04/05/12

Echi e commenti: Potere sacerdotale e potere regale

Cristo re e sacerdote

Potere sacerdotale e potere regale

     Le riflessioni che seguono traggono spunto dalla lettura di un articolo di don Curzio Nitoglia e da un’accurata chiosa ad esso del dantista Alessandro Scali. Riassumiamo sinteticamente gli interrogativi che emergono dai due scritti: i poteri sacerdotale e regale sono in rapporto gerarchico l’uno con l’altro, ovvero il secondo deriva dal primo, oppure sono distinti e attingono separatamente autorità e carisma da Dio? E ancora, ammessane la distinzione, che cosa significa che il secondo è “subordinato” al primo? Stabilire quale sia il giusto rapporto tra i due poteri è una vexata quaestio che le varie tradizioni religiose hanno affrontato in modo diverso, pur all’interno di una convergenza di fondo.
   A onor del vero, secondo chi scrive si dovrebbe parlare di tre poteri: spirituale, sacerdotale e temporale. Sarebbe opportuno, infatti, distinguere tra metafisica, alla quale possono accedere soltanto i mistici e i saggi,  e ontologia, alla quale si riferisce il secondo potere: identificare sic et simpliciter il potere spirituale e quello sacerdotale può dar adito a gravi fraintendimenti. Per aderire al tema in oggetto, favorendone la comprensione, ci si atterrà comunque all’impostazione binaria.
   Va rilevato innanzitutto come la Creazione o il Manifesto, per dirla all’orientale, ubbidisca necessariamente alla legge gerarchica, secondo la quale l’importanza dei vari princìpi è determinata dalla loro maggiore o minore riflessione-consapevolezza dello Spirito. In codesta visione tradizionale, pur essendo riconosciuta l’onnipervadenza del Principio e l’unificazione dei poteri in Cristo, si ritiene che il superiore contenga l’inferiore, non viceversa. Ciò spiegherebbe, tra l’altro, l’imprescindibilità della Grazia: l’inferiore non può realizzare il superiore, ma ha la facoltà di purificarsi, svuotarsi, rendersi degno, affinché il secondo, l’Oro trascendente, riassuma in Sé l’Oro immanente messo a nudo per mezzo del deneget seipsum evangelico.
   La difficoltà più ardua nel collocare ordinatamente i vari princìpi riguarda i primi due. Nota Scali nel suo scritto: «Insomma, che questo mondo sia nel segno della dualità (il fondamento biblico è in Adamo ed Eva: v. Filone Alessandrino. De opif. Mundi) non dovrebbe sorprendere nessuno». Ciò è senz’altro vero: tutto è duale sub sole, ma appare altrettanto evidente come l’uomo, pressoché universalmente, abbia sempre riconosciuto una gerarchia in qualsiasi dualità, a cominciare da quella principiale. Se la dualità fosse irrimediabile, in che modo ci si potrebbe reintegrare nell’Unità?
   Facciamo alcuni esempi: nella Bibbia, Eva, il femminile, discende da Adamo; la luna, secondo la Prashna Upanishad, discende dal sole, il quale a sua volta discende dal Brahman; nel darshana ortodosso del Samkhya si ha realizzazione del Bene allorché il Purusha si distacca dalla Prakriti (l’energia indifferenziata) per reimmergesi nella sua completezza.
   Sembra fare eccezione il taoismo antico che nel Tao Te Ching (42) recita: «Il Tao produsse l’uno / l’uno produsse il due / il due produsse il tre / ed il tre dette vita a tutti gli esseri». Sebbene il due, costituito dallo yang e dallo yin, venga in teoria interpretato come una coppia di opposti complementari, nella realtà poi si propende sottilmente per uno yang temperato dallo yin, ossia vicino al punto di equilibrio: la maggior parte delle malattie sono di natura yin. Lo stesso potrebbe dirsi riguardo alle coppie di opposti bene-male o luce-ombra, in cui il primo termine prevale sul secondo.
