era ed è tra queste. E poi guardi - ma non parlo di Tarchi che è uno studioso eccellente - per molti presunti intellettuali, contrariamente a quel che si crede, studiare è fatica…
Cosa pensa esattamente della Nuova Destra? Personalmente pensa di avere un qualche debito di riconoscenza nei confronti di questa corrente politico-culturale?
Solo il fatto di aver “scoperto” la metapolitica, anche solo come termine, mi sembra un lascito importante e degno di riconoscenza. Sul resto mi permetta di rinviarla a Destra per caso. Però, ripeto, il vero problema resta quello di capire perché un libro sulla metapolitica, l’ho scritto io, a destra per caso, e non chi oggi sia a destra oppure lo sia stato in passato, e non per caso. E che magari ora spera che intorno al mio libro scenda al più presto il silenzio. E me ne accorgo da certe recensioni che tardano ad arrivare. Probabilmente Metapolitica mette certa gente a confronto con la propria cattiva coscienza…
Polemico.
No comment. Anche perché rischierei di dire cose sgradevoli…
Però la sua prossimità alla destra culturale ci sembra un fatto assodato. Ma è anche un fatto assodato che lei è un indipendente, un intellettuale politicamente libero e non schierato. Non le chiederemo perciò per chi vota o per chi voterebbe (anche se lei nel suo blog http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/ una esplicita dichiarazione di voto l'ha fatta di recente e per di più per una formazione politica che certamente non sta a destra), ma piuttosto se si sente, culturalmente parlando, più vicino alle posizioni di un Evola o a quelle di un Don Luigi Sturzo o di un Jacques Maritain. E' una domanda che le facciamo soprattutto a profitto dei nostri lettori e per sentirle dire qualcosa su queste tre grandi figure di intellettuali delle quali, stranamente, non c'è traccia nel suo libro.
Diciamo “prossimità per caso”…
E’ vero dei pensatori da lei ricordati, non ne ho parlato in modo manifesto. Però li ho letti, magari in modo diseguale. Come dire, in ordine discendente: Sturzo, Maritain, Evola. I tre si somigliano - e mi scusi il sociologhese - per l’approccio culturalista: l’uomo, come spesso mi piace ripetere, non è ciò che mangia ma ciò in cui crede. E Sturzo, Maritain, Evola, sarebbero d’accordo. Ovviamente le loro prospettive erano e sono diverse. Quel che non accetto di Evola è il rifiuto della modernità. Che invece in Maritain, pur con accenti diversi soprattutto negli anni Trenta, non è mai stata rifiutata fino all’estremo. Mi riconosco invece in Sturzo, più realista in politica di Maritain, non per niente fondò il Partito Popolare, e meno tradizionalista di Evola. Sturzo, che era sociologo - non dimentichiamolo mai - coniugava realismo sociale e fede cristiana.
In che modo?
Se mi passa la metafora, Sturzo non credeva che in questo mondo si potessero raddrizzare i gobbi: creare l’uomo nuovo. Nell’altro invece sì. Di qui però il suo impegno politico-cristiano per far vivere meglio l’uomo hic et nunc. Ma senza esagerare. Infatti parlava di una “sociologia del soprannaturale” che si manifestava in uomini e cose, attraverso i piccoli gesti del lavoro e dell’aiuto quotidiano nei riguardi delle persone sofferenti. La famosa idea della politica come “servizio”, poi diventata in altre mani furbo luogo comune politichese.
Mentre Maritain, a sua volta, brancolerà tra la speranza messianica di costruire una macchina per raddrizzare i gobbi e la compassione pura e semplice delle dame di carità. Evola infine, dall’alto del suo tappeto volante trans-storico, neppure degnerà di uno sguardo quel “gobbo” dell’uomo moderno…
A questo punto ci perdoni l'impertinenza, ma vogliamo approfittare fino in fondo della sua squisita disponibilità e chiederle se ha mai subito in passato il fascino del nazionalsocialismo tedesco o del fascismo italiano e se ritiene che in queste due forme del politico ci sia stato qualcosa di buono o di valido.
