16/01/08

«Perché l’uomo non è un caso»


Un filo tiene insieme, da mi­lioni di anni, la storia uma­na: l’incontestabile pro­gresso della specie. Yves Coppens, il più importante paleoantropolo­go vivente, guarda al nostro passa­to e ipotizza una terza via fra crea­zionismo e selezione cieca: «La ma­teria vivente ha mostrato subito di essere animata da un 'desiderio' di complicazione e di organizza­zione permanente, e di essere ac­compagnata da una potenza di di­versificazione meravigliosamente inventiva».
Professore, lei rifiuta la pro­spettiva del Disegno intelligen­te: che ci sia una 'mano invisi­bile' che guida l’evoluzione. Al tempo stesso, però, ipotizza che la selezione naturale nasconda qualche meccanismo che an­cora non conosciamo. Cosa ha in mente? Una 'terza via'?
«Sì, qualcosa del genere. Io ho lavorato soprattutto nel sud del­l’Etiopia, dove ho trovato Lucy, al confine tra Sudan e Kenya; tra il 1967 e il 1976 ci passavo di­versi mesi tutti gli anni. Mi so­no trovato davanti a una se­quenza stratigrafica formidabi­le, che andava da più di tre fino a un milione di anni fa. In quei ter­reni ho visto il clima umido diveni­re sempre più secco, e osservavo certi animali estinguersi: il loro si­stema di adattamento, evidente­mente, non aveva funzionato; ne vedevo altri andarsene, emigrare, e altri ancora sopraggiungere; e una buona quantità di specie che inve­ce si era adattata alle nuove condi­zioni climatiche. Tra loro, l’essere umano. Quando osservo tante spe­cie registrare una 'mutazione uti­le' esattamente nel momento in cui ne avevano bisogno, è difficile per me vedere l’opera del caso. D’altro canto, quando si parla con i genetisti, con i biologi molecola­ri, questi ti dicono: 'Ti assicuro, la mutazione è un processo assoluta­mente casuale'. Dunque, cosa bi­sogna credere? Quando i colleghi mi dicono 'Devi ascoltarci', io non posso che essere d’accordo con lo­ro. Quando sono io, però, che ho cinquant’anni di esperienza sul ter­reno, a fare delle osservazioni, al­lora anche loro dovrebbero ascol­tare me. Una possibile soluzione è che le mutazioni siano sì eventi ca­suali, ma forse ne esiste uno 'stock': si trovano immagazzinate nella cellula in modo passivo e può essere che, nel momento in cui il cambiamento climatico ha luogo e interviene la selezione naturale, en­tro la gamma di mutazioni casuali che si sono conservate venga pe­scata quella giusta. Non so ancora cosa accada davvero, ma certo quando guardo gli elefanti, i maia­li, le antilopi, i cavalli cambiare tut­ti le loro caratteristiche fisiche nel­la direzione giusta proprio al mo­mento giusto, mi dico: è possibile che siano tutti guidati solo dal ca­so? Si ha l’impressione che ci sia un trucco».
Dove vanno cercati questi 'stock' che lei ipotizza? Nel Dna?
«Forse sì. Io penso che la soluzione sia all’interno della molecola. Di più, come paleoantropologo, non posso dire. Sono i biologi che han­no in mano il metodo per valutare se si verifica o meno una cosa del genere, o per trovare altre soluzio­ni. Ma di sicuro il meccanismo del­l’evoluzione noi non lo abbiamo ancora colto. Siamo tutti d’accor­do nel dire che essa non è più una teoria, ma un dato di fatto, però non sappiamo ancora, in realtà, come proceda davvero».
Lei sostiene che l’uo­mo si è sviluppato a e­st della Rift Valley che dieci milioni di anni fa separò l’Africa in due. Senza quella una profonda mutazione dell’ambiente l’uomo non sarebbe mai com­parso. Oggi, secondo alcuni, è in atto uno stravolgimento del clima: avrà un effetto catastrofico sull’esistenza della nostra specie, o innescherà un nuovo salto evolutivo?
«Anzitutto bisogna dire che i cam­biamenti climatici sono un fatto as­solutamente normale: nella scala dello sviluppo dell’uomo sulla Ter­ra avvengono costantemente. Se non ci fossero stati, in effetti non sarebbe mai avvenuta alcuna evo­luzione, perché gli esseri viventi in un determinato ambiente si trova­no in equilibrio: è quando questo si rompe che alcuni individui ne cercano uno nuovo, adattandosi al­le mutate condizioni; in questo mo­do la specie si evolve. I primi uo­mini rappresentano la risposta in termini di adattamento a un am­biente divenuto più secco: il muta­mento di clima ha determinato u­na svolta nella storia dei primati. Poi però, divenuti coscienti, con la loro ri­flessio­ne, gli uomini hanno svilup­pato la cultura, e questa poco a poco li ha resi capaci di non subire più passivamente l’ambiente, ma di servirsene, ap­profittando di esso».
Verremo travolti dall’innalzamen­to delle acque?
