03/02/07

Escono l'epistolario di Gabriele D'Annunzio e la ricostruzione dell'amicizia che lo legò al medico Antonio Duse.

Quali sono i più grandi epistolografi della nostra letteratura? Petrarca, Tasso, Leopardi forse Foscolo. E certo D'Annunzio, non solo per la quantità delle sue missive, che riempiono bauli, ma per la qualità sempre felice e sorvegliatissima della sua scrittura. Ci pensavo qualche mese fa, presentando all'università di Torino Il fiore delle lettere di Gabriele d'Annunzio pubblicato dalle edizioni dell'Orso di Alessandria a cura di Elena Ledda e con una prefazione di Marziano Guglielminetti (l'ultimo lavoro di quel fine critico, poi rapito da una morte prematura). L'antologia è ordinata per temi (Lettere familiari, d'arte, di guerra, d'amicizia) alla maniera di Petrarca, evocato anche nei titoli dei raggruppamenti (Familiares, Variae, Seniles). Per temi Lucia Vivian ordinava una scelta dell'avvincente carteggio di Gabriele con la sua amante veneziana del 1915-18, Olga Levi, edito da Marsilio col titolo La rosa della mia guerra. Ma a ben vedere, le lettere amorose o decisamente erotiche, che D'Annunzio vergò ad abundantiam in guerra e in pace, finiscono per relegare purtroppo in ombra altri interessanti carteggi, altri temi registri e affetti che vi circolano: l'amicizia, per esempio. E all'insegna di un'amicizia delicata e profonda è l'epistolario che impreziosisce la monografia che l'Ateneo di Salò ha dedicato all'illustre concittadino che curò nel corpo e nello spirito il solitario artista del Vittoriale: Antonio Duse medico di piaghe e dottore di stelle. Titolo suggestivo, che proviene, appunto, da una limpida silhouette di Duse tracciata da Gabriele: «Dallo sforzo ritmico del rematore alla immobile insidia dell'uccellatore, egli ha studiato e studia tutti i gradi e i modi dell'esercizio umano. Uno de' miei dilettissimi trecentisti lo chiamerebbe Medico di piaghe e Dottore di stelle». Il volume l'hanno curato due dannunzisti di lungo e lunghissimo corso, e anzi innamorati del poeta-soldato: Elena Ledda e Vittorio Pirlo. Già bibliotecaria del Vittoriale, Ledda ha al suo attivo numerosi studi. Nipote di Duse, Vittorio Pirlo ha dedicato la sua passione al Comandante e al suo Lago, seguendo per anni il teatro del Vittoriale e illustrando documenti alla mano particolari curiosi del vulcanico Gabriele: dai gusti in cucina alla passione per la velocità. A cinquant'anni dalla morte del chirurgo, i due autori hanno voluto tramandarne la memoria, togliendolo un po' da quell'ombra discreta in cui aveva protetto la sua relazione con il Poeta. Duse non era parente della grande attrice legata a D'Annunzio, anche se la sua famiglia affondava come la divina Eleonora le radici in terra veneta. Figlio d'arte, Antonio succedette al padre come primario dell'ospedale salodiano, che contribuì ad ampliare e migliorare. La sua generosità l'aveva visto soccorrere i terremotati di Messina, i soldati feriti nel deserto libico e nelle trincee alpine. Fra i suoi pazienti, nomi illustri quali Pompeo Molmenti, Ugo da Como, il principe Scipione Borghese, gli scultori Angelo Zanelli e Renato Brozzi, il musicista Gian Francesco Malipiero, e soprattutto Gabriele. Fu al suo capezzale dopo la misteriosa caduta dell'agosto 1922 che tagliò fuori Gabriele dagli eventi che condussero alla marcia su Roma. Registrò le frasi pronunciate dal poeta man mano che dal delirio della commozione cerebrale risorgeva la coscienza: sprazzi di luce, liberi da un prefissato disegno logico e che Duse fermava sul suo diario mosso da scrupolo clinico e da vera devozione (lo pubblicai presso Giunti col titolo di una frase di quell'ispirato delirio, «Siamo spiriti azzurri e stelle»). Rileggendo più tardi quelle note, Gabriele maturò l'idea di una scrittura libera, di un quasi joyciano flusso di coscienza cui diede sbocco nella sua tarda e modernissima opera, il Libro segreto che muoveva proprio da quella tremenda caduta: se l'autore spacciando l'incidente per mancato suicidio fingeva, non mentiva però affatto parlando di sé come di un uomo spesso «tentato di morire». A fianco di Gabriele, il dottor Antonio rimase fino alla morte, nel 1938, e anche post mortem conservò quel riserbo che gli aveva meritato la piena confidenza del Vate. Quanti segreti grossi e piccoli tenne per sé: l'operazione d'ernia inguinale che il Comandante volle spacciare per una meno "volgare" appendicectomia; la rimozione di una cisti nello scroto per cui Gabriele millantava scherzosamente di avere tre testicoli al pari di Bartolomeo Colleoni; la misteriosa farmacia cui il vate ricorreva anche per combattere il suo male più insidioso, quella angoscia ricorrente e immotivata che oggi chiamiamo prosaicamente depressione. Basta uno stralcio di lettera per dare il senso di quella complice e profonda amicizia: «La mia tristezza, spesso, si fa così cupa che mi vien l'impeto di sommergerla nel lago, o nel seno di una donna ignara. Non sorridere. Ma è delitto vero il disperdere così angosciosamente le forze vive di un cervello che sembra aver raggiunto - dopo la fenditura - la sua piena virilità». Paziente ma anche brescianamente schietto, Duse risponde al Vate che resta esposto alla pioggia chiedendo il suo consenso: «Sono convinto che lei peggio fa e meglio sta!». E non deve forse a Duse la passione per i piccioni viaggiatori il vecchio recluso del Vittoriale divenuto «colombofilo» anzi «colombiere» come dice con parola più precisa ed elegante? Perché l'austero Duse emerge dal libro come un appassionato ornitologo, rigoroso scienziato che mise insieme una superba raccolta di uccelli impagliati ma anche appassionato roccoliere e cacciatore che non disdegnava un odoroso spiedo con polenta, che riuscì a far apprezzare anche al sobrio Gabriele, che non mancava di vizi ma peccava raramente di gola. L'impressione dominante che resta di lui è quella di un medico di vocazione, attento ai pazienti umili non meno che agli illustri. Accanto alla lode che gli fece l'Imaginifico chiamandolo « medico di piaghe e dottore di stelle», piace ricordare, non meno bella, quella implicita nel modo proverbiale, rudemente bresciano, usato dai suoi salodiani per indicare un malato incurabile:«Nol la guaris piö gna' el Duse”.(Gabriele D’Annunzio, Il fiore delle lettere, Ed. dell’Orso, 2007; V.Pirlo, E.Ledda, Antonio Duse: medico di piaghe e dottore di stelle, Ateneo di Salò, 2007).
(Autore: Pietro Gibellini; fonte: Avvenire del 03/02/2007)

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