No, mai. Provengo - e direi mantengo - da posizione liberali e cattoliche con forti inflessioni sociali. Posso però dirle, da sociologo, che fascismo e nazionalsocialismo sono due forme di risposta politica ai giganteschi problemi economici prodotti dalla società industriale. Direi che nei due casi siamo davanti a una risposta iper-politica: nel senso della pretesa, poi fallita, di trasformare la società civile in una specie di enorme caserma (politica) collettiva. Il che però non significa che l’approccio iper-economico di certo capitalismo selvaggio non sia ugualmente esecrabile. Come del resto quello del comunismo.
Nel suo libro lei parla diffusamente di Edward Shils e Reinhold Niebuhr.. Vuole spiegarci brevemente in che senso questi due autori abbiano a che fare con la sua visione della metapolitica?
Come lei sa, la mia metapolitica ruota intorno all’individuazione di una serie di costanti sociali e politiche che si ripetono nel divenire storico e sociale, dal conflitto amico-nemico, alla dicotomia governanti-governati, eccetera. Nel mio libro ne individuo undici. Ora, Shils è probabilmente l’unico sociologo che ha affrontato in termini scientifici lo studio della tradizione, come costante sociologico-politica e dunque metapolitica. Shils distingue fra la “tradizionalità” come un “centro” che obiettivamente garantisce la continuità sociale e i molteplici contenuti delle diverse tradizioni, che vanno a “colmarlo”. Contenuti, di vario tipo, sui quali invece di solito si appuntano gli strali valoriali delle critiche ideologiche “tradizionaliste” e “antitradizionaliste”. Critiche che, spesso per partito preso, finiscono per gettare via il bambino, la “tradizionalità con l’acqua sporca, del “tradizionalismo” o dell’“antitradizionalismo”, secondo le rispettive preferenze nei riguardi dei contenuti che dovrebbe andare o meno a innervare il “centro”.
Reinhold Niebuhr, per tornare al discorso dei gobbi, ci spiega invece che un uomo con la gobba in una società con la gobba non si accorgerà mai di essere gobbo. Di qui la necessità, per uscire di metafora, di essere realisti. Ovvero di osservare sempre le questioni sociali dall’esterno: non da gobbi, insomma - e a dirlo è un teologo. Applicando però le reali costanti sociologico-politiche che caratterizzano la metapolitica, così come viene tratteggiata nel mio libro.
Lei ha dedicato a P.A. Sorokin un libro, vuole spiegarci l'attualità di questo studioso?
Mi piace definire Sorokin, magari rischiando di semplificare, una specie di Spengler della sociologia. Parliamo di un sociologo russo, nato nel 1889, dalla cultura enciclopedica, che a seguito della Rivoluzione d’Ottobre da lui, socialrivoluzionario, vissuta penosamente, è costretto prima a prendere la via dell’esilio a Praga, per poi trasferirsi nel 1923 negli Stati Uniti. Qui sprovincializza intellettualmente la sociologia americana, aprendola agli apporti europei. E viene così chiamato a Harvard (1930) per fondare un Dipartimento di Sociologia. E qui scrive The Social and Cultural Dynamics, la sua grande opera (1937-1941), 4 volumi, migliaia di pagine. Dove - per semplificare - dà consistenza statistica e sociologica alle tesi di Spengler sulla natura ciclica delle civiltà, pur interpretandole in chiave meno rigida e culturalmente più ampia. Questa sua critica all’illuminismo materialistico dell’Occidente, americano in particolare, da lui definito “sensismo”, ne causa la progressiva marginalizzazione accademica. La sua “metapolitica”, realista e visionaria al tempo stesso, non piace agli americani. Dagli anni Quaranta fino alla morte, avvenuta nel 1968, Sorokin vive nell’ isolamento intellettuale. Gli Stati Uniti, dopo averlo accolto, lo respingono come un corpo estraneo… Se ci pensa bene è la stessa sorte toccata a un altro grande esiliato russo in America: Aleksandr Solgenitsin.
Nel mio libro, uso la sua preziosa sociologia, per individuare un’altra fondamentale costante metapolitica: quella legata all’incessante dinamica sociale e culturale dell’ordine e del disordine.