«Da diemila anni i ghiacciai si stan­no fondendo e l’acqua sale: il livel­lo del Mediterraneo si è sollevato di centoventi metri. Vicino a Mar­siglia c’è un antro, chiamato la 'Grotta costiera', che oggi si trova quaranta metri sotto il livello del mare, ma le cui pareti sono dipin­te: l’acqua, in quel punto, è salita dunque parecchio. Il fatto che il cli­ma sia cambiato dal freddo inten­so a livelli più temperati ha fatto in modo che graminacee come il fru­mento, la segale e l’avena si siano sviluppate molto di più e molto me­glio; e che si sia avviata quella che chiamiamo la 'crescita fertile' nel Vicino Oriente. Grazie alla cultura, l’uomo invece di subire il cambia­mento climatico se ne è servito. Questa è stata la se­conda tappa decisiva del suo sviluppo. La terza è avvenuta solo duecento anni fa, con una rapida accelera­zione dello sviluppo demografico: attorno al 1815 sulla Terra ab­biamo raggiunto il pri­mo miliardo di indivi­dui, poi in meno di duecento anni abbiamo superato i sei miliardi. Assieme allo sviluppo delle tecnologie e della produzione di massa, ciò ha causato a sua vol­ta nuove trasformazioni nel clima, che forse sono in parte anche na­turali, ma che sicuramente sono state incrementate dall’attività u­mana. Oggi questi cambiamenti ci preoccupano, perché non siamo in grado di dominare l’evoluzione del clima. L’eccesso di produzione di gas come l’anidride carbonica e il metano, però, dovremmo essere in grado di regolarlo».
Lei ha ipotizzato un legame tra lo sviluppo dell’agricoltura e la na­scita della guerra.
All’epoca del nomadismo non ab­biamo riscontrato tracce di traumi collettivi. Invece a partire dal mo­mento in cui s’è stabilita una pro­prietà – di un campo, di un raccol­to, delle sementi, del bestiame – ci sono molte più tracce di aggressio­ni plurime. Le prime fosse comuni appaiono al momento della sco­perta dei metalli. Se non ci sono giacimenti di stagno e di rame suf­ficienti per accontentare tutti, quando se ne possiede uno biso­gna assolutamente difenderlo, per­ché i vicini non se ne impadroni­scano. Ed è a partire da quel mo­mento, circa cinque-seimila anni fa, che troviamo delle fosse comu­ni piene di resti umani. Studiando la storia più antica si capisce bene quella attuale: la questione del pe­trolio in Iraq è la stessa».
Studiando l’antichissimo passato umano, lei in realtà sta fornendo anche elementi per capire in che direzione potrà svilupparsi il futu­ro della nostra specie.
«Ciò che io constato, tre milioni di anni dopo la comparsa dell’uomo sulla faccia della Terra, è che nella sua storia c’è stato indubbiamente un progresso, che ha toccato tutti i campi. L’uomo è progredito nel ta­glio della pietra, nelle tecnologie, ma anche nei suoi comportamen­ti, che sono diventati sempre più e­laborati, raffinati, civili. Soprattut­to, c’è stato un progresso nel 'pro­getto' che l’uomo è capace di ve­dere di fronte a sé: quando, ad e­sempio, due milioni di anni fa l’Homo habilis tagliava la sua pie­tra, lo faceva per un utilizzo imme­diato; l’erectus che crea un attrezzo bifacciale, di forma simmetrica, è già un uomo più esperto, pronto a utilizzare quell’utensile maggior­mente curato anche per qualche settimana: la sua prospettiva tem­porale si allunga. Gli uomini che decoravano le grotte di Lascaux, nel sud-ovest della Francia, hanno u­sato un melange d’argilla e di san­gue di bisonte: il pittore aveva già ben in mente lo scopo di fissare le sue immagini perché potessero du­rare; viveva nella speranza che la sua opera potesse sopravvivere qualche anno, magari oltre la sua stessa vita. L’opera dell’uomo al­lunga sempre più la sua prospetti­va nel tempo. C’è un filo che tiene insieme tutte queste storie: un in­contestabile progresso. Guardan­do al passato io vedo una speranza per l’avvenire. L’uomo progredirà ancora sul piano tecnologico, ma anche sul piano del comporta­mento. Ciò è sempre avvenuto e io ho fiducia che continuerà ad avve­nire. Quindici miliardi di anni di storia ci hanno insegnato che la materia non smette di complicarsi e di organizzarsi: questo ci fa intra­vedere un destino della nostra spe­cie ancora più complesso e più or­ganizzato. Il domani dell’umanità sembra dover essere quello di una materia sovra-pensante o super­pensante. O forse sarebbe meglio dire semplicemente: della materia pensante. Il genio dell’uomo non ha ancora finito di sorprenderci».
«Le variazioni genetiche sono sì casuali, ma forse ne esiste uno 'stock' immagazzinato nella cellula: quando interviene la selezione naturale, gli organismi possono 'pescare' quella giusta» «Nel cammino dell’umanità vedo un progresso in tutti i campi: non solo le tecnologie, ma anche i comportamenti sono diventati sempre più elaborati e civili, fino alla nascita dell’idea di 'progetto'»
(Autore: Carlo Dignola; fonte: Avvenire del 15/01/2008)

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