La recente «resurrezione» della mitica Biblioteca di Alessandria, cioè la ciclopica e meritoria impresa recentemente condotta a termine dal governo egiziano con il concorso di molte e benemerite forze internazionali (né il contrario sarebbe stato possibile) ha avuto anche un curioso – ma a ben guardare ovvio – contraccolpo nell’avvio, all’interno del mondo intellettuale egiziano, ma in senso generale arabo e musulmano, di una polemica condotta anche in toni aspri e violenti. La biblioteca d’Alessandria fu fondata dalla dinastia greco-egizia dei Tolomei, successori di un generale di Alessandro Magno, e arricchita nel tempo tra IV e I secolo a.C.
È un fatto che quella gigantesca e preziosa raccolta libraria, che presumibilmente riassumeva lo scibile della cultura antica, fu distrutta. Il bello è che non sappiamo quando, se cioè nel I sec. a.C., o alla fine del III, o durante il VII. Le due ipotesi che si confrontano sono note: la catastrofe fu dovuta a Giulio Cesare in un incendio che lo vide quanto meno corresponsabile, nel 48-47 a.C., ovvero al fanatismo degli arabi musulmani e in particolare del conquistatore di Alessandria, nel 642 d.C., Amr ibn al-Asi, nel 642 d.C.. Ma non va trascurato un episodio intermedio: la guerra dell’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) contro Zenobia, nel corso della quale fu raso al suolo il quartiere alessandrino detto del Bruchion dove si trovavano la reggia e, al suo interno, la biblioteca dei Tolomei. Riassumendo, il corso più probabile degli avvenimenti secondo la critica storica, filologica e archeologica recente è questo: a causa o per colpa (ma non per volontà) di Giulio Cesare, è molto probabile che il venerabile edificio e il suo contenuto soffrissero di danni, l’entità dei quali non possiamo valutare, già nel 48-77; quindi, in pieno III secolo, ebbe luogo un nuovo episodio d’incendio; infine la nuova biblioteca, che era stata intanto ricostituita e che nel IV secolo si era andata arricchendo attorno alla celebre scuola filosofico-matematica alessandrina, fu distrutta e dispersa dai conquistatore arabi.
Nel 2008, il tema fu ripreso in un bel volume curato dall’attuale direttore della «nuova» Bibliotheca Alexandrina, Ismail Serageldin, What happened to the Ancient Library of Alexandria? (Leiden, Brill, 2008). Alcune voci di studiosi contenute in quel libro, tutte autorevoli, appaiono tuttavia preoccupate di riversare la responsabilità della sciagurata distruzione su Giulio Cesare, scagionandone il conquistatore musulmano e al tempo stesso riprendendo un’erronea congettura moderna che portava a ben 400.000 il numero dei manoscritti distrutti, che secondo Tito Livio sarebbe asceso alla pur spaventosa cifra di 40.000. Ma non si capisce come gli autori di quel volume possano aver steso una congiura del silenzio, o quasi, attorno al fatto che nessuna fonte autorevole antica parla di una distruzione cesariana e ai dati raccolti dall’archeologo Jean-Yves Empereur, e in quello stesso libro del resto ribaditi, dove si afferma con buoni argomenti di prova che l’incendio risalirebbe al II/III secolo d.C. (l’intervento di Empereur figura subito dopo nello stesso volume), o possano aver ancora preso sul serio l’opinione formulata nel 1972 da Peter Marshall Fraser, che nel suo celebre Ptolemaic Alexandria (1972) aveva affermato – in realtà a torto, come ha sottolineato anche di recente Luciano Canfora – che «in epoca imperiale», quando si parla di biblioteca alessandrina, ci si riferisce in realtà al Serapeo, ch’è altra cosa.
Insomma, le conclusioni di Seralgedin appaiono quanto meno forzate: non si ha nesuna autentica e sicura prova di una distruzione cesariana. Possediamo d’altronde la testimonianza di Strabone, che descrive il «Museo» come ancor funzionante, e bene, oltre vent’anni dopo la guerra alessandrina.
Insomma, il tema della distruzione della biblioteca è insidiato dalle passioni del momento. In tempi di fondamentalismo, i musulmani – anche se buoni e attenti studiosi – preferiscono evitar di ricordare che i primi seguaci del Profeta siano stati responsabili di un atto che ancor oggi e soprattutto oggi essi stessi a ragione giudicano barbarico. Per questo il bel libro di Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa (1986), che pur collocava la distruzione della biblioteca al tempo della guerra di Aureliano contro Zenobia, non gode di buona stampa nel mondo musulmano in quanto «colpevole» di ricordare anche i danni nel 642 d.C. Insomma, le distruzioni della biblioteca di Alessandria sarebbero state di sicuro due: nel III e nel VII secolo.
La distruzione araba del 642 di quel che restava o di quel ch’era stato ricostituito è narrata anche da fonti arabe tarde, la più importante è Abul-Faraj/Bar Hebraeus. Ma non si tratta solo, nella polemica odierna, di fondamentalismo musulmano. Nel libro coordinato dal direttore della biblioteca attuale il capitolo conclusivo porta la firma del grande Bernard Lewis, che vi ha riversato praticamente il testo di un suo saggio del 1990: tale capitolo s’intitola, eloquentemente, The Arab Destruction of the Library of Alexandria: Anatomy of a Myth.
Ma che le raccolte librarie greche presenti in Alessandria siano scomparse verso la metà del VII secolo è arduo a contestarsi. D’altronde, a confermarlo c’è un altro dato: il fatto che proprio da allora tutto il bacino mediterraneo abbia conosciuto una drastica interruzione dell’arrivo di scritti greci dall’Egitto. Vi fu insomma una cesura, che del resto venne egregiamente riparata a partire dal IX secolo circa in poi, quando il mondo arabo-musulmano (ormai divenuto anche siro-musulmano e irano-musulmano) recuperò appieno la tradizione ellenica, la studiò e nel corso del XII secolo giunse a trasmetterla anche all’Occidente.
Noialtri poveri cattolici, pur rivendicando i servizi resi alla cultura universale dalle tradizioni cristiane della patristica, della scolastica e dell’umanesimo, abbiamo cessato da tempo di negare o di nascondere le malefatte del fanatismo dei primi cristiani, quelli che incendiavano i templi degli antichi dèi e massacravano i pagani: quegli energumeni che chiusero la scuola di Atene e che assassinarono la virtuosa e dotta Ipazia. Quella cristiana fu una grande rivoluzione: e le rivoluzione conducono regolarmente ad eccessi, dei quali di solito i loro eredi, pur non sconfessandole in sé, si pentono e si vergognano. Anche l’esplosione dell’Islam nel VII secolo fu una grande rivoluzione. Sarebbe bene che i suoi eredi ne riconoscessero una volta per tutte, serenamente e francamente, i lati negativi. Il che non toglie affatto che, come tutti sappiamo (anche se qualche imbecille vorrebbe negarlo), alla cultura musulmana il mondo intero debba sentirsi straordinariamente debitore.
(Autore: Franco Cardini; fonte: Avvenire, 01 agosto 2009)