Dopo la chiamata alle armi contro lo Stato
islamico e la conseguente definizione di «guerriero crociato» riferita
al nostro ministro degli Affari Esteri (e della cooperazione), e conseguentemente
di nazione nemica riferita all’Italia, gli analisti nazionali portavoce
degli interessi superiori dell’economia si sono scatenati in una ridda di
articoli che tendono a riconfigurare le priorità della politica
estera europea, e nazionale, nei termini di una rinnovata «guerra globale
contro il terrorismo».
L’idea di fondo, comune alla grande stampa
mainstream, è quella che l’Europa deve «ripensare la guerra»; dopo più
di settanta anni di pace, infatti, questa prosecuzione della politica con
altri mezzi, come diceva Clausewitz, si presenta oramai come una alternativa
concreta alle inconsistenti manovre diplomatiche finalizzate
a circoscrivere le varie crisi in atto, in particolare quelle inerenti
il fondamentalismo islamico. E allora sarebbe utile, per questi
apprendisti stregoni, ricordare loro le riflessioni di Carl Schmitt contenute
nel suo Nomos della terra, un testo fondamentale per chi voglia capire,
dalla parte di un pensiero conservatore, se non francamente reazionario,
e dunque in linea con quello attuale e prevalente, l’evoluzione,
o meglio l’involuzione, di questo strumento geopolitico.
La riflessione si apre con il 2 aprile
1917, l’entrata in degli Usa nella Prima Guerra Mondiale. Sono le motivazioni
«umanitarie» quelle che colpiscono di più l’autore tedesco; infatti, Wilson
impegna gli Stati uniti contro «la guerra navale tedesca, condotta contro
tutte le nazioni del mondo, ovvero contro l’umanità». Questa è la motivazione
morale che spinge il Presidente americano ad impegnare la sua nazione per
«garantire attivamente la libertà dei popoli e la pace mondiale».
A partire da questa analisi, dove sono già
contenuti tutti gli elementi portanti della fase geopolitica che stiamo
vivendo – denuncia di una guerra di una parte contro tutta l’umanità, il relativo
giudizio morale, la volontà di portare libertà e pace a tutti
i popoli della terra — la Germania veniva dichiarata hostis generis
humani – espressione sino ad allora normalmente usata per la criminalità
organizzata internazionale come la pirateria – e dunque considerata
un nemico nei confronti del quale «la neutralità non è né moralmente
legittima né praticabile». Oltretutto, con quelle motivazioni, gli Stati
uniti si erano attribuito il potere di decidere su scala internazionale
quale parte belligerante avesse ragione e quale torto.
La conclusione di Schmitt è che la
Prima Guerra mondiale, dopo l’entrata in gioco degli Usa sulla base di queste
motivazioni, aveva cessato di essere una classica guerra interstatale,
e si era trasformata in una «guerra civile mondiale» (Weltbürgerkrieg),
secondo un modello destinato ad affermarsi e a coinvolgere l’intera
umanità. Le riflessioni di Schmitt si compongono in una finale, abissale,
profezia: l’avvento di una «guerra totale asimmetrica e di annientamento»,
condotta da grandi potenze dotate di mezzi di distruzione di massa, in primis
dalle potenze capitalistiche e liberali anglosassoni.
Queste riflessioni delineano già la realtà
odierna che è proprio quella della guerra negata dal punto di vista giuridico,
se non come forma di polizia internazionale in capo alle Nazioni Unite,
e della sua simmetrica trasformazione e «globalizzazione» in
forme irriducibili a qualunque definizione coerente.
Venendo più in specifico alle «guerre umanitarie»:
«Wer Menschheit sagt, will betrügen»: chi dice umanità cerca di ingannarti.
