Uno degli interrogativi più ardui e - se ci è concessa l’espressione - più appassionanti della teologia cristiana è, a nostro avviso, il seguente: «Se non vi fosse stato nessuno da redimere, Cristo si sarebbe fatto egualmente carne e sangue; si sarebbe fatto egualmente Uomo fra gli uomini, affrontando, per amor loro, la sofferenza e la morte?».
Non è, si badi, una domanda oziosamente astratta; non è una domanda per professori che hanno la sola preoccupazione di girarsi i pollici tutto il santo giorno, seduti comodamente dietro la loro cattedra, con la sicurezza dello stipendio assicurato ad ogni fine del mese.
Al contrario: è una domanda drammatica; e, inoltre, una domanda estremamente pregnante, anche sul piano speculativo e prettamente filosofico.
Drammatica: perché, per un cristiano, il mistero più altro della propria religione, l’Incarnazione, si intreccia con quello altrettanto profondo della Redenzione, e pone con forza la questione del senso della condizione umana, anzi, della condizione universale: a che cosa tendono gli enti, e con quali forze possono realizzare la propria vocazione? Se sono stati chiamati alla pienezza, cioè al Bene, come mai non possiedono l’autonoma capacità di perseguire tale fine; e come mai, pur potendo disporre dell’aiuto soprannaturale della Grazia, accade frequentemente che cadano ugualmente, né riescano a portare a termine il proprio scopo?
Pregnante: perché, se il peccato originale ha reso necessaria l’Incarnazione, allora è l’uomo che, con la sua caduta, muove il piano provvidenziale di Dio: e, in questo caso, dovremmo parlare di una teologia antropocentrica, nella quale tutto parte dell’uomo ed all’uomo ritorna; mentre, se si ammette che l’Incarnazione vi sarebbe stata comunque, allora ci si trova in presenza di una teologia cristocentrica, sulla linea del Vangelo di San Giovanni e delle Epistole di San Paolo.
«In principio era il Verbo [il Logos] - esordisce, magnificamente, il quarto Vangelo -; e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio».
E ribadisce il concetto con l’affermazione esplicita di Cristo (Gv., 10, 30): «Io e il Padre siamo una cosa sola».
Dunque, Cristo esiste «ab aeterno»: il fatto che Egli si sia incarnato, in un dato momento storico, non significa che Egli si riduce alle dimensioni del Cristo storico; al contrario: il Cristo storico è solo la manifestazione visibile, per così dire, del Cristo divino, del Cristo eterno.
E, se è eterno, allora vuol dire che il Cristo continua ad essere non solo l’alfa, ma anche l’omega della creazione: vuole dire che tutte le cose tendono a lui, o meglio, che Egli attira a sé tutte le cose, per dare ad esse la pienezza e la vita.
Come dice San Paolo nella Lettera agli Efesini (4, 7 sgg.):
«Il corpo di Cristo si svilupperà fino a quel giorno in cui l’unità della fede ci raccoglierà tutti nella conoscenza perfetta del Figlio di Dio e giungeremo a formare l’uomo adulto, a raggiungere pienamente la statura di Cristo.»
E, sempre San Paolo, nella Lettera ai Corinzi, XV, 12-28):
«Noi dunque predichiamo che Cristo è risuscitato dai morti. Allora come mai alcuni tra voi dicono che non vi è risurrezione dei morti? Ma se non c’è resurrezione dei morti, neppure Cristo è risuscitato! E se Cristo non è risuscitato, la nostra predicazione è senza fondamento e la vostra fede è senza valore. Anzi finiamo per essere falsi testimoni di Dio, perché, contro Dio, abbiamo affermato che egli ha risuscitato Cristo. Ma se è vero che i morti non risuscitano, Dio non lo ha risuscitato affatto. Infatti se i morti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato. E se Cristo non è risuscitato, la vostra fede è un’illusione, e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche i credenti in Cristo che sono morti sono perduti.
Ma se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini.
Ma Cristo è veramente risuscitato dai morti, primizia di risurrezione per quelli che sono morti. Infatti per mezzo di un uomo è venuta la morte, e per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione. Come tutti gli uomini muoiono per la loro unione con Adamo, così tutti risusciteranno per la loro unione a Cristo. Ma ciascuno nel suo ordine. Prima Cristo che è la primizia, poi, quando Cristo tornerà, quelli che gli appartengono. Poi Cristo distruggerà ogni Principato, Dominazione e Potenza, e consegnerà il regno a Dio Padre: allora sarà la fine. Perché Cristo deve regnare, finché Dio abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte. Infatti la Bibbia afferma: «Tutto ha posto sotto i suoi piedi» [quest’ultima citazione si riferisce al Salmo 110, 1, e al Salmo 8, 7].
