di Giuseppe Gorlani
Ho letto con estremo interesse la recensione di Aldo La Fata al libro di Jean-Louis Gabin L'hindouisme traditionnel et l’interprétation d’Alain Daniélou. Spero che qualche editore intelligente capisca l'importanza di tradurre presto questo volume in italiano. Intuisco trattarsi di un'opera chiarificatrice fondamentale.
Personalmente apprezzo le opere di Daniélou, poiché illuminano punti focali nella Tradizione del Sanatana-dharma sconosciuti agli occidentali. Tuttavia, alcuni aspetti del suo pensiero mi lasciano perplesso; per esempio laddove, generalizzando in modo ambiguo e fuorviante, sostiene che la via di Shiva sia tamasica, oppure ancora dove giustifica, e in un qualche modo esalta, i sacrifici umani ed animali, i quali avrebbero la funzione di limitare la violenza, restituendola al divino che l'ha voluta nel mondo. Inoltre, il prof. Fausto Freschi di Udine mi aveva già accennato, una decina di anni fa, ad una scarsa valutazione dell'opera di Daniélou negli ambienti tradizionali indiani.
E dire che Jean-Louis Gabin aveva scritto una bella ed elogiativa introduzione a Daniélou in Caste, Egualitarismo e Genocidi Culturali (Societa editrice Barbarossa, Milano 1997).
Nell'autobiografia La via del Labirinto (Ed. Casadeilibri, 2004) emergono altri punti oscuri nella lettura che Daniélou ci dà dell'Hinduismo; per non citarne che uno: riteneva che Sri Ramana Maharshi (il liberato in vita - jivanmukta - che l'India pregiò in modo pressoché unanime) fosse un imbonitore e un imbroglione.
Ho letto anche lo scambio di opinioni con Angelo Ciccarella; condivido di questi le riflessioni sulla sessualità (non ho mai incontrato in India un sadhaka, uno yogin o un baba omosessuale); anch'io credo che incarnare la norma, ossia la pienezza della virilità, valga quale condizione sine qua non per intraprendere un cammino di autentica ascesi. In tal senso è significativo rilevare come Daniélou, pur avendo penetrato con sufficiente chiarezza l'abito non occidentalizzato del cosidetto Hinduismo, non abbia dato segni di comprensione profonda circa la "via" metafisica asparsha (senza sostegni), ovvero la via diretta, enunciata nelle Upanishad, che essenzia il Vedanta e intorno alla quale ruota la religiosità del Bharatavarsha. Tornando a Ciccarella, non condivido però la sua acrimonia nei confronti della Chiesa. Al di là della meschinità di alcuni (pochi o molti) suoi rappresentanti, una Forma tradizionale non può che attingere al Sovrasensibile e quindi in essa vi è qualcosa di permanentemente valido e provvidenziale.
A quanto pare oggi, mentre riceve plausi lo scientismo, dilaga l'anticlericalismo e molte anime, anche nobili e intelligenti, si lasciano inconsciamente contagiare da tale temperie. Da un lato si esalta - in modo "democratico" si intende - la gerarchia e l'autorità basata sull'avere e sul conoscere empiricamente, dall'altro si rifiuta la gerarchia fondata sulla maggiore o minore riflessione della Conoscenza sacra. Da un simile ribaltamento prospettico, niente affatto casuale, derivano di necessità disperazione e disorientamento. Mentre l'uomo viene docilmente guidato verso l'autoannientamento, lo si persuade che egli può fare tutto da sé; in altre parole, lo si priva della dimensione ontologica, ma gli si porge l'illusione di un "io" contingente assoluto. Detto ciò, si comprenderà come l'avversione per le gerarchie tradizionali e per gli autentici maestri abbia potuto diffondersi.