La rivista “Metapolitica” in passato si è occupata a più riprese del
fenomeno della “Nuova Destra” francese (Nouvelle Droite), del Grece (Gruppo di Ricerca e di Studi per la civiltà
europea) e del suo principale animatore Alain de Benoist (1943); rimandiamo
in particolare agli articoli “A Parigi si rumina”, (n. 1-2, 1980) e “Sole di
Roma e nebbie parigine” (3-4, 1980), vergati entrambi da Silvano Panunzio.
Alain De Benoist è senza dubbio, come ebbe a definirlo Pierre-André Taguieff, un “intellettuale atipico” e la sua intelligenza e il suo imponente bagaglio culturale sono fuori discussione. Anche i suoi numerosi saggi (una trentina di titoli) costituiscono un patrimonio di cultura e di analisi di cui non ci si può sbarazzare facilmente. Arriviamo anche a dire che la cosiddetta “Nuova Destra”, anche nella sua versione italica con Marco Tarchi in testa, rappresenta forse uno degli sviluppi più interessanti e originali del pensiero conservatore; qualcosa di paragonabile, servata distantia, alla “Scuola di Francoforte” degli Horkheimer, Adorno e Marcuse. Tuttavia, andando più a fondo, se ne debbono anche indicare limiti ed errori; errori non di poco conto sui quali è doveroso soffermarsi.
Alain De Benoist è senza dubbio, come ebbe a definirlo Pierre-André Taguieff, un “intellettuale atipico” e la sua intelligenza e il suo imponente bagaglio culturale sono fuori discussione. Anche i suoi numerosi saggi (una trentina di titoli) costituiscono un patrimonio di cultura e di analisi di cui non ci si può sbarazzare facilmente. Arriviamo anche a dire che la cosiddetta “Nuova Destra”, anche nella sua versione italica con Marco Tarchi in testa, rappresenta forse uno degli sviluppi più interessanti e originali del pensiero conservatore; qualcosa di paragonabile, servata distantia, alla “Scuola di Francoforte” degli Horkheimer, Adorno e Marcuse. Tuttavia, andando più a fondo, se ne debbono anche indicare limiti ed errori; errori non di poco conto sui quali è doveroso soffermarsi.
Il saggio che segue, a firma Primo Siena, giunge pertanto
a proposito non solo per rimettere le cose in chiaro sul fenomeno
politico-culturale (in realtà parapolitico e per certi aspetti paraculturale) della
N.D., ma anche per indicarne una volta per tutte gli errori “ideologici” che –
sia chiaro, dal nostro punto di vista - rappresentano uno sviamento dalla
metapolitica e un tradimento del vero e autentico agire metapolitico.
A.L.F.
di Primo Siena
1.
“Il gramscismo di destra” come strategia politico-culturale
Il concetto
di metapolitica ha iniziato a
diffondersi ampiamente soprattutto nell’ambito della cultura europea, durante la
seconda metà del XX Secolo
(all’incirca negli anni settanta),
per merito del circolo ideologico francese denominato "Grece"
(Groupement de Recherche
et d'Étude pour
la Civilisation Européenne),
organizzazione culturale che si presentava come una scuola di pensiero ispirata a una prospettiva metapolitica, meglio nota come “Nuova
Destra“ (“nouvelle droite”). L’intellettuale più importante del
gruppo è stato ed è l’illustre
saggista e politologo Alain
de Benoist che
già nel 1968 aveva affermato:
“Abbiamo sempre situato la nostra azione
sul piano metapolitico o transpolitico,
culturale e teorico allo stesso tempo; e
questa è una vocazione alla quale non sapremmo rinunciare” (1).
Fin dalla sua nascita (seminario
nazionale di Lione, 11/12 novembre 1968) il Grece
aveva posto la domanda: che cos’è la metapolitica?
Alain de Benoist stesso risponde descrivendo una strategia culturale che
definisce “gramscismo di destra”. In “Vu
de Droite” (Copernic, Parigi 1977,
edizione italiana Akropolis, Napoli 1981), il saggista francese riconosce nel comunista italiano Antonio Gramsci un “teorico dell’egemonia
culturale” il quale aveva postulato la necessità di impadronirsi
dei mezzi culturali e d’informazione
come presupposto per la successiva conquista del potere politico: “Gramsci ha dimostrato che la conquista del potere politico passa attraverso la
conquista del potere culturale” (2).
Pertanto De Benoist
propone di denunciare la strategia
culturale gramsciana come una
forma di “terrorismo intellettuale”
della sinistra marxista europea, e consiglia di agire successivamente
in modo da realizzare un contro-potere culturale (ideologico,
simbolico, persino linguistico)
capace di opporsi vittoriosamente, sul suo stesso
terreno, a quella sinistra identificata come il "nemico ideologico".