Tra gli stili e i modelli teorici del Novecento a quale in particolare si sente più vicino?
Mah… Credo che la tradizione liberale, certo non quella economicista e utilitarista che trasforma uomini e donne in merci, sia un bene da preservare, soprattutto come strumento capace di tutelare il rispetto delle minoranze e di chiunque la pensi “diversamente”. Ma è del pari importante il solidarismo, in particolare nella sua versione cattolica, alla cui origine come ha insegnato Del Noce, c’è l’idea platonico-agostinana dell’uomo come imago dei.
E più in concreto?
Giusto. Come lei ben dice, siamo davanti a “stili di pensiero”: idee. Che vanno poi conciliate con il vincolo di realtà che ci accomuna tutti. Di qui il mio apprezzamento per il realismo politico, e prima ancora sociologico. Che non sempre riesce a convivere bene, anzi spesso collide, con il mio cattolicesimo liberale e sociale.
Non è un bel vivere interiore e professionale… E i miei lettori più fedeli sicuramente se ne sono accorti. Il mio non è assolutamente un pensiero unitario. Ecco, magari, racchiude una tensione verso l’unità. Ma una tensione non è ancora l’unità…
Cosa pensa del Tradizionalismo?
Sarò “sociologicamente” onesto, anche a rischio di apparire antipatico o supponente. Il “tradizionalismo”, nelle sue varie osservanze (anche non cristiane), è un fenomeno sociale che dovrebbe avere natura transitoria (per quanto a lungo possa storicamente durare). Perché intorno ad esso si raccolgono le idee e le pratiche di un gruppo sociale, che va a collocarsi negli interstizi del presente, diciamo storico: in una situazione, come dire, di passaggio o di transizione, tra il passato e il futuro.
In realtà però i “tradizionalisti”, in carne e ossa, finiscono per accettare passivamente questa condizione “transitoria” e vivono perciò come sospesi tra passato e futuro. Probabilmente perché spesso, troppo innamorati di se stessi, diventano incapaci di scegliere tra le due possibilità “direzionali”, di fatto che hanno loro davanti: o regredire trasformandosi in “setta” (che poi spesso è quel che avviene), o progredire, crescendo fino a diventare un “movimento sociale”. E, dunque, trasformarsi - ma non è sempre detto - in un soggetto capace di influire sul mutamento delle istituzioni esistenti.
E della nostra metapolitica e di Silvano Panunzio, lei che idea si è fatta?
Innanzitutto, devo dire che nutro grande rispetto per l’edificazione di quella che definirei una maestosa ricerca del fondamento metapolitico. Ecco sarebbe bello, oltre che necessario - e lo dico con tutta l’umiltà che si deve a un filosofo del valore di Silvano Panunzio - individuare il trait d’union tra la mia visione “sociologizzante”, che comunque non esclude un “piano superiore”, e la visione panunziana. Se mi passa la caduta di stile, sarebbe il top riunire insieme le fondamenta (sociologiche) - e qui penso al mio discorso sulle costanti - e il fondamento (metafisico). Ma, purtroppo, credo non sia una meta perseguibile, almeno in questo mondo, così imperfetto…
Vuol dirci infine cosa pensa della Dottrina Sociale della Chiesa? Che rilevanza ha quest'ultima, ammesso che ne abbia, dal punto di vista della sua metapolitica?
Buona domanda. Il pensiero sociale della Chiesa Cattolica si muove e si è mosso nell’ambito di una visione morale e non politica della nuova questione sociale. Di qui nascono i suoi meriti e i suoi limiti.
I meriti consistono nel porre il problema economico solo nei termini di una riforma religiosa e morale della persona e della società. La Chiesa Cattolica parla alle coscienze. E auspica che l’uomo attuale, invischiato in un sistema economico che poco si occupa di coscienze, riesca da autoriformarsi spiritualmente, percependo di essere sulla strada sbagliata.
E i limiti?