Questa è la massima che Schmitt propone già nel 1927 in Begriff des
Politischen per esprimere la sua diffidenza nei confronti dell’idea di
uno Stato mondiale che comprenda tutta l’umanità, annulli il pluriverso
(Pluriversum) dei popoli e degli Stati e sopprima la dimensione
stessa del loro politico. E a maggior ragione Schmitt si oppone al tentativo
di una grande potenza – l’ovvio riferimento è agli Stati uniti – di presentare
le proprie guerre come guerre condotte in nome e a vantaggio
dell’intera umanità.
Se uno Stato combatte il suo nemico in nome
dell’umanità, la guerra che conduce non è necessariamente una guerra
dell’umanità. Quello Stato cerca semplicemente di impadronirsi di un concetto
universale per potersi identificare con esso a spese del nemico. Se
analizziamo con lo sguardo anticipatore di Schmitt la guerra all’Iraq,
quella all’Afghanistan dopo l’11 settembre, la conseguente dichiarazione
della «guerra permanente globale contro il terrorismo» e la classificazione
unilaterale degli Stati canaglia, vediamo come tutte queste forme della
guerra asimmetrica contemporanea, compresi gli atti di terrorismo
a fini politici, siano stati ampiamente previsti e prevedibili
sin dal secolo scorso.
In prospettiva dunque, prosegue Schmitt,
l’asimmetria del conflitto avrebbe esasperato e diffuso le ostilità:
il più forte avrebbe trattato il nemico come un criminale, mentre chi si
fosse trovato in condizioni di irrimediabile inferiorità sarebbe stato
di fatto costretto ad usare i mezzi della guerra civile, al di fuori di
ogni limitazione e di ogni regola, in una situazione di generale anarchia.
E l’anarchia della «guerra civile mondiale», se confrontata con il
nichilismo di un potere imperiale centralizzato, impegnato a dominare
il mondo con l’uso dei mezzi di distruzione di massa, avrebbe potuto alla fine
«apparire all’umanità disperata non solo come il male minore, ma anzi come il
solo rimedio efficace».
In una delle ultime pagine di Der Nomos der
Erde Schmitt scrive: «Se le armi sono in modo evidente impari, allora decade
il concetto di guerra simmetrica, nella quale i combattenti si collocano
sullo stesso piano. È infatti prerogativa della guerra simmetrica che
entrambi i contendenti abbiano una qualche possibilità di vittoria.
Se questa possibilità viene meno, l’avversario più debole diventa semplice
oggetto di coazione. Si acuisce allora in misura corrispondente l’ostilità
fra le parti in guerra. Chi si trova in stato di inferiorità sposta la
distinzione fra potere e diritto nell’ambito del bellum intestinum. Il
più forte vede invece nella propria superiorità militare una prova della
sua justa causa e tratta il nemico come un criminale.
La discriminazione del nemico e la
contemporanea assunzione a proprio favore della justa causa vanno di
pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo
sradicamento spaziale del teatro di guerra. Si spalanca così l’abisso di
una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva». La
descrizione della realtà attuale, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Siria al
Libano, sembra essere ritagliata esattamente su queste «profezie» di
Carl Schmitt che altro non dicono se non che il futuro deriva dal passato.
E dunque, se così è, dobbiamo anche pensare che il nostro presente di
«guerre umanitarie» di indefinite «missioni militari di pace» di emergenze
umanitarie che altro non sono che situazioni di mancato sviluppo deliberatamente
lasciate incancrenire al fine di farne, appunto, un casus belli umanitario,
vanno riflettute e ripensate all’interno di cornici radicalmente diverse
dalle attuali, pena la geometrica ascesa della barbarie. Eppure, forse guardando
ancora più avanti, consapevole delle sfide future e degli orrori passati
e presenti che, nell’estate del 1950, chiudendo la prefazione
a Der Nomos der Erde, Schmitt scrive: «È ai costruttori di pace che
è promesso il regno della terra. Anche l’idea di un nuovo Nomos della
Terra si dischiuderà solo a loro».
Autore: Raffaele K. Salinari
Fonte: http://ilmanifesto.info
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