Tutto ciò stava a
indicare la necessità di considerare il ruolo assiale delle idee nel divenire
della storia come aspetto prevalente rispetto all’economia, situandosi così in
una prospettiva opposta sia al marxismo che al liberalismo (entrambi imbevuti
di un economicismo radicale determinante nel sistema socio-politico delle
nazioni), al fine di condizionare totalmente la volontà e l’azione umane.
Da questa
prospettiva, la “nouvelle droite” non entra concretamente nell’arena politica e
non prende posizione in alcun senso poiché considera che i partiti politici
siano stati superati dai mezzi di comunicazione di poteri concreti piuttosto
occulti, i quali stanno trasformando il mondo in un campo di battaglie
ideologiche; dunque è qui che bisogna intraprendere la battaglia delle idee per
mezzo di un nuovo atteggiamento intellettuale.
La stessa
denominazione “Nuova Destra” risultava discutibile fin da principio, nel senso
che venne scelta perché non si adattava alle forme di pensiero della sinistra
ed era anche lontana dai postulati abituali della destra storica
(tradizionalisti, liberali o conservatori).
Ma dopo l’implosione e il conseguente crollo del
comunismo sovietico e la caduta del muro di Berlino, l’anticomunismo della
“Nouvelle Droite” degli anni settanta venne riformulato.
Come giustamente ha
fatto notare l’intellettuale croato Tomislav Sunić nel discutere le fondamenta del “pensiero politicamente corretto”
della cultura occidentale (3), la decadenza politica già denunciata a suo tempo
da Carl Schmitt e la crisi finanziaria del 2008, aprono ulteriori spazi di
opportunità alla Nuova Destra (ND) europea: il ruolo dello Stato è ormai
considerato dal “politicamente corretto” come qualcosa di obsoleto; il
liberalismo economico e il liberalismo politico, propugnati dagli intellettuali
“che passarono da Mao al Rotary Club”, dimostrano adesso tutta la propria
incapacità di articolare una visione ideologica atta ad affrontare i problemi
culturali e sociopolitici dei tempi nuovi.
Il marxismo è
tutt’ora stigmatizzato dalla ND, non tanto nel suo senso
materialista-economicista, ma come “estrema espressione dell’egalitarismo”. La
critica alla modernità è focalizzata, senza ansia di restaurazione, verso
quella “metafisica della soggettività” che riassume in sé le categorie
dell’“individualismo-universalismo” nonché del “nazionalismo” o
dell’“etnocentrismo”; aspetti di un centralismo rifiutato in favore di un
federalismo integrale basato sulla sussidiarietà e sulle autonomie locali, nel
quale possano trovare spazio differenze ed identità collettive che riescano ad
esprimersi attraverso una democrazia partecipativa.
Nel manifesto de La nuova destra dell’anno 2000, redatto
con Charles Charpentier, Alain de Benoist definisce con maggiore precisione la
sua concezione metapolitica in termini che differiscono da quelli della posizione più esplicita del
“gramscismo di destra” degli anni settanta:
“La metapolitica non è un altro modo di fare
politica. Non è affatto una strategia che cerca di imporre un’egemonia
intellettuale; non pretende nemmeno di squalificare altre posizioni o altri
atteggiamenti possibili. Semplicemente la metapolitica riposa sulla
costatazione che le idee giocano un ruolo fondamentale nella coscienza
collettiva e, in forma più generale, in tutta la storia umana. Eraclito,
Aristotele, Agostino, Tommaso d’Aquino, René Descartes, Immanuel Kant, Adam
Smith o Karl Marx provocarono importanti rivolgimenti nel loro tempo e con le
loro opere, i cui effetti si sentono ancora oggi”.
L’amico argentino
Alberto Buela, acuto ed originale cultore della metapolitica, riconosce in
questa affermazione di Alain de Benoist una funzionalità mai raggiunta prima;
vale a dire: “la funzione di esplicitare ciò che è implicito nelle grandi categorie che
condizionano l’azione politica e il pensiero”(4). Ma allo stesso tempo
Buela imputa a de Benoist– sia pure amichevolmente - che “il suo grande limite è stato quello di fare
metapolitica senza politica, quando invece la conseguenza naturale di questa
disciplina è quella di arrivare all’azione politica”.