I limiti, curiosamente, consistono proprio in questo affrontare il problema economico da un punto di vista così elevato. Infatti, a causa della distanza tra la realtà e l’ideale, nascono le diverse interpretazioni storiche del pensiero sociale cattolico (dal corporativismo al comunismo cristiano). Spesso respinte, e doverosamente, dalla stessa Chiesa, costretta ogni volta a fornire l’interpretazione autentica della sua dottrina sociale. E di qui altre interpretazioni “laiche” di “interpretazioni”, e così via...
Mi scusi se la interrompo, ma non pensa che la battaglia culturale, oggi soprattutto, non possa prescindere da una dichiarazione di fede esplicita e pubblica?
Concordo. Non si può prescindere da una esplicitazione pubblica. Io non ho mai nascosto la mia fede. Che però - attenzione - non uso, soprattutto quando studio, ricerco e scrivo, come un martello… Del resto, per finire il discorso, non sarà mai possibile chiedere esplicitamente alla Chiesa Cattolica di assumere posizioni economicamente dettagliate, o di mettersi direttamente a capo di un movimento di riforma politico-economica del mondo. La Chiesa parla alle coscienze cristiane e, come sa ogni vero cattolico, non è suo compito occuparsi di concreta modellistica economica. La Chiesa parla al mondo senza essere del mondo. Di qui però, come abbiamo già notato, quel sovrapporsi e mescolarsi di interpretazioni “laiche” spesso parziali e ideologicamente eterogenee.
La Chiesa Cattolica resta la Chiesa Cattolica. E non un centro di studi e di ricerche economiche applicate. E la fede, la vera fede, non può essere che quella dei martiri. Ma in quanti siamo in grado di sopportare il martirio?
Nella mia presentazione al suo libro apparsa sulle pagine della rivista “Metapolitica” (n. 3-4/2009) e più di recente su questo blog, mi sono permesso bonariamente di attribuire al suo approccio sociologico, scientifico, a-confessionale e realista in senso aristotelico alla Politica la qualifica di cripto-marxismo o di post-marxismo. Ritiene che questa accusa abbia un qualche fondamento?
Come le ho scritto privatamente, escluderei mie possibili ricadute cripto o postmarxiste. Esiste invece il rischio del relativismo sociologico. Rischio di cui sono ben consapevole. Purtroppo.
Del resto si tratta della mia formazione. Che come ho già detto spesso fa a pugni con la mia fede cristiana.
Un’ultima forse troppo impegnativa domanda. Il sottotitolo del Suo libro è “l’altro sguardo sul Potere”. Ma cos'è il Potere esattamente? E' riuscito a venirne a capo?
Cercherò di fare del mio meglio. Come potere sulle persone - quello che qui interessa trattare - il potere, dal punto di vista formale, è fondato sul nesso comando-obbedienza: A ordina B esegue. Su quello contenutistico, implica invece un criterio di legittimità, nel senso che B ubbidisce ad A per una legittima ragione condivisa da entrambi. E su questo criterio si sono sbizzarriti pensatori, filosofi e teorici politici. Per quel che mi riguarda, credo con Hobbes, che alla base della politica risieda, come radice ultima della legittimità, lo scambio protezione-obbedienza: A protegge B, e B ubbidisce al comando, perché si sente protetto. Ovviamente, il rapporto protezione-obbedienza è vincolato alla presenza di un nemico, spesso esterno. Fatto che implica un ulteriore passaggio teorico.
Quale?
Il passaggio rappresentato dalla dicotomia amico-nemico. Diciamo che l’agire politico concreto, e dunque tutte le articolazioni del potere, ruotano intorno allo scambio protezione-obbedienza e alla dicotomia amico-nemico: si ubbidisce perché il potere ci protegge dal nemico interno ed esterno.
Quanto fin qui detto sul potere, implica però una controindicazione…
Di che genere?
Per dirla, con uno scrittore che vorrei studiare più a fondo, Leonardo Sciascia, su tali basi la “sicurezza del potere” finisce “per fondarsi sull’insicurezza dei cittadini”.
Si resta a bocca amara.
Del resto, parafrasando l’espressione coniata da Thomas Carlyle per l’economia, la metapolitica, almeno per me, è una scienza triste. Perché si confronta con l’uomo come è e non come dovrebbe essere. Dispiace riconoscerlo, ma è così.