   La necessità di operare distinzioni gerachiche all’interno della dualità si esprime persino nel rapporto orizzontale destra-sinistra; qui abbiamo puntualmente il prevalere del destrismo: la destra è la mano pura ed è associata al sole, al maschile, la sinistra è quella impura ed è associata alla luna, al femminile (cfr. Silvio Curletto, La norma e il suo rovescio, Ge 1990).
   Un’altra dualità fondamentale è Immanifesto e Manifesto, Brahman nirguna e Brahman saguna, Deus absconditus e Deus revelatus. Secondo il darshana Vedanta, solo il primo è assolutamente reale, mentre invece per lo Shivaismo del Kashmir (detto Trika, poiché fondato su tre princìpi) il Manifesto non sarebbe apparenza o illusoria sovrapposizione, bensì libera azione creativa di Dio. Tuttavia, anche in quest’ultima Scuola, che per alcuni versi si avvicina all’insegnamento Cristiano, il fenomenico, pur non venendo rifiutato ma anzi valutato quale gioiosa vibrazione connaturata a Shiva, va vissuto senza immedesimarvisi ciecamente, pena il fallire la mèta del risveglio Non-duale.
   Se dunque non ci si può sottrarre ad una valutazione scalare della dualità, ne deriverà che anche tra potere sacerdotale e potere temporale – o, se vogliamo, tra il “dare a Dio” e il “dare a Cesare” – si dovrà operare una distinzione gerarchica, in cui al potere incentrato sull’attenzione all’Immutabile si attribuirà il primato rispetto al potere-giustizia inerente il transeunte. L’esperienza insegna come il “dare a Cesare” entri spesso in contrasto con il “dare a Dio” e come ciò accada nei casi in cui Cesare si sottragga all’influenza divina, negando la supremazia sacerdotale. Ovviamente, in una società fondata sulla Norma, la superiorità di un principio sull’altro non potrà mai significare che l’inferiore dev’essere disprezzato o violentato, bensì innanzitutto accettato ed indi aiutato, ispirato ad elevarsi alla Verità ultima.
   In riferimento al rapporto tra il potere imperiale e quello sacerdotale, Scali usa giustamente il termine “subordinato”. Egli sostiene altresì che sarebbe assurdo se i re in spiritualibus non facessero riferimento al Papa. Subordinato vuol dire “dipendente, di ordine inferiore, secondario” e, nel linguaggio matematico, indica un sottoinsieme contenuto in un insieme più grande della stessa natura. A questo punto, però, che il potere politico possa essere subordinato e, nello stesso tempo, distinto o addirittura autonomo, tanto da attingere direttamente il proprio charisma dal Principio, diventa contraddizione incomprensibile.
   Certo, secondo la dottrina giovannea si ritiene «che la deificazione dell’uomo non esiga la rinuncia a essere tale, ma al contrario, porta al culmine il processo della sua umanizzazione [...] Non c’è nell’uomo dualismo fra l’umano e il divino: il divino è il culmine della sua umanità» (Dizionario teologico del Vangelo di Giovanni, Assisi 1982), tuttavia, nel Vangelo secondo Matteo (6. 19-21), Gesù afferma: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove il tarlo e la ruggine logorano e i ladri scassinano e rubano. Accumulate invece tesori nel cielo [...] Infatti, dov’è il tuo tesoro, ivi è pure il tuo cuore». E poco più avanti (6. 24): «Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e trascurerà l’altro: non potete servire a Dio e a Mammona». Il che equivale a dire, tra l’altro, che il “cuore” dell’uomo è radicato nel sovrasensibile, pur non negando l’umano. Adombrando la “dimensione” metafisica, alla quale si era accennato all’inizio del presente scritto, e sottolineandone la preminenza, Marco Vannini, nella sua opera La religione della ragione (Mi 2007), scrive: «[...] bisogna intendere per cristianesimo l’evangelico abnegare semetispum: rinuncia a se stessi, al proprio volere; fede non in quanto adesione a dottrine, ma in quanto affidamento a Dio soltanto, fino a diventare con Lui uno spirito, un unico Uno».  