Sia l’affermazione
di Alain de Benoist secondo la quale “la
metapolitica non è un altro modo di fare
politica” che la considerazione di Alberto Buela (a mio modesto parere un
po’ contraddittoria), secondo la quale questa posizione costituirebbe un grande
limite della metapolitica formulata dal pensatore francese, suggeriscono una
riflessione critica sul vocabolo politica;
vocabolo al quale la semantica classica conferisce il significato di arte di governare (secondo il greco
classico: politiké associato a tekné). Si tratta di un’arte sostenuta,
nel suo senso più nobile ed autentico, da principi e valori profondi e non da
semplici opinioni soggette all’impero delle maggioranze, classificate da Gian
Giacomo Rousseau come l’espressione di una volontà generale che gode inoltre
del privilegio dell’infallibilità.
Nei tempi moderni, il
tema della politica viene considerato
normalmente sotto tre aspetti:
a)
Scienza politica o politologia, che studia in
senso ampio i fatti politici, includendo le aspirazioni, i fini e i progetti
dell’azione politica;
b)
Filosofia politica, che studia i concetti usati dalla
scienza politica nel suo carattere sostantivo e nelle sue valutazioni espresse
come dottrina politica o ideologie politiche, da quando Destutt
de Tracy (1754-1836) coniò il termine “ideologia” per rimpiazzare la parola “metafisica”
(1976);
c)
Azione politica, che si rapporta con forme, strutture e attività dei
governi, dei partiti e delle istituzioni sociali in generale.
Secondo questi tre
aspetti non si può escludere l’azione culturale di Alain de Benoist e dei suoi continuatori
dalla categoria della politica, pur se tale azione si svolge lontana da qualunque attività di partito o dalle
organizzazioni partitiche, essendo innegabile l’influenza del suo pensiero
sull’attuale cultura politica ed i suoi riflessi indiretti sulla stessa azione
politica.
Quando questo modo di pensare presenta un modello di “società comunitaria” alternativa
all’individualismo, quando critica con forza radicale la categoria del
“mondialismo” come ordine guidato dal modello americano, quando imposta una
concezione alternativa della democrazia e dello Stato moderno e propone un
quadro di difesa delle identità etnico culturali dei paesi in contrapposizione
all’uniformità di un progetto planetario del pensiero unico, non v’è dubbio,
secondo la mia opinione, che Alain de Benoist espone problematiche (per altro,
condivisibili) che influiscono concretamente sulla filosofia politica, sulla
politologia e sull’azione politica.
L’ideologo francese non coltiva, quindi, un’archeologia ideologica; i suoi
interessi e le sue preoccupazioni intellettuali si rivolgono ai problemi e alle
sfide che ci propone una post-modernità ancora inquieta e confusa, avvolta nei
tentacoli di un capitalismo planetario apolide che eleva al cubo l’utilitarismo
individualista infrangendo il senso comunitario e unitario in pro di un
pensiero unico totalitario.
2. Limiti e contraddizioni del
neopaganesimo di Alain de Benoist
Ma c’è un aspetto importante nel pensiero di Alain de Benoist che suscita
uno sguardo critico nonché profonde riserve e ricusazioni.
Si tratta della questione religiosa risolta – come osserva con chiarezza
José Javier Esparza (5) - “con una critica acerba del cristianesimo e con la
rivendicazione di un paganesimo di nuovo conio”.
Anche se inizialmente molti collaboratori della rivista “Nouvelle École”
erano cristiani, la “deriva pagana” del pensiero della ND, in special modo per
quanto riguarda la posizione dottrinale di Alain de Benoist, è diventata
“canonica” attraverso la ricerca dell’origine intellettuale dell’egalitarismo,
dell’individualismo e dell’universalismo.
Egli attribuisce al cristianesimo tre colpe essenziali: a) l’egalitarismo, perché proclama tutti gli
uomini uguali davanti a Dio creatore e assegna un’anima uguale ad ogni uomo; b) l’individualismo,
perché il cristianesimo predica che l’uomo possiede un’anima individuale per
cui la sua salvezza si situa su un piano esclusivamente personale tra la
creatura umana e Dio creatore; c) infine, l’universalismo,
perché – come predicava San Paolo - dopo la Rivelazione di Cristo Gesù “non c'è più né giudeo, né greco,
né scita, né barbaro, né uomo, né donna. Tutti siamo una sola cosa in Cristo”.
Queste caratteristiche essenziali del cristianesimo si troverebbero
all’origine del mondo moderno, delle sue debolezze e dei suoi errori, facendosi
quindi seme della sovversione che affligge la contemporaneità e di fronte alla
quale si rende necessaria una “ribellione pagana” capace di provocare una
rottura simultanea con le ideologie moderne considerate prolungamenti del
messaggio evangelico e di proporre al loro posto un neopaganesimo politeista.
