La recensione al libro “Il filo Aureo” ha provocato
un’interessante e animata discussione che ora prosegue con un nuovo e
compendioso scritto che l’autore, Giuseppe Gorlani, ha elaborato -in verità con
generosa mano tesa- in risposta alle nostre domande e obiezioni. Il testo,
ricco di dottrina ma non privo di problematicità e di nodi critici irrisolti, merita di essere letto e preso in esame con molta attenzione.
Nei prossimi giorni, Deo juvante, promettiamo di tornare sull’argomento con una nostra personale riflessione finale.
A.L.F.
A.L.F.
di Giuseppe
Gorlani
Nella sua recensione Aldo La Fata, oltre ad
evidenziare alcuni punti critici che tenteremo di chiarire, solleva un
interrogativo: «Esiste una metafisica cristiana?». La risposta non può che
essere affermativa. Per averne la conferma, basta leggere l’importante opera di
Silvano Panunzio, Contemplazione e
Simbolo. In particolare, il capitolo Il
Mistero Supremo riveste una grande importanza, poiché in esso l’Autore
riflette con competenza e profondità sui massimi Misteri. Cominciamo con la
dibattutissima questione dell’Uno e dei molti. Panunzio rileva il “limite” del
“Solo col Solo” plotiniano, cui attinge l’“Unico-Uno” (Einic-Ein) di Eckhart, o dell’Uno senza secondo di Shankara: «La
Monade spiega L’Ordine Ascendente della Metafisica unitaria, o l’odós anà dei Misteri […] ma la Monade
non spiega l’Ordine Discendente della Metafisica totalitaria, o l’odós katà dall’Uno al Molteplice e
viceversa». Più precisamente, la Monade di Plotino e l’assoluto non dualismo (kevala-advaita) di Shankara sarebbero
incapaci di giustificare lo «sdoppiamento dell’Unità» senza il quale non si
possono spiegare il come e il perché dell’Emanazione o della Creazione. Per
contro, S. Giovanni nel suo Vangelo – «tutto pneumatico», per Clemente – parla di un Omnes
Unum, ovvero di un Totum Unum:
«un Uno-Tutto, e non già un’Unità unica, sconfinatamente sola».
La novità essenziale del Cristianesimo
consisterebbe quindi nell’Unitotalità, equiparabile all’Én kaí Pan dei Misteri o al Quarto stato (caturtha) dell’Advaita
Vedanta. Dall’assunzione di simile veduta deriva una domanda di capitale
importanza: «[…] perché l’asceta deve raggiungere il nirvana (“estinzione”, cancellazione) o il kaivalya (assoluto “isolamento”) […]? Se Dio si manifesta, se il
Primo Principio si sdoppia, perché l’uomo, l’asceta, nell’ordine ascendente,
dovrebbe toccare il Divino nel puro isolamento e cioè nel punto che Dio stesso
supera nell’ordine discendente? […] Insomma, Dio è l’Uno-Tutto e l’Uomo
dovrebbe cancellare ogni cosa? E come poi, se l’Uno-Tutto lo sovrasta d’ogni
parte?».
Nello stesso capitolo si chiarisce il
significato dell’“apparire” del Manifesto, si esamina il discorso
importantissimo del vuoto e del pieno, ma soprattutto si tenta di indagare i
sommi misteri della Tetraktís e più
ancora della «Divinissima Endiade»: Én
dià dùoin: “Uno mediante Due”. Nell’Endiade risiederebbe il Mistero
supremo: il Mistero dell’amore del Padre che si manifesta come Cristo, il
rivelatore massimo. Secondo la prospettiva lumeggiata da Panunzio: «Questi [il
Padre] preferisce, a chi non si sia mai scostato dall’Uno, chi si è calato
nella terribile esperienza dei Molti per riconsacrare ogni cosa a quell’Uno che
è anche il Gran Tutto».