Ma quando dice che tutto gli è stato assoggettato, è chiaro che si deve eccettuare colui che gli ha assoggettato ogni cosa. E quando avrà assoggettato a lui tutte le cose, allora il Figlio stesso farà atto di sottomissione a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti.»
E ancora Giovanni, nel Libro dell’ Apocalisse (22, 12 sgg.):
«Ecco, io vengo presto, e porto con me il premio, per retribuire ciascuno secondo le opere sue. Io sono l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine.»
Dicevamo che la tesi antropocentrica relativa all’Incarnazione è stata sostenuta da Tommaso d’Aquino e dalla sua scuola, con la celebre formula: «Peccato non existente, Incarnatio non fuisset»; cioè: «Se non vi fosse stato il peccato [originale], non avrebbe avuto luogo neppure l’Incarnazione» («Summa Theologiae», III, q. 1, a. 3).
È pur vero che né San Tommaso, né San Bonaventura, insieme alla maggior parte dei teologi della Scolastica, hanno presentato tale proposizione come una certezza, ma solo come una probabilità; è probabile - essi dicono - che, se non vi fosse stato il peccato, Dio non avrebbe avuto necessità di incarnarsi per liberare gli uomini da esso.
Ma quella probabilità fu trasformata in certezza dai seguaci e dai continuatori di San Tommaso e di San Bonaventura; e tale divenne ,ben presto, nella convinzione dei più.
Da parte sua, Giovanni Duns Scoto, il «Doctor Subtilis» dell’Ordine francescano, contemporaneo di Dante, aveva elaborato una dottrina diversa: per lui, era cosa certa - e non soltanto probabile - che Cristo si sarebbe incarnato egualmente, anche se non vi fosse stato il peccato originale, portando verso la pienezza l’intera creazione.
Al di là della differente interpretazione dei passi scritturistici che giustifica i diversi esiti della ricerca delle due grandi scuole teologiche medievali, la tomista (che, in questo caso, prese decisamente il sopravvento per alcuni secoli, diciamo pure fin verso il Concilio Vaticano II) e la scotista, la differenza di fondo delle due linee di pensiero verte su un aspetto che trascende di gran lunga l’oggetto della disputa, ossia la gratuità assoluta della Redenzione.
Per la scuola tomista, Cristo si è incarnato per redimere l’umanità peccatrice; dunque, Egli ci ha riscattato a caro prezzo perché fossimo liberati dagli artigli del diavolo e dalla morte stessa, frutto del peccato.
È chiaro che, alla base di questa interpretazione, l’attributo divino che viene privilegiato è la Giustizia. Dio compie un atto di riparazione, ricomprando - cioè pagando il prezzo dovuto – ciò che era stato venduto: tale il significato etimologico del verbo «redimere». Innegabilmente, questa interpretazione finisce per assumere una connotazione di tipo prevalentemente legalistico: l’Incarnazione e la stessa Passione di Cristo appaiono come la volontà di adempiere ai doveri di un contratto.
Invece l’interpretazione scotista ha questo di caratteristico, che mette in risalto la gratuità del dono fatto da Dio all’uomo mediante l’Incarnazione. Cristo si incarna per un atto di amore e per portare nel mondo la pienezza della sua vita, della sua gloria, della sua luce.
Per Duns Scoto, Cristo che si incarna compie un atto di amore gratuito, totalmente libero e, quindi, non condizionato dal peso del peccato; la Redenzione, pertanto, non è solo e unicamente il risarcimento di un danno commesso (la colpa di Adamo), ma la Redenzione dell'umanità e dell'universo tutto (come dice San Paolo) dai limiti di una condizione imperfetta, dominata dalla morte, per trasfigurarlo nella sua stessa Vita inesauribile.
Anche Teilhard de Chardin fondava la sua teologia sull'idea cristocentrica e pensava che una grande evoluzione cosmica conducesse ogni cosa verso il Cristo finale, fonte di amore inesauribile, che segna l'alfa e l'omega del creato.
Ma vediamo più da vicino le ragioni per le quali la scuola tomista perviene alla formulazione sopra citata: «Peccato non existente, Incarnatio non fuisset»; dopo di che, potremo sviluppare alcune considerazioni più specifiche in proposito.
Per farlo, ci serviamo di una pagina del saggio del teologo J. F. Bonnefoy, «Il primato di Cristo nella teologia contemporanea», in «Problemi e orientamenti della teologia dogmatica», Milano, Marzorati, 1957, vol. II, p. 193 sgg., 226); riportato anche nel libro di Samuele Girotto «Cristo, centro dell'Universo» (Torino, Marietti, 1969, pp. 318-21):
«Un altro punto della scuola tomista che restringe e oscura la vocazione del Cristo nell'universo, è quello riguardante le ragioni e le finalità dell'Incarnazione.