I punti di partenza di questa posizione anticristiana di Alain de Benoist
sono, tra gli altri, il pensiero del filosofo positivista Luis Rougier (che si
rifà al documento del romano Celso contro i cristiani della fine del II Secolo
d.C.), e il tormentato ultimo Nietzsche che formula una critica radicale del
nostro mondo moderno, ma rimanendone
all’interno.
Il neopaganesimo di Alain de Benoist viene esposto
in successive formulazioni, la più brillante delle quali è raccolta nel libro L’eclissi del sacro: dialogo tra lui e
il pensatore cattolico ungherese Thomas Molnar (già collaboratore della ND
negli anni della sua fondazione).
La scelta del neopaganesimo si propone la riabilitazione di una mentalità
precristiana essenzialmente diversificatrice, pluralista, che si distingue per
il suo senso gioviale dell’esistenza, la libertà dei costumi e il pluralismo
intellettuale, interpretata da una moltitudine di dèi che, a loro volta,
indicherebbero una pluralità sociale e umana come opzione di vita; il tutto in
opposizione a una cosmo-visione cristiana ipoteticamente rinchiusa in una
mentalità ristretta, monista, omogeneizzatrice, dominata totalmente da un Dio
unico.
Questa deriva pagana contiene aspetti contraddittori meritevoli di alcune
osservazioni. La prima concerne il fatto che essendo il cristianesimo portatore
nel mondo dell’idea di uguaglianza degli esseri umani davanti a Dio, costituirebbe la radice dell’attuale
egalitarismo, la cui conseguenza sarebbe il democratismo burocratico, lo
statalismo e la soppressione di ogni responsabilità individuale.
Ma esiste un abisso evidente tra l’uguaglianza degli uomini davanti a Dio e
l’egalitarismo moderno: la prima è essenzialmente spirituale e trascendente,
mentre il secondo, sordo ad ogni istanza spirituale, è totalmente immanente.
Al riguardo, l’eminente e acuto filosofo italiano Sergio Sarti (1920-2004),
commenta: “Se volessimo cercare nell’antichità un precedente dell’egalitarismo
attuale, potremmo trovarlo nello stoicismo che emerse e si affermò durante il
tardo paganesimo per cui poté essere incorporato senza problemi; e quando il
cristianesimo riuscì a realizzarsi in forme politiche concrete, non creò una
società egalitaria, ma piuttosto si organizzò come società fortemente
differenziata e gerarchizzata” (6).
Inoltre – segnala opportunamente il filosofo italiano - mentre l’antico
paganesimo si estingueva per esaurimento interno, il cristianesimo ne assorbiva
gli elementi vitali.
Non si può dimenticare che se il cristianesimo ha distrutto meraviglie
pagane, le ha sostituite con meraviglie cristiane; che se ha seminato lutti
intensi ha suscitato anche profonde consolazioni alternando tempi di
intolleranza con la pratica del perdono.
José Javier Esparza considera che la questione dell’egalitarismo risulta
cruciale nel pensiero di Alain de Benoist perché parte da un errore iniziale,
ovvero deduce dalla critica generale del giudeo-cristianesimo (considerato la
“matrice di ogni pensiero egalitario”) un’identificazione tra uguaglianza
metafisica ed egalitarismo politico; operazione arbitraria, poiché il
cristianesimo predica l’esistenza di un’anima uguale per ogni uomo, ma rileva altresì
una differenza altrettanto
importante quando sostiene che gli
esseri umani possono salvarsi o meno in base al proprio comportamento etico
nella vita.
Alain de Benoist ricorre al “panteon pagano” per riattualizzare “il modo di
pensare lo spirituale in rapporto al sociale”, riconfermando così la sua fedeltà alla tradizione europea, come osserva
ancora Esparza, che subito dopo si chiede: “Perché il pantheon
pagano dovrebbe essere più tradizionale del santorale cristiano? Perché è
autoctono, senza contaminazione di elementi extraeuropei? Forse che San
Giorgio, San Benito e San Bernardo, le processioni della Madonna o lo spirito
della Crociata o i mistici tedeschi o spagnoli non sono esclusivamente
europei?”(7).
Cercare di separare l’identità dell’Europa dal cristianesimo è un altro
errore nel quale incorre de Benoist. Come ci hanno insegnato Joseph de Maistre
e Novalis, è impossibile separare due concezioni affini come il cristianesimo e
l’Europa.
L’Europa non sarebbe esistita senza il cristianesimo del sacro Impero
romano-germanico del Medio Evo; e non si può scegliere o l’una o l’altro poiché
entrambi formano una sintesi tra l’immanente e il trascendente. Fuori dal
cristianesimo – osservava Vintila Horia - l’Europa si troverebbe spinta nella selva oscura che impediva a Dante
l’accesso all’aldilà, ovvero alla conoscenza ultima. Fu necessario l’intervento
del sapiente precristiano Virgilio affinché il poeta cristiano potesse
avvicinarsi al regno del Paradiso dove poi, guidato da Beatrice, rimase
abbagliato dalla luce del mistero trinitario; mistero di un Dio che si
manifesta in tre persone uguali e distinte contraddicendo il carattere di
monismo assoluto che de Benoist attribuisce al cristianesimo.