Fondandoci sulla nostra modestissima
comprensione, riteniamo che questo capitolo sia davvero ispirante e stimolante,
ma non privo di limiti o di nodi insolubili. A nessuno è dato spiegare
l’inspiegabile con la parola. Per esempio, circa l’ultima citazione, vien da
chiedersi: «Com’è possibile scegliere di non scostarsi dall’Uno per immergersi
nei Molti?». In realtà, volenti o nolenti, siamo immersi nella molteplicità; la
questione dunque non starà nell’accettarla o rifiutarla, bensì nell’orientarla
verso l’Alto, armonizzandone le contrapposizioni ed offrendo noi stessi al
Sublime. Stando così le cose, all’uomo aspirante alla Verità spetterebbe l’odós anà, a Dio o all’uomo illuminato l’odós katà. E ancora, Panunzio paragona
“i figli degli uomini” a “specchi” che Dio stesso produce poiché ama
riflettersi in essi. Chi siamo dunque noi? Se fossimo “specchi”, la nostra
alterità col Padre sarebbe irrimediabile; ci sembra pertanto più calzante
l’immagine delle scintille che, se pur infinitesime rispetto al Fuoco assoluto,
partecipano della sua stessa natura. In un bel saggio intitolato Cosmologia perenne, Titus Burckhardt
sostiene che la differenza tra la rappresentazione biblica della creazione e la
dottrina plotiniana dell’emanazione può facilmente essere superata: «[…]
cos’altro può infatti significare l’affermazione biblica che Dio ha creato il
mondo “dal nulla” (ex nihilo), se non
che Dio non ha plasmato il mondo da alcuna materia esistente al di fuori di sé?
Ma, se il mondo non ha alcuna realtà oltre a quella derivatagli da Dio, esso è
in questo senso il suo riflesso o la sua emanazione».
Riguardo poi alla “novità” cristiana,
Panunzio ammette che sulla questione del manifestarsi per amore altre
tradizioni sapienziali coincidono; tra queste, cita l’Hinduismo tantrico e, più
in generale, lo Shaktismo. A parte il fatto che semmai sarà l’Hinduismo tantrico
a contenere lo Shaktismo e non viceversa, va sottolineato come il Tantrismo sia
pre-vedico e dunque appartenga a quell’“India notturna” che, secondo il Nostro,
avrebbe finito con l’inquinare la pura visione Arya, patriarcale, con dottrine di ordine inferiore. Troviamo in
ciò consonanze con l’abbaglio patito da Evola e per un approfondimento
rimandiamo al saggio contenuto ne Il Filo
Aureo: Julius Evola e la Tradizione
del Sanatana Dharma.
La verità di Dio come Uno-Tutto e il Mistero
dell’Endiade non sono un’assoluta novità cristiana, ma appartenevano già al
pensiero religioso pre-ario dedito al culto di Paramashiva e della triade in esso contenuta: Shiva (il Signore
universale), shakti (l’energia che
lega, pasha) e pashu (la moltitudine delle anime individuate). Ciò non toglie
ovviamente nulla alla validità della riproposizione Cristiana: semplicemente la
priva della pretesa di detenere in esclusiva le chiavi della Verità ultima. La
ragione ci proibisce di pensare ad una Verità assoluta che si riveli soltanto
in un punto preciso del tempo e dello spazio; per essere assoluta essa
dev’essere sì libera di rivelarsi in modo privilegiato, ma nello stesso tempo
anche onnicomprensiva e quindi presente in ogni istante ed eternamente
accessibile; diversamente sarebbe relativa. Del resto, lo stesso Panunzio
ammette che: «La pluralità degli esseri, e per essa degli uomini, non è
un’apparenza irreale, ma una realtà. Certo, una realtà solo relativa, ma pur
sempre fornita, e preziosamente dotata, di spirituale concretezza».
Interessante l’accenno alla “realtà relativa”. In tutta sincerità non ci sembra
che il Vedanta dica qualcosa di molto
diverso: se l’Atman non fosse
immanente nel jiva, come potrebbe
questi aspirare alla Liberazione? La tanto criticata Maya non è il figlio di una donna sterile, ma un grado della
Realtà. Piuttosto è il Vacuismo Buddhista, con la sua negazione decisa di ogni
io o Sé, a porsi in una condizione di incomprensibilità.
In sintesi, ci sentiamo di affermare, sia
pur nella consapevolezza della pochezza di ogni dire, che, in linea di massima,
nel Cristianesimo i princìpi metafisici vengono espressi con un linguaggio
figurato (metaforico), suscitatore di bhakti,
mentre invece nell’Hinduismo di matrice shivaita, tantrica o upanishadica, gli
stessi vengono enunciati con un linguaggio filosofico, razionale, stimolante
sia jnana che bhakti.