    Come si era già in precedenza evidenziato, l’onnipervadenza di Dio, o, in termini Cristiani, la sua incarnazione nell’uomo, non va intesa come limitazione o menomazione della sua trascendenza: il Mistero rimane intatto, inaccessibile alla mente duale. Non troviamo perciò alcuna legittima giustificazione all’annullamento dell’ordine scalare dei princìpi. Che Gesù sia re può significare semplicemente che è tutto, sacerdote, falegname, lebbroso, e oltre tutto. Solo il mistico o, in ottica Hindu, il sannyasin, l’asceta che ha rinunciato a qualsiasi identificazione, possono attingere direttamente al divino, scavalcando qualsiasi intermediario e gerarchia. Ma tale condizione non è certo quella in cui si trova il potere temporale, il cui dharma consiste proprio nel tutelare l’ordine e la giustizia nelle relazioni tra gli uomini e tra questi e la natura, mantenendoli focalizzati sul Centro, ovvero sul Sacro: il fine ultimo ed universale.
   All’ordine sacerdotale, detentore del potere ontologico, competerà invece la custodia dell’accesso al Centro; dal che si deduce come sia impensabile raggiungere la mèta – almeno per chi segua la via progressiva dei Padri (Pitriyana) – senza passare attraverso la sua approvazione. L’auctoritas di cui la casta sacerdotale è investita non va però interpretata come facoltà di imporre brutalmente agli uomini verità spirituali. Queste non possono per loro natura essere subite passivamente, bensì accettate dalla ragione e intuite o comprese con l’Intelligenza del Cuore (la buddhi) prima di essere praticate volontariamente. Perciò, mentre al sacerdote spetterà di custodire la validità della dottrina, ispirando e persuadendo con l’esempio, al re competerà emanare e far rispettare all’uomo decaduto dell’Era Oscura (incapace ormai di essere il re di se stesso) alcune leggi fondamentali; beninteso tale giustizia dovrà conformarsi alla realizzazione del Bene e non ostacolarla. In simile chiave troviamo assai appropriato che Dante assegni all’uomo due fini: l’uno legato alla sua anima immortale e l’altro legato alla sua individualità o personalità incarnata. Essi potrebbero corrispondere al Dharma universale della reintegrazione nel Divino e allo svadharma inerente alla natura propria dell’ente, il cui compimento prelude alla realizzazione del fine ultimo.
   A proposito della dialettica tra i due poteri, ci sembra opportuno rammentare il grande pensatore Julius Evola, il quale osò proclamare la pari dignità tra la Via dell’Azione e la Conoscenza. Stimiamo profondamente Evola e il suo lavoro di riproposizione della visione tradizionale, ma crediamo che su questo tema egli abbia manifestato una sorta di cedimento dovuto al suo “attaccamento” alla casta cui apparteneva. Dal punto di vista del Sanatana-dharma vi sono due tipi di azione: quella sacrificale, purificatrice, il cui compito non consiste nel conoscere direttamente, per identità (la qual cosa sarebbe impossibile dato che l’Assoluto non è “oggetto” o “mèta” raggiungibile dall’io-mente), ma nel togliere il superfluo e nell’indurre l’ente al silenzio attraverso l’espletamento del proprio dovere personale, affinché emerga la Verità in Sé, eternamente presente; e quella spontanea, libera, non sempre comprensibile dalla ragione, di cui gode l’illuminato o il santo, nella quale si riflette, per quanto umanamente possibile, il libero creare, vibrare od emanare del divino.