Il paganesimo viene così rivestito dell’essenza spirituale della novità
cristiana, alla quale appartengono le tre correnti del cristianesimo, presenti
e attive in Europa: cattolici, ortodossi, evangelici. Persino alcuni Padri
della Chiesa dimostrarono la massima comprensione per culti ed elementi
simbolici delle civiltà precristiane.
L’osservazione puntuale di Vintila Horia è rafforzata a sua volta da Esparza: “Nella storia dell’Europa precristiana troviamo esempi di pluralismo
intellettuale e di chiusure fanatiche, di buona politica e di corruzione
generalizzata, di allegria vitale e di oscuro terrore superstizioso, di libertà
di abitudini e di austerità morale. E allo stesso modo, nella storia
dell’Europa cristiana, non mancano (anzi, abbondano), gli esempi di
rilassatezza morale, di giovialità esistenziale, di pensiero audace, di
istituzioni politiche sane; soprattutto se facciamo le dovute differenze tra il
colorato universo cattolico mediterraneo e il tenebroso mondo protestante, per
esempio, anglosassone”.
Inoltre, la tesi politeista di Alain de Benoist richiama l’oscuro ricordo
di quel paganesimo al quale cercò di tornare il nazismo tedesco: una
superstizione assurda che aveva la pretesa di attualizzare una visione
religiosa esaurita, consistente nella divinizzazione dei fenomeni naturali e di
una razza umana da restituire alla purezza delle sue origini ariane, elevandola
alla categoria di idolo.
I difensori del neopaganesimo benoistiano obiettano ai loro contraddittori
che non si tratta di resuscitare gli antichi dèi, non avendo la deriva
neopagana una funzione teologica, ma simbolica ed estetica; spiegazione un
tantino arbitraria e poco convincente.
Come insegna padre Dante, il senso religioso non si può limitare ad una
cosmo-visione culturale ed estetica, bensì deve manifestarsi come
partecipazione piena del sacro che si eleva a mistero divino.
3. La metapolitica orizzontale
di Alain de Benoist versus la metapolitica verticale
La cosmovisione benoistiana ha aperto indubbiamente nuovi orizzonti con le
sue proposte critiche nei confronti della modernità, specialmente rispetto
all’occidentalismo americano-centrico. In questo modo, con un’operazione
intellettuale senza troppi riguardi, egli – come ebbe ad osservare Marcello
Veneziani – ha messo in difficoltà le vecchie destre che vacillavano tra
l’apocalissi e l’adattamento, ovvero, tra l’ipercriticismo e l’acrasia
pragmatica. Il salto di Alain de Benoist è stato notevole, ma – aggiunge
Veneziani - l’atterraggio è stato sicuramente barcollante (8).
Questo barcollamento si avverte quando la postulazione dei valori del sacro
si alterna con concezioni nichiliste di sapore nominalista, quando si nega
l’esistenza dell’uomo naturale in pro della formazione di un uomo nuovo,
insinuando in questo modo la tesi totalitaria di un self-made man tutto da inventare. Si scorge nel pensiero di Alain
de Benoist un faustismo dal quale dissentiamo tutti noi che consideriamo la
metapolitica in senso diverso, specialmente quando da questo faustismo affiora
uno scientismo applicato all’evoluzionismo e all’hybris tecnologica.
Cercheremo di spiegare alcune differenze rispetto al pensatore francese a
cominciare dalla sua opzione iniziale di un “gramscismo di destra”, definizione
che consideriamo impropria. Sorvolando sul criterio metodologico di Gramsci –
che mira a dominare la società civile partendo dal controllo del potere
culturale per conseguire il potere politico - non bisogna dimenticare che il
gramscismo è un’attualizzazione del pensiero materialista nella sua versione
illuminista: “un Illuminismo di massa” realizzato dalle élites che si
propongono la riforma intellettuale e morale della società in senso
laicista-progressista.
E’ nell’ambito di quel “gramscismo di destra” che la “metapolitica”
benoistiana si contrae nei limiti di una mimesi linguistica risolvendosi in un
mero momento di contropotere opposto alla cultura dominante; vale a dire, in
un’azione culturale che precede la politica per assoggettarla a nuovi valori e
a nuovi parametri al fine di conquistare successivamente il potere politico.
