La recente pubblicazione, per le Edizioni
Il Foglio, del volume Sociologia della politica di Gaston Bouthoul, a
cura di Carlo Gambescia e Jerónimo Molina, restituisce al pubblico italiano un
testo di eccezionale rilievo nella genealogia della scienza sociale
novecentesca. L’opera, originariamente apparsa in Francia nel 1965 e oggi
riproposta in edizione arricchita da una bibliografia ragionata e da un
apparato iconografico, consente di accostarsi a un autore che, pur rimasto
marginale nel canone accademico, occupa una posizione centrale nella storia del
pensiero politico e sociale.
Nato a Monastir (Tunisi) nel 1896 e morto a Parigi nel
1980, Bouthoul non fu un professore di carriera né un accademico di sistema, ma
un ricercatore libero, refrattario tanto ai conformismi universitari quanto
alla pretesa “neutralità assiologica” della sociologia positivista. Sociologo,
demografo e filosofo della storia, egli si colloca all’incrocio di discipline
differenti, nel punto in cui la riflessione scientifica incontra
l’interpretazione antropologica e culturale del conflitto. È noto soprattutto
come fondatore della polemologia, ossia di quella scienza che assume la
guerra non come accidente patologico della civiltà, ma come fenomeno ricorrente
e strutturale della vita collettiva. L’obiettivo è individuare le costanti
biologiche, demografiche, economiche, psicologiche e politiche che rendono il
conflitto una realtà regolare, non un’anomalia episodica, bensì una funzione
interna all’organizzazione sociale.
La curatela di Gambescia e Molina, sobria
nell’impianto ma intellettualmente densa, restituisce a Bouthoul la sua
autentica collocazione nel panorama del pensiero politico del secondo
dopoguerra. I curatori sottolineano come la sua sociologia rappresenti l’esatto
opposto del “presentismo” oggi dominante nella disciplina – quella visione che
appiattisce l’orizzonte storico in un eterno “presente” –, ricordando al tempo
stesso che Bouthoul fu stimato da Julien Freund, disprezzato da Alfred Sauvy e,
più in generale, frettolosamente liquidato dagli specialisti come un
dilettante. I curatori
osservano invece acutamente come il suo pensiero “si collochi idealmente tra i
sociologi ‘liberali’ quali Tocqueville, Spencer, Weber e Pareto” (p. 8),
delineando così una genealogia intellettuale che, pur estranea agli schemi
accademici, lo lega ai grandi analisti della società moderna.
Il volume si articola in tre grandi
sezioni - Le istituzioni, Gli uomini, Le finalità e le forme
dell’azione politica - che tracciano una vera e propria morfologia del
potere, dalle strutture e mentalità politiche, alle gerarchie biologiche,
economiche e sacrali, fino alle motivazioni profonde dell’azione collettiva. In
tale quadro, libertà e violenza non si contrappongono, ma rappresentano i due
poli dialettici di un medesimo principio antropologico, ovvero la lotta come
fondamento della vita sociale.
Poiché non è possibile affrontare qui la
complessità di tutte le questioni sollevate dal volume né citare i tanti
passaggi folgoranti alternati da citazioni di autorità famigliari alla cultura
tradizionale (da S. Agostino a Ernst Jünger passando per Lao Tse), ci si
limiterà all’esame del nucleo teorico essenziale della polemologia
bouthouliana, individuabile in due assi complementari: la guerra come fatto
sociale regolare e ricorrente e la guerra come valvola demografica.
Secondo Bouthoul, il fenomeno bellico si
ripresenta con periodicità costante nella storia dei popoli e non può essere
ricondotto né alla follia dei governanti, né a errori diplomatici o a
deviazioni morali individuali. La guerra obbedisce, piuttosto, a cause
collettive e strutturali, a tensioni di ordine biologico, economico e
demografico che, una volta superata una soglia di saturazione, si traducono in
esplosione di violenza. In tal senso, Bouthoul ipotizza un nesso diretto tra
sovrappopolazione e conflittualità. La guerra agirebbe come un meccanismo - in
gran parte inconscio - di regolazione della pressione demografica e delle
tensioni socio-economiche conseguenti e quindi apparirebbe, paradossalemnte,
come uno squilibrio necessario, come un evento tragico, ma funzionale al
ristabilimento di un equilibrio compromesso dall’eccesso di crescita.
A mio modo di vedere, il concetto di
“regolarità” formulato da Bouthoul potrebbe essere letto, in chiave
comparativa, come la trasposizione secolarizzata della nozione arcaica dei cicli
cosmici propri alle dottrine tradizionali e in particolare alle dottrine
indù. Là dove il sociologo constata la ricorrenza storica della guerra, le
cosmologie tradizionali vedono nel conflitto il segno della degenerazione di un
ciclo, l’effetto di una frattura tra l’ordine celeste e quello terreno. La
ripetitività del fenomeno, per Bouthoul, è indice di causalità sociale mentre
per la Tradizione, è sintomo escatologico, un segnale che accompagna la
dissoluzione di un’epoca.
