06/12/08

Piramidi di tempo

“No, Tempo, tu non ti vanterai che io muti! / Le tue piramidi costruite con rinnovata potenza / non sono per me nulla di nuovo, nulla di strano: / soltanto rivestimenti di uno spettacolo già visto …”.
E’ all’incipit del Sonetto 123 di Shakespeare che Bodei ricorre per intitolare la sua ultima fatica dedicata come recita il sottotitolo – Storie e teoria del déjà vu – ad un tema in apparenza desueto ma, in realtà, quanto mai intrigante in un momento storico come quello attuale alla continua ricerca di chiavi di lettura non convenzionali in grado di scandagliare le tante zone d’ombra che popolano le pieghe dell’animo umano. Più di una volta è capitato a ciascuno di noi di provare in un determinato momento la sensazione di aver già vissuto una situazione identica, di aver già conosciuto una certa persona che si incontra per la prima volta o di essere stati in un luogo nel quale, in realtà, non ci si era mai recati. A ben vedere, fili sottili legano tale esperienza – definita in Francia a fine ottocento con il termine déjà vu - con i sentimenti di stupore, incredulità e di inquietudine. “La sensazione di ripercorrere frammenti di passato – afferma Bodei all’inizio della sua indagine - è, per alcuni istanti, così netta e imperiosa da riempirci di sconcerto e da provocare un disorientamento temporale” (p. 8).
Un senso di estranea familiarità, dovuto a una speciale reazione chimica, unisce déjà vu e jamais vu e spinge l’individuo verso una situazione conflittuale che lo porta ad accettare e, contestualmente, a rifiutare la sensazione provata. E’ una sensazione simile a quella onirica, in cui realtà e irrealtà si sovrappongono e le differenze temporali sembrano svanire con la sola differenza che nel déjà vu si diventa vittime di un “sogno rovesciato”. Nel sogno, infatti, si scambia un’allucinazione con la realtà mentre in quest’ultimo si prende la realtà per un’allucinazione, si assiste ad una sorta di trompe-l’oeil temporale che determina, anche se per brevi momenti, la perdita della propria identità. Il fluire dell’esperienza sembra arrestarsi e il presente si rispecchia specularmente nel passato in maniera così completa da far ritornare indietro la percezione avvertita sotto forma di ricordo. In quei momenti è come se “l’attenzione alla vita” si allentasse, quasi a volersi difendere da impressioni, fantasie o pensieri sgradevoli o addirittura traumatici e per il soggetto scattasse un campanello d’allarme incaricato di segnalare il rischio di una destabilizzazione sia pur lieve della personalità.
Ulteriore tappa del viaggio intrapreso da Bodei nei meandri dell’esperienza umana, l’indagine sembra prendere in apparenza le distanze dal teatro del mondo ma in realtà conferma la fedeltà dell’autore nei confronti di una filosofia agonistica, giocata sulla contrapposizione degli opposti e lontana dalle certezze che le odierne forme di “razionalismo” sembrano offrire. Rispetto alla scarsa attenzione riservata nel dibattito pubblico al tema del déjà vu durante il novecento non è casuale, a suo giudizio, l’interesse che tale fenomeno continua a suscitare a livello individuale ponendo ai singoli, sempre più abbandonati a se stessi, quesiti ai quali le discipline sia umanistiche che scientifiche non hanno saputo fornire risposte adeguate.
Più che ricostruirne la vicenda diacronica che affonda le radici nel filone platonico e ancor prima nelle correnti orfico-pitagoriche, a suscitare l’interesse di Bodei è la ripresa del fenomeno nell’ottocento quando iniziarono a fiorire studi sull’argomento in campo medico, letterario e filosofico. La sua attenzione è, infatti, rivolta ai nessi tra fisiologia, poesia, romanzo, psicologia, filosofia e “metafisica popolare” che sono stati posti in evidenza proprio a partire dalla metà del secolo. Il sorgere della questione in quel periodo è da collegare all’insanabile frattura, delineatasi all’epoca, fra l’accelerazione del tempo storico ed esistenziale della modernità e, secondo la definizione di Benjamin, gli “antichi universi simbolici” o, in altri termini, tra la “vie antérieure” di Baudelaire assurta ormai a remoto e indistinto passato mitico e lo “spleen”, come reazione agli choc dovuti ai vorticosi cambiamenti del presente. Svanito il saldo ancoraggio alla realtà garantito dalla tradizione, sembra prevalere una “caleidoscopica fantasmagoria” di pensieri, immagini e emozioni nella quale la dimensione temporale pare oscillare fra lo scorrere degli eventi e il ritornare dell’identico, dell’istantaneo che giunge quasi ad annullare la differenza fra passato e presente.