Questi limiti – a mio giudizio - permangono nella visione ideologica
benoistiana malgrado il superamento del suo gramscismo iniziale.
Un altro motivo di disaccordo con la metapolitica di Alain de Benoist è il
suo carattere nominalista. Secondo lui non esiste una natura in sé, poiché
l’uomo crea i propri valori, i propri dèi e le essenze universali della vita;
da qui una concezione filosofica nutrita di immanentismo vitalista, di
soggettivismo eroico e di relativismo che risale ad alcune radici anti
metafisiche della filosofia europea che da Occam arriva fino ai giorni nostri.
Leggendo Nietzsche in chiave di soggettivismo eroico, Alain de Benoist si
avvicina a Stirner e arriva a Marx passando per Feuerbach e per l’idealismo
tedesco perché - come ha osservato opportunamente sempre Marcello Veneziani -
l’idea che l’Essere sia solo il nome di una proiezione del soggetto è una
caratteristica dell’umanesimo del giovane Marx estrapolata da Feuerbach, così
che il niccianesimo benoistiano risulterebbe essere la versione aristocratica
del suo immanentismo antropocentrico versus
la versione plebea ed egalitaria di Carl Marx (9).
Quando il “maitre a penser” delle Gallie sostiene che la finalità
dell’essere umano consiste nel costruirsi in conformità con l’idea che si è
fatto di sé, aderisce implicitamente alla concezione secondo la quale l’uomo
crea se stesso come vuole il modello borghese e capitalista del self-made men al quale invece il
pensatore francese cerca di opporsi.
Ma la discrepanza più grande in Alain de Benoist è la sua fuoriuscita
dall’ambito della metafisica, il che gli impedisce di cogliere l’essenza
specifica, religiosa e metafisica di una Metapolitica superiore. Quando la
concezione del sacro dipende unicamente dalla volontà umana, diventa un mero
convenzionalismo che degrada la dignità del Numen
(del Divino) alla meschinità del nomen.
Di conseguenza la metapolitica benoistiana cerca di andare aldilà della
politica, ma non in senso superiore bensì rimanendo a un livello orizzontale
precisamente perché manca di una dimensione metafisica.
L’autentico senso semantico del vocabolo metà-politika (ovvero, aldilà
della politica) consente di stabilire un ineludibile collegamento tra
“metapolitica” e “metafisica della politica”, quando la politica stessa viene
considerata come scienza non esclusivamente teorica, ma piuttosto come una
concezione del bene comune che si realizza concretamente laddove il
metapolitico agisce, come ha sostenuto a suo tempo il pensatore hindo-spagnolo
Raimon Panikkar: “Dal livello evolutivo
del metapolitico, la politica attuale, arte o scienza della gestione, si
trasforma in un vivere la pienezza di ciascun essere umano”. In questo
senso, asseriva Panikkar, lo studio della natura quale fondamento dell’azione
politica, non deve più passare attraverso il filtro della ragione razionalista,
ma piuttosto deve elevarsi a un più alto livello di coscienza, fino ad arrivare
a scorgere la realtà in una nuova prospettiva. La politica, insisteva ancora
Panikkar, risiede nel mito, vale a dire, in un concetto che ci induce a cambiare la visione del mondo imposta dal
moderno scientismo riduzionista, altrimenti non potremo mai superare la crisi
che attualmente ci avvolge. Panikkar concludeva dicendo che la metapolitica
riunisce due mondi precedentemente incomunicanti, il religioso e il politico,
dove l’azione etica dell’uomo è sostenuta da principi spirituali trascendenti
(10).
Il principio della trascendenza risulta, inoltre, implicito nella politica
concepita come un ramo etico della convivenza umana organizzata nel suo senso
sociologico e giuridico, che raggiunge infine la metafisica, come insegnava il
mio illustre maestro Marino Gentile nell’antica Università di Padova (11).
Svolgendo un corso accademico su “Il filosofo di fronte allo Stato” (1960),
Marino Gentile affermava: “Una filigrana
naturale collega l’uomo allo Stato perché non esiste ordine giuridico senza
morale come non c’è ordine fisico senza metafisica”. Formato alla scuola
patavina di Marino Gentile, mi risulta naturale considerare metafisica e
metapolitica come sorelle gemelle, essendo la metafisica una “metafisica
applicata” il cui proposito non è sostituire o indebolire la politica, bensì
consolidarla e rafforzarla per mezzo di una operatio
aesthetica, ovvero, per mezzo di un’azione nobile sostenuta da valori
concreti (recte agere) e ispirata da
principi spirituali profondi (recte scire).