   Sintetizzando, la Via dell’Azione è propedeutica alla Conoscenza, ma di quest’ultima, in virtù del suo porsi al di là di qualsiasi dualità o acquisizione dicibile, non si può dire che costituisca una “via”. Lo ribadiamo, la Conoscenza non riguarda necessariamente nemmeno il sacerdote: questi, occupandosi di teologia e di riti, la addita soltanto e rimane nella sfera dell’azione, sia pur sottilissima.     
   Interessante è notare come il sovvertimento del giusto rapporto tra i poteri abbia segnato l’inizio del Kali-yuga. Nell’epopea del Mahabharata viene ritratto uno scontro tra due grandi dinastie di kshatriya, una legittima, i Pandava, e l’altra illegittima, i Kaurava; la prima sceglie di affidarsi alla guida divina di Krishna, la seconda vi preferisce una vasta armata e rimarrà sconfitta. Più tardi, rispetto ai tempi pre-storici ritratti nel Mahabharata, (collocati dalla tradizione all’incirca nel 3000 a.C.), abbiamo un altro moto di sovversione della Norma coincidente col dilagare del Buddhismo, che induce gli kshatriya a rifiutare la supremazia dei brahmana e ad abbandonare le qualità proprie ai guerrieri, improntate ad un agire distaccato dai frutti, per assumere i valori degli asceti rinunciatari. Ciò aggraverà ulteriormente la decadenza generale della società e, in particolare, dello status tradizionale dei prìncipi. Non a caso il primo impero storico dell’India venne creato dall’usurpatore Mahapadma Nanda, sovrano di bassa casta.
   La sovversione della Norma-Dharma e del giusto rapporto gerarchico tra le varie funzioni ordinanti la società è quindi proseguita con l’avanzare della Storia sino allo sfascio e alla confusione, considerati “emancipazione dall’oscurantismo” e segni di “evoluzione”, dei nostri giorni. Naturalmente a tali condizioni degenerate non si sarebbe giunti se alla casta sacerdotale e a quella politica fossero sempre corrisposti poteri autentici; purtroppo nell’Era Oscura gli incapaci e i corrotti assumono sin troppo spesso le massime cariche, interpretandole quali privilegi invece che come responsabilità e servizio, e i meritevoli di fiducia vengono ignorati o addirittura perseguitati.
   Tornando al nesso tra potere sacerdotale e potere regale, non sembra che vi possano essere dubbi nel riconoscere, almeno in linea di principio, come il secondo debba sottomettersi al primo, attingendovi ispirazione, approvazione e guida. D’altro canto, ripugna pensare ad una auctoritas spirituale e sacerdotale che non sappia distaccarsi da istanze coercitive e che, fraintendendo o dimenticando l’essenza che la anima, usi la violenza per coartare gli uomini nell’alveo dell’ortodossia, ovvero del corretto orientamento. Le uniche azioni plausibili da parte degli uomini che si votano allo Spirito, il quale ha dotato l’ánthropos di libero arbitrio, conferendogli un alto valore, parrebbero pertanto non superare gli ambiti dell’esempio e della persuasione.
   A causa della confusione alla quale si accennava poc’anzi, oggi risulta assai difficile stabilire dove finisca il potere sacerdotale e cominci quello regale. Concludiamo quindi con una riflessione di Giovanni M. Tateo, tratta dalla sua recensione all’importante volumetto di Frithiof Schuon Considerazioni sull’opera di René Guénon: «Sia detto subito, prima di entrare nel merito, che discernere effettivamente quale sia la posizione dottrinale più corretta su questioni di grande delicatezza e importanza, richiede certamente non solo delle qualificazioni personali e delle competenze notevoli, ma anche, o soprattutto, una grazia ed una illuminazione che solo la divina Misericordia possono concedere».

Giuseppe Gorlani

1 commento:

  1. Aldo , calare tali precisazioni riguardo le differenti concezioni imperiali dell'oriente ed occidente cristiano sarebbe possibile?

    Grazie ed a risentirci, Davide

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