Nella visione tradizionale, l’ultima fase
del ciclo - il Kali-Yuga in India, o il tempo dell’Anticristo nel cristianesimo
- è contrassegnata da un’intensificazione del conflitto, dalla massima
visibilità della violenza e dalla perdita della dimensione sacrale della
guerra. In modo sorprendentemente analogo, Bouthoul individua nel boom
demografico del XX secolo - da un miliardo di abitanti nel 1900 ai quattro
miliardi da lui censiti negli anni Sessanta, fino agli otto miliardi odierni -
la causa principale dei due conflitti mondiali. Si tratta, per lui, di un
effetto quantitativo, di una sorta di hybris numerica che destabilizza
il corpo sociale.
A un livello più profondo, René Guénon,
nel Regno della quantità e i segni dei tempi (1945), giunge a una
conclusione simile ma fondata su presupposti metafisici. Per il metafisico
francese, la guerra moderna - generata dalla quantificazione integrale
dell’esistenza, dalla meccanizzazione e dalla massificazione della vita -
rappresenta, in opposizione alla lettura puramente statistica di Bouthoul, la
manifestazione esteriore di una disintegrazione interiore dell’uomo moderno, di
cui egli offre la diagnosi metafisica.
Anche Silvano Panunzio svilupperà un
discorso analogo a quello di René Guénon, ma stavolta nel solco del pensiero
cristiano tradizionale. Il cattolico ferrarese in Metapolitica – La Roma
Eterna e la Nuova Gerusalemme (1976) vedrà la storia come un dramma
sacro-politico in cui la civitas dei (metapolitica), la civitas
terrena (politica) e la civitas diaboli (criptopolitica) si
fronteggiano. La guerra è da questo punto di vista una sorta di rivelatore
escatologico e ogni conflitto mondiale è una “apocalisse ridotta”, ovvero una
prefigurazione del giudizio finale in cui le potenze celesti e quelle inferiche
che guidano la storia sotto parvenze ideologiche o economiche o tecniche si
scontrano. Panunzio conserva la nozione di bellum iustum
agostiniano-tomista, ma osserva che nel mondo moderno la guerra tende a perdere
ogni riferimento a un ordine trascendente, dissolvendosi nel puro conflitto
tecnico-ideologico. Nessun evento dunque, neppure quello apparentemente
più profano, può essere escluso dalla dinamica redentiva. Da questo punto di vista, la sociologia della
guerra o polemologia di Bouthoul si rivela descrittiva ma non discriminante.
Questo il suo limite.
Ma nonostante la distanza dei presupposti,
Bouthoul e i pensatori tradizionali come Guénon e Panunzio convergono su alcuni
punti essenziali. Anzitutto, la negazione dell’accidentalità della guerra. Per entrambi
infatti, il conflitto non è un incidente della storia ma ha una sua legge
interna e cioè è un fenomeno strutturale, inscritto nel ritmo stesso del
divenire; per entrambi l’idea progressista di una storia lineare orientata
verso un indefinito “meglio” è da escludere con il ché si va a smentire ogni
teleologia ottimistica; per entrambi, infine, occorre diffidare del pacifismo
ideologico, per Bouthoul, perché la pace non può nascere da un’esortazione morale, ma solo da
un equilibrio organico di forze contrapposte e per i pensatori della Tradizione,
perché il pacifismo tradisce una visione puramente biologica dell’esistenza che
non solo non comprende l’importanza del sacrificio come elemento sacro che
trascende la mera conservazione della vita, ma che vorrebbe addirittura
cancellarlo persino esistenzialmente.
Si potrebbe a questo punto affermare che
la polemologia di Bouthoul fornisce la base empirica per una possibile
polemologia metapolitica. Laddove la polemologia registra i sintomi della
malattia, la Tradizione ne offre la diagnosi metafisica ed escatologica;
laddove la sociologia del conflitto descrive il fenomeno visibile, la
metafisica della guerra ne svela le cause invisibili.
Tuttavia, non possiamo nasconderci il
fatto che l’apparente neutralità di Bouthoul che riduce la guerra a mero
fenomeno demografico implica un sotteso biologismo sociale. In tal senso, ad
avviso di chi scrive, Bouthoul partecipa suo malgrado a quel processo di immanentizzazione
del sapere moderno, in cui l’analisi empirica avanza, ma a prezzo della perdita
delle dimensioni superiori dell’intelligenza.
Un progresso nella sintomatologia, ma un
regresso nella comprensione del dramma cosmico che attraversa la storia umana. Solo
una lettura integrata capace di assumere la polemologia bouthouliana come
archivio dei fenomeni e la metafisica tradizionale come criterio di verità,
potrebbe costituire un terreno fecondo di indagine e, se mai fosse accolta
nell’ambito della prassi politica, persino un argine contro molte delle calamità
storiche che affliggono l’umanità. Ma si tratta, verosimilmente, di una pia
illusione, poiché proprio le religioni tradizionali, che dovrebbero alimentare
e amplificare tale visione, appaiono oggi assorbite quasi interamente dallo
sforzo di sopravvivere in un mondo che le respinge, più che dal compito di
illuminarlo.
Aldo La Fata
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