Secondo questa prospettiva, nell’azione politica interviene una delicata
mediazione tra i principi etici e le situazioni concrete della vita sociale
ordinate alle esigenze dell’uomo, al fine di trovare nei codici etici un senso
ultimo della vita delle persone e delle comunità. Ma l’etica non appartiene al
dominio della fisica (ovvero, della materialità), mentre la politica presenta
un fondamento antropologico collegato all’éthos,
il quale a sua volta riprende l’essenza dell’essere umano nella sua alta e
profonda dignità di creatura.
Una metapolitica così concepita risulta non già una scienza profana e
antimetafisica, ma piuttosto una scienza sacra capace di abbordare – secondo la
lezione magistrale di Gian Battista Vico - il mistero escatologico della storia
“ideale ed eterna”, che guida gli uomini e le nazione nel corso del tempo. E
qui risiede il fondamento metafisico di ogni dottrina sociale, posto che
ciascun rapporto tra l’uomo e la comunità che egli integra risulta possibile
solo quando è percepito e sostenuto dal rapporto tra l’essere umano in quanto
creatura e Dio suo Creatore. In questo duplice rapporto consiste uno dei tratti
della metapolitica: estrapolare la
storia cosmica dalla storia umana cercando l’immutabile nei diversi piani della
fenomenologia.
Allora la metapolitica, mediante la ricerca fenomenologica, cerca di
scrutare nei cicli storici per cogliere in essi l’intervento divino negli
accadimenti umani, come c’insegna sempre Gian Battista Vico, il quale con la
sua “Scienza Nuova” ha dimostrato
l’esistenza di uno stretto rapporto tra religione e civiltà.
In questo senso, la metapolitica non può ignorare, nella dimensione
escatologica dell’essere umano, la presenza di una escatologia civile rappresentata simbolicamente dal fuoco profano (che distrugge la ingens sylva primordiale per dare spazio
alla civilizzazione della terra), collocato al lato del fuoco sacro che arde sull’altare come simbolo divino, per
proteggere la civiltà e la cultura.
Si tratta di una concezione interpretata secondo l’approfondimento
sistematico di Silvano Panunzio (12), la cui caratteristica consiste nella
radicale contrapposizione tra la metapolitica
e la criptopolitica, essendo la prima
concepita come una scienza sintetica che in sé riassume la metafisica (scienza dei principi
primi), la politica (scienza dei mezzi) e l’escatologia (scienza dei fini
ultimi).
In contrapposizione alla prima, la criptopolitica
è l’espressione di poteri occulti,
oscuri e nefasti che, con la maschera della politica, stanno occupando
progressivamente gli spazi che erano appartenuti alla politica nobile del “Buon
Governo”, plasticamente affrescata dal pittore medievale Ambrogio Lorenzetti
sui muri del Palazzo Comunale di Siena, secondo una visione teocentrica della
civiltà sostenuta da Giustizia e Concordia, qualità che forniscono alla società
umana la felicità della vita e la serenità del lavoro.
L’espansione ogni giorno più imbarazzante della criptopolitica esige
pertanto l’azione decisa della metapolitica allo scopo di riposizionare
l’autentica politica sloggiata surrettiziamente dal suo naturale contesto dalla
cinica modernità che ci opprime.
Ciò comporta principalmente, la ricerca di una concezione organica del
Potere e dello Stato che, stante la divisione illuminista dei tre poteri
(legislativo, giudiziario ed esecutivo), suscitata dalla mentalità
individualista di Locke e Montesquieu, le contrapponga una concezione unica del
Potere mediante la coordinazione delle sue diverse espressioni e funzioni;
coordinazione che secondo la lezione della giurisprudenza romana ex facto oritur ius, associa alle tre
funzioni classiche (legislativa, esecutiva, giudiziaria), una quarta: la
funzione corporativa, raccolta nei
corpi sociali intermedi che assicurano la presenza attiva della sovranità civile accanto alla sovranità politica.
In quest’ottica, la metapolitica sviluppa una dialettica feconda tra la
graduazione dei valori etici e le istanze pratiche della politica, orientandosi
verso una soluzione positiva del problema della vita (veritas salutaris) ispirata da una metapolitica verticale che mira
alle mete più alte.
Per questo, mentre i metafisici si occupano di “conoscere”, Silvano
Panunzio incita i metapolitici, cultori della metafisica applicata, ad agire.
