di Pietro Citati, la Repubblica, 03/11/2010
Con ogni probabilità, Thomas Mann derivò il titolo del suo romanzo La montagna magica, pubblicato nel 1924 (Meridiani Mondadori, a cura di Luca Crescenzi, traduzione di Renata Colorni, con un saggio di Michael Neumann, pagine CLXXVIII-1422, euro 55), da una frase di Nietzsche: «Ora si apre a noi il monte magico dell'Olimpo e ci mostra le sue radici». Per Nietzsche, il monte magico dell'Olimpo era il mondo di Apollo: il mondo della violenza, della dismisura, della colpa, della tenebra, miracolosamente capovolti in legge, armonia, misura, equilibrio, quiete, purezza, profezia. Non so se Mann lo amasse: forse riteneva che non era quello moderno, anzi modernissimo, dove scriveva il suo ardimentoso romanzo sinfonico.
Così Mann rovesciò il significato di quell'aggettivo: magico non era più il regno di Apollo, ma quello del giovane dio rivale, Ermes. Corresse l'errore di Nietzsche perché Apollo ignora ogni magia mentre Ermes fonda il suo regno sulla magia. Profondamente nutrito di cultura mitologica, Mann sapeva che Ermes era stato concepito nella notte in un profondo antro ombroso, tra i monti e i boschi dell'Arcadia. Il dio aveva una mente dalle molte forme, che si volgeva, sempre sinuosa, da tutte le parti: il suo spirito aveva molti colori: era ondeggiante, scintillante, inestricabile; e affascinava tutti coloro che l'incontravano. Ermes giocava ironicamente con l'universo: era un grande artigiano: un ladro: un maestro di discorsi veri e falsi: conosceva il desiderio erotico senza rimedi; accompagnava all'Ade le anime dei morti, sorvegliando le frontiere, i crocicchi e le porte. Amava il viaggio, il commercio, il linguaggio, l'interpretazione.
Con una geniale intuizione Mann comprese che la modernità, in quegli anni dal 1912 al 1924 in cui compose il suo libro, viveva sotto il segno di Ermes. Ma ampliò e mutò questo segno. Il mondo ermetico moderno non affondava nelle caverne, ma stava in alto, presso le cime delle altissime montagne dei Grigioni, tra le nevi, le nebbie, il freddo, il gelo, le nuvole grigio-azzurre, i radiosi e vellutati raggi di sole, il luccichio diamantino della luna, l'ovattata assenza di suoni, le cliniche dove veniva curata la Tubercolosi. Esso aveva due qualità che quello classico non conosceva. La prima era la malinconia: cara a Marsilio Ficino e a Dürer. La seconda era la fascinazione della malattia, che conduceva alla fascinazione ancora più profonda della morte.
Il monte magico è diviso tra due spazi opposti. Il primo sono le pianure di laggiù: il lavoro, la ragione, la salute, la misura, il limite; tutte qualità che culminano nella laboriosissima Amburgo, protesa con le sue navi verso le lontananze degli Stati Uniti. Le montagne di quassù sono invece il luogo della malattia, della fascinazione, del sogno, della morte. Davanti allo sguardo di Thomas Mann e di Hans Castorp, le pianure diventano lontanissime ed estranee e presto vengono dimenticate: mentre tutta l'attenzione è concentrata sulle nevi e il sole e la malattia di quassù.
Nel bel viso di Hans Castorp, l'eroe del romanzo, un'alterigia ereditaria si manifesta sotto forma di un'oscura indolenza: sottili baffetti biondi ne ornano le labbra: un certo torpore, una certa lentezza e inerzia, ne avvolge la figura; un'affabile compiacenza gli fa reputare ogni cosa degna di essere ascoltata. Vive sette anni nella grande clinica, conoscendo ogni esperienza. Dapprima quella del bianco: le pareti bianche compatte; l'infermiera con la cuffia bianca: le porte numerate laccate di bianco; i mobili bianchi, i tappeti bianchi, le tende di lino. Poi conosce i fischi e i raschi della tubercolosi: i raggi Röntgen, il dormiveglia e la febbre. E mentre i rapporti con le terre basse si sciolgono, Hans Castorp vive sempre più chiuso e incantato nell'alone della tubercolosi.
Tutti i suoi sentimenti sono trasformati dalla luce morbida della malattia. Sogna sempre più profondamente, scambia le ombre per cose, e vede nelle ombre le cose. Si innamora come non si era mai innamorato: occhi slavi tra il grigio e l'azzurro lo traggono nel loro abisso; e là trova qualcosa di erotico e di androgino che aveva provato nell'adolescenza. Sale sulle montagne dei tremila metri. Vede nella neve la fonte della vita: vi adora l'origine di tutte le cose: si imbeve di quella luce «strana, delicata, misteriosamente attraente»; prova una specie di estasi, che lo porta vicino alla morte, forse oltre il paese della morte. Mentre le particelle di neve gli fioccano sul viso, il tempo si perde: non c'è più il tempo degli orologi, ma una condizione simile alla crescita segreta, strisciante, impercettibile dell'erba.
Nella clinica di montagna, Hans Castorp non conosce un vero sviluppo interiore: nessun "potenziamento ermetico", nessun "accrescimento alchimistico", come Mann affermava; e alla fine ignora la pietra filosofale che aveva conquistato il suo lontano predecessore, Wilhelm Meister nei Lehrjahre di Goethe. Le terre basse diventano ancora più lontane: mentre sta disteso nella sua sedia a sdraio, Hans Castorp non scrive né riceve lettere; il suo orologio da tasca cade dal comodino e si rompe, uccidendo il tempo. Come afferma Luca Crescenzi, l'intero Zauberberg non è che un sogno ininterrotto lungo sette anni: sebbene il libro non sia veramente permeato da una profonda atmosfera onirica come quella che invade le prose di Thomas De Quincey e di Gérard de Nerval.
Tutto finisce nell'agosto 1914, quando un rombo immane segna l'inizio della prima guerra mondiale, e mette fine all'epoca "borghese-estetica" dove Thomas Mann era cresciuto. Hans Castorp lascia le terre alte: ritorna nella vita, da tanto tempo abbandonata; e combatte tra il rombo dei tuoni, rossi bagliori nel cielo cupo, proiettili furibondi, schegge, scoppi, gemiti e grida, squilli di tromba e tamburi crepitanti, baionette e cadaveri. Forse muore in combattimento. Con lo scoppio della guerra si chiude il clima di Ermes: così almeno Thomas Mann sembra credere. Ma io penso che, con i suoi aspetti multiformi, la mente colorata e la fascinazione, il mondo di Ermes abbia soggiogato la maggior parte del ventesimo secolo. Ne siamo usciti da poco. O forse è impossibile uscirne.
L'edizione dei Meridiani è eccellente. L'introduzione di Luca Crescenzi è piena di idee originali, e il commento è un intreccio di analogie, dove appaiono e scompaiono i malinconici, gli ermetici, i romantici, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, George Brandes, Ricarda Huch, Freud. Renata Colorni affronta un compito ancora più difficile: rendere l'ardua prosa di Mann; quella mescolanza di lirica, razionalità e falsetto, capace di sfibrare qualsiasi traduttore. La sua versione è perfetta. Forse, inebriati dall'entusiasmo, i due curatori sopravvalutano l'arte di Thomas Mann e il Zauberberg. Mann è un grande narratore, ma non un genio del ventesimo secolo come Conrad, Proust, Kafka, Musil, la Woolf, Nabokov. Non amo il falsetto della sua prosa, né le innumerevoli nozioni e idee che la sua regale cornucopia rovescia sopra il nostro capo indifeso.