Nel corso del saggio, la dimensione interdisciplinare del fenomeno dejà vu consente a Bodei di porre in relazione – secondo il procedere a lui caro per coppie di antitesi – temi quali la memoria e le dimensioni del tempo, l’eternità e l’eterno ritorno, il delirio e il rimpianto, l’identità e la scissione della personalità. Non a caso, la natura stereoscopica del concetto di dejà vu ne suggerisce un’interpretazione non univoca, partendo dalla considerazione che agli studiosi non risulta ben chiaro se il fattore scatenante abbia origine organica o psichica.
Attraverso un insolito ma affascinante percorso Bodei ripropone pagine più o meno note di poeti, scrittori, filosofi, medici e psicologi che si sono misurati in vario modo, attraverso esperienze autobiografiche, considerazioni speculative, analisi scientifiche, con l’universo del dejà vu.
I primi versi nei quali il lettore può ritrovare un’esperienza di dejà vu sono quelli del pittore preraffaellita Dante Gabriele Rossetti nella lirica Sudden light dedicata nel 1854 alla sua compagna Elizabeth Eleanor Siddal – all’epoca ancora in vita - e rivisitata nel 1870 sull’onda dei ricordi che lo assalivano dopo la sua tragica scomparsa. Nelle pagine seguenti Bodei rivisita liriche ben più note di Verlaine e Ungaretti, Kaléidoscope e Risvegli, dedicate rispettivamente al tema della metamorfosi dell’identico e a quello delle “epoche della vita” in cui il poeta inscrive la propria esperienza di essere umano. La voce della poesia si insinua anche nel delicato conflitto fra la logica razionale e la logica del desiderio: in questo caso è l’invocazione dantesca - solo in apparenza incongrua – alla Vergine madre che apre il XXXIII canto del Paradiso: “Vergine madre, figlia del tuo Figlio”.
A tentazioni diaboliche riconduce, invece, Agostino le false reminiscenze provate per lo più nel sonno per influsso di spiriti maligni e ingannatori che procurano artatamente false opinioni sulla migrazione delle anime. In realtà, ha inizio con lui il rifiuto che la dottrina cristiana, fondata sulla incarnazione del Figlio di Dio, avrebbe esercitato nei secoli nei riguardi di qualsiasi forma di eterno ritorno dell’identico. Tale dominio sarebbe durato fino all’avvento sulla scena filosofica di Nietzsche, la cui teoria dell’eterno ritorno rinvia all’atmosfera rarefatta dei ricordi ed alla sospensione del fluire del tempo materiale. In questo caso è la dimensione della volontà individuale a farsi strada, affermando il valore di una nuova dimensione temporale che rende ogni attimo omaggio alla pienezza della vita. Sancita in questo modo la frantumazione dell’io, l’analisi del concetto di dejà vu si orienta da un lato verso la psicopatologia interessata allo studio dei fenomeni di “depersonalizzazione”, mentre individua dall’altro con Bergson l’importanza del vissuto, del dejà veçu, che connota ogni esperienza. Secondo la definizione del filosofo, il presente si sdoppia in due getti simmetrici, il ricordo e la percezione, il primo che ricade verso il passato, il secondo che si slancia verso il futuro. Nel caso in cui quest’ultimo movimento si blocca, ne deriva una sensazione di smarrimento che, se transitorio, può costituire una preziosa valvola di sfogo per le tensioni accumulate. In un simile contesto l’esperienza del dejà vu, come quella del sogno, svolgono a suo giudizio una funzione terapeutica, in cui il momentaneo distacco dalla realtà può aiutare a prevenire crisi più profonde.
Ma, secondo Bodei, è Walter Benjamin - interprete per eccellenza della crisi dell’uomo contemporaneo – a considerare il dejà vu, la vie antérieure e l’eterno ritorno come illusorii risarcimenti della fragilità psichica e del senso di angoscia prodotti dal tempo dello spleen e del jamais vu. Ed a tale proposito riporta le tesi che sull’argomento Benjamin formulò a Capri, nel 1924, durante una discussione con Ernst Bloch sul racconto di Ludwig Tieck Der blonde Eckbert (1797) in cui memoria, oblio e senso di colpa intrecciano i loro fili con l’esperienza mai pienamente definibile del dejà vu. Il passo verso la sfera del delirio schizofrenico e le pagine freudiane è sicuramente breve ma Bodei, nell’affrontare temi di così vasta portata, riesce con tratto deciso a ricondurre il lettore nell’atmosfera rarefatta e multiforme della creazione artistica in cui ciascuno può cercare la risposta più idonea ai dejà vu che hanno costellato il proprio vissuto.

Remo Bodei
Piramidi di tempo
Storia e teoria del dejà vu
Bologna, Il Mulino, 2008


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