I teologi scotisti fermano la loro attenzione principalmente sul culto d'onore e d'amore dovuto in modo adeguato e sicuro all'infinita maestà di Dio, sulla Signoria assoluta e universale dell'uomo Cristo Gesù.
I tomisti, invece, escludono questi scopi e affermano - nel decreto dell'Incarnazione - un solo motivo o fine: quello redentivo, citando anch'essi, a prova della loro dottrina, testi biblici e patristici.
Si è già visto sopra che il loro modo di ragionare sui testi citati non corrisponde a verità. Lo documentiamo con le seguenti riflessioni storiche e teologiche.
"La ragione propriamente detta dell'Incarnazione che si trova più spesso sostenuta nella teologia latina - osserva Bonnefoy - è indubbiamente la redenzione del genere umano.
Si deve vedere in questo fenomeno un'influenza, se non addirittura una esagerazione, della dottrina di S. Agostino, maestro dei nostri grandi Scolastici..
Egli, che aveva avuto nella giovinezza una penosa esperienza del male morale, ne fu costantemente preoccupato, cosicché si potrebbe dire della sua teologia quello che il Gilson ha detto della sua filosofia: essa è una teologia della conversione.
Che il Cristo sia il nostro Salvatore, lo attestano tutte le pagine della Sacra Scrittura e lo stesso nome di Gesù. Non c'è cristiano che lo contesti.
L'errore comincia quando si dice espressamente o in modo equivalente che la nostra redenzione è l'unico beneficio dell'Incarnazione.
Questa utilità, più sentita perché più aderente a noi, non deve tuttavia nascondere altre verità non meno indiscutibili, e principalmente il fatto che la nostra elevazione alla vita soprannaturale è ugualmente un beneficio dell'Incarnazione, un frutto della Passione di Cristo.
I difensori del primato assoluto di Cristo (gli scotisti) hanno amato sottolineare questo punto di vista per combattere la tesi tomista, secondo la quale la redenzione sarebbe l'unico motivo dell'Incarnazione…
Degno di particolare interesse, per il suo tono non polemico, lo studio di Lot-Borodine sulla "Dottrina delle deificazione nella Chiesa greca fino al XII secolo".
L'autrice ha potuto scrivere, esagerando un po', quanto segue: 'D'altra parte, la caduta prevista - quasi augurabile nel sistema agostiniano, a causa dell'Incarnazione, resa necessaria da essa (cioè dalla colpa di Adamo) e inutile senza di essa - non è mai stata per l'Oriente la FELIX CULPA; ciò tanto meno, poiché l'Incarnazione non vi è mai stata concepita (nell'Oriente) in funzione della Redenzione.'
Quali che possano essere i ritocchi da apportare sotto il profilo storico a quest'ultima osservazione - continua il Bonnefoy -, è ben certo che la redenzione liberatrice, come si verifica nel genere umano, e la stessa nozione di CADUTA, presuppongono una elevazione preliminare, che la Scrittura e la Tradizione attribuiscono ai merito di Cristo re che i Padri hanno valorizzato.,
Le due fonti della Rivelazione non sembrano meno chiare - malgrado le perplessità di una parte della scuola tomista - nel considerare Gesù Cristo come il mediatore degli Angeli.
Anche qui gli autori scotisti si sono preoccupati di raccogliere le testimonianze della Tradizione relative a questo punto di dottrina. Basterebbe questo per controbattere la tesi della redenzione unico motivo dell'Incarnazione, e la conseguenza che se ne trae (dai tomisti): 'Dunque, se Adamo non avesse peccato, il Verbo non si sarebbe incarnato'.
Ecco il motivo per cui gli scotisti hanno tanto insistito su questa dottrina (cioè sulla mediazione di Cristo e dei suoi meriti in favore della santificazione e della salvezza degli angeli…).
L'insegnamento dei Padri, meglio conosciuto sulla grazia degli angeli e sulla formazione del corpo di Adamo, ha aperto una breccia nella tesi tomista del motivo unico dell'Incarnazione.
Così pure l'attribuzione non meno comune - specialmente presso i Padri greci - della prima grazia dei nostri progenitori ai meriti di Cristo determina il crollo completo della tesi fondamentale della scuola domenicana, che così si esprime: 'L'Incarnazione non è causa della grazia per gli Angeli, né per Adamo innocente'.
Un altro sublime beneficio dell'Incarnazione è la singolare predestinazione di Maria Vergine, che fu decretata da Dio anteriormente alla predestinazione degli Angeli e degli uomini, e quindi indipendentemente dalla caduta di Adamo e da qualunque debito di peccato.