Così, la politica spesso degradata esclusivamente alla ricerca di vantaggi
materiali oppure ossessionata dal dominio cinicamente perseguito, potrà
recuperare la nobiltà del suo valore essendo restituita alla sua autentica
missione pro ari et focis: suscitare
nuovamente nell’inquieta società del terzo millennio la libera riunione di
uomini liberi secondo la tradizione romano-cristiana, dove affiora un progetto
di civilizzazione che permetta all’umanità post moderna del ventunesimo secolo
di intraprendere il cammino della conciliazione personale e dell’armonia
sociale. Vale a dire, di procedere nella dantesca diritta via che conduce verso un modello sapiente della politica
capace di elevare l’arte del buon governo della Civitas Hominum alle vette luminose della metapolitica ispirata ai
principi trascendenti del Regnum Dei.
Note
(1)
A. de Benoist,
Orientacions pour des années décisives.
La Labyrinthe, Paris 1982, p. 12.
Secondo una
diligente ricerca storico-filologica del filosofo spagnolo Gustavo Bueno
Martínez, il vocabolo “metapolitica” risale indietro nel tempo fino al 1600,
essendo usato dal monaco cistercense madrilegno Juan Caramuel, definito il
“Leibnitz spagnolo”, che fu vescovo di Vigevano, città del nord Italia
(1606-1682).
(2) A. de Benoist, op. cit. p. 11.
(3) Tomislav Sunić, Contra la
Democracia y la Igualdad. La Nueva
Derecha Europea, ed. Fides, Tarragona 2014.
Quest’opera è la
versione castigliana dell’originale inglese scritto originariamente come tesi
di dottorato nel 1988. Tomislav Sunić (Zagabria, 1953) è
Dottore in Scienze Politiche presso l’Università della California Santa
Bárbara. Autore di diversi libri tra i quali: Homo americanus (ed. castigliana 2008) e Croniques Des
Temps Postmodernes (ed. francese, marzo 2014). Saggista e conferenziere vivace, è
un’originale interprete della nuova destra europea.
(4) A. Buela, Metapolítica y Disenso en
Alain de Benoist (breve
saggio ancora inedito, dicembre 2014).
(5) J.J.
Esparza, La Cuestión religiosa y la “Nueva Derecha” in: www.josejavieresparza.es, 14 luglio 2014.
(6) S. Sarti, L’uomo assiale. Ed. Japadre, Roma 1986, p. 253-254.
(7)
J.J. Esparza, op. cit., p. 7. Le citazioni seguenti di J. Javier Esparza sono estrapolate
dallo stesso testo.
(8)
M.
Veneziani, Processo all’Occidente, Sugarco,
1990, p.178.
(9)
M. Veneziani
Op. cit., p.169-170.
(10) R.
Panikkar, El espiritu de la Política: homo
politicus.
Península ed., Barcelona 1999.
(11) Marino Gentile
(1906-1991), fondatore della “scuola patavina di filosofia”, impegnata ad attualizzare la
filosofia aristotelica e a riscattare la metafisica classica.
(12) S. Panunzio, Metapolitica. La Roma Eterna e la Nuova
Gerusalemme. II volumi, ed. Babuino, Roma 1979, p. 918. Dello stesso autore
anche: “La conservazione rivoluzionaria
(dal dramma politico del Novecento alla svolta metapolitica del Duemila)”,
ed. Il Cinabro, Catania 1996, p. 198.
Bisogna essere grati a Primo Siena di questa messa a punto chiara, rigorosamente argomentata e, come sempre, poggiante su solidi fondamenti dottrinali. La destra moderna, non solo la Nouvelle Droite, non riesce a liberarsi della sua contraddizione di fondo: la riproposizione di alcuni principi conformi all'ordine naturale e il legame tenace con le radici ideologiche immanentistiche, vitalistiche e volontaristiche del Novecento. L'idea di un'Europa tradizionale non cristiana è un contraddizione in termini: l'Europa è nata con la civiltà della Christianitas medievale, che ha salvato e rivitalizzato, nella nuova sintesi cristiana, gli elementi universalmente validi della civiltà greco-romana. La destra moderna, se non ricondotta a fondamenti autenticamente “tradizionali”, solo apparentemente darà l'impressione d'essere alternativa al pensiero unico dominante, mentre si presta ad essere solo un polo di una dialettica criptopolitica, funzionale alle forze dissolutive che oggi stanno prevalendo. Ma la posizione della Nuova Destra non è solo errata, è anche insensata, perché il trionfo di questa civiltà di morte costruita sulla sabbia non potrà durare indefinitamente.
RispondiEliminaCaro Giuseppe, grazie del commento che validamente integra l'assunto di Primo Siena. Dici bene: errata e insensata.
RispondiEliminaSon grato anch'io a Giuseppe Maddalena per il suo acuto e puntuale commento. La cosiddetta "destra" moderna ha un vizio d'origine radicato nella cultura iluminista. La nostra metapolitica per essere verticale si eleva altresì dalla destra classica e la trascende.
RispondiEliminaPrimo Siena