Questa dottrina - cioè l'esenzione di Maria anche dal debito di contrarre la colpa - guadagna terreno di giorno in giorno, come si è potuto constatare recentemente a Roma in occasione del Congresso Mariologico del 1954. Essa è parsa a numerosi teologi come imposta dalla stessa definizione dogmatica del 1954. E coloro che la contestano riconoscono ch'essa è una conseguenza logica (e necessaria) del primato assoluto di Cristo.»
E conclude Samuele Girotto (op. cit., p. 322):
«È dunque chiaro quanto sia insostenibile, anzi erronea, la tesi tomista dell'unico motivo o fine dell'Incarnazione.
Come la redenzione del genere umano dal peccato è uno dei fini dell'Incarnazione, così pure il culto d'onore e d'amore dovuto a Dio, la Signoria universale del Cristo, il suo Primato assoluto, la deificazione delle creature ragionevoli, sono altrettante finalità della venuta di Cristo nel mondo, racchiuse nei testi biblici, bene interpretati.»
Dunque, e a parte il discorso su Maria Vergine e sul mistero della sua predestinazione, la teologia di Giovanni Duns Scoto individua diversi motivi per l'Incarnazione, oltre a quello puramente redentivo e legalistico d'impronta tipicamente vetero-testamentaria.
Il più importante di essi, posto che sia possibile istituire una graduatoria, è che la venuta di Cristo nel mondo rende più esplicito e comprensibile agli uomini il messaggio di Dio, la Buona Novella (Evangelo), attraverso la sua predicazione, la sua Passione e la sua Resurrezione, cuore e centro della teologia paolina.
Teilhard de Chardin, come è noto, ha portato alle estreme conseguenze il concetto che Cristo non è venuto nel mondo una sola volta, ma tornerà - anzi, sta già tornando - per attrarre a sé l'intera creazione, trasfigurandola in cieli nuovi e terre nuove; e che, dunque, non solo per gli uomini (e per gli Angeli) si svolge questo gigantesco dramma cosmico, ma per ogni singolo ente dell'universo, compresi quelli che, alla nostra debole scienza attuale, possono apparire privi di ragione.
Ma quale maggiore assurdo, che quello di immaginare creati da Dio degli enti perfettamente inutili? Ché tali sarebbero quelli che, privi di ragione e di coscienza, non sarebbero mai in grado di godere i benefici della rivelazione finale di Cristo e della trasfigurazione del cosmo.
C'è un passo famoso e veramente potente di San Paolo, a questo proposito, che recita così (nella Epistola ai Romani, 8, 19-23):
«La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella gloria dei figli di Dio. sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.»
Anche il corpo, quindi, attende di essere redento; la redenzione non è un fatto che riguardi solo la dimensione spirituale.
Anche la terra soffre e geme, come nelle doglie del parto, in attesa della propria redenzione. Possibile che queste parole debbano essere intese solo in senso poetico e metaforico? Francamente, la cosa ci sembra un po' eccessiva. È ben vero che San Paolo parla, talvolta, in senso figurato; ma, quando lo fa, lo dice apertamente, e non lascia sussistere margini di ambiguità su cose d'importanza fondamentale.
Ora, la prospettiva delineata qui da San Paolo è perfettamente in accordo sia con il Quarto Vangelo, sia con l'escatologia dell'Apocalisse. Il Padre e il Figlio sono una sola ed unica realtà; il Figlio è sempre esistito e si è poi manifestato al mondo, per tornare al Padre, in attesa degli ultimi tempi; la funzione della sua venuta è quella di manifestare apertamente agli uomini la gloria del Padre e annunciare loro la parola dell'Amore, che comprende ma, al tempo steso, supera la parola della Legge.
Se Cristo si fosse incarnato solo per attuare la redenzione degli uomini dal peccato, allora il suo non sarebbe stato un atto di amore assolutamente libero: sarebbe stato condizionato da uno stato d necessità. In breve, non avrebbe potuto esprimere a pieno quel messaggio di amore gratuito e disinteressato che oltrepassa di gran lunga la prospettiva legalistica e giustizialistica dell'Antico Testamento.
Se Cristo si fosse incarnato solo per liberare gli uomini dal peccato, il cristianesimo non avrebbe sostanzialmente superato l'ambito del giudaismo; perché il giudaismo non è mai arrivato all'idea di un Redentore universale che si fa uomo per amore degli uomini, di tutti gli uomini, non solo per liberarli dalle tenebre del peccato, ma anche per donare loro, a tutti gli effetti, la pienezza di figli, in un universo totalmente rinnovato e spiritualizzato.
(Fonte: /www.ariannaeditrice.it 29/04/2009; autore: Francesco Lamendola )
Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amm. comunali, per Ass. culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Ist. per la Storia del Risorgimento; la Soc. "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Ass. Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A.Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.