Ci si consenta una nota personale. Quando in
età ginnasiale lo scrivente frequentava un liceo diretto da sacerdoti, gli si
affacciavano alla mente alcuni interrogativi concernenti la natura dell’“io” e
della divinità: dove ero prima di nascere, dove sarò tra un milione di anni?
Come posso muovermi da “qui”, dato che, sebbene il corpo si sposti e muti, “Io”
sono sempre presente, anche nel sonno profondo senza sogni? Qualora si
riconosca che Dio è onnipresente, perché lo si cerca “là”, nel divenire e non
“qui”, dentro di sé? Se però osavo porre domande venivo subito tacitato
aspramente, poiché simili discorsi esulavano dal catechismo e di conseguenza
non avevano alcun significato. Alla fine della permanenza in quella scuola, il
rettore disse ai miei genitori: «Vostro figlio è un paesaggio squallido». Si
sarà trattato di “sfortuna”, sta di fatto che la fame spirituale di quel
giovane non ottenne alcuna soddisfazione in ambito ecclesiastico.
Soltanto a 23 anni, in una mattina di sole,
seduto in aperta campagna, aprendo il volume Upanishad antiche e medie, a cura di Pio Filippani Ronconi,
d’improvviso riconobbi, magnificamente espressi, gli stessi pensieri che in
modo frammentario e disordinato mi avevano occupato la mente:
– «L’atman onnipervadente che, come il burro
nel latte, è contenuto [nel Sé individuale]. La radice della conoscenza dell’atman e dell’ascesi, questa è la suprema
dottrina segreta del brahman […] Om! Questa è la verità. Om!» (Sve. Up. I 16);
– «Il
Sublime è il volto, il capo e il collo del Tutto; egli abita nelle caverne [dei
cuori] di tutti gli esseri, egli permea il Tutto; perciò è onnipresente, egli,
Shiva» (Idem, II 11).
– «”Portami
un frutto di quel nyagrodha”, disse
il padre. “Eccolo, signore”, rispose il figlio. “Taglialo”, ordinò il padre.
“Eccolo tagliato”, rispose il figlio. “Ebbene, spezza uno di quei grani, ordinò
il padre. “Eccone uno spezzato, o signore”, rispose il figlio. “Che ci vedi
dentro?” “Nulla, o signore”. Il padre allora gli disse: “Questa sottile essenza
che sfugge alla tua percezione, è grazie a questa sottile essenza che questo
albero, per quanto grande esso è, si innalza al cielo. Credimi, mio caro, Questa
sottile essenza anima tutte le cose; essa è l’unica realtà; essa è l’atman. Tu stesso, o Svetaketu, lo sei”,
“Signore, istruitemi ancora”, “Sia pure!”» (Cha.
Up. XII 1-3).
Con ciò non si vuol sottrarre valore alla
nobilissima Tradizione Cristiana, ma semplicemente sottolineare l’esistenza di
più lignaggi spirituali; in genere ogni uomo appartiene al lignaggio
trasmessogli dai genitori, ma talvolta può accadere – soprattutto in momenti
anormali come quello attuale – che si scopra di appartenere ad un’altra
Tradizione.
Ne Il
Filo Aureo non abbiamo neppure citato Contemplazione
e Simbolo, sia perché si è limitato il proprio impegno al tentativo di
tracciare un filo d’Arianna tra poche discipline orientali, sia per la semplice
ragione che leggemmo e rileggemmo in modo consecutivo l’opera di Panunzio più
di venti anni fa e perciò non vi abbiamo pensato.
Veniamo ora al primo tra i due punti critici
evidenziati da La Fata: «Le osservazioni sui
difetti e limiti storici e, diciamo così, “istituzionali” del cristianesimo – il dogmatismo, l’esclusivismo, la
pretesa di supremazia, il monopolio della verità – non vengono bilanciate da altrettante
osservazioni in positivo con il risultato di dare al lettore l’impressione ora
di avversione, ora di indifferenza o disinteresse nei confronti di questa
religione. Ciò non sembra deporre a favore di una discriminazione esercitata a
fondo su questo soggetto che invece, a nostro avviso, non può essere trascurato
o tralasciato quando si parla di “verità universale” in un contesto europeo».
Innanzitutto, chiariamo come ne Il Filo Aureo non si parli di religioni,
ma di metafisica. Secondo la Tradizione del Sanatana-dharma,
con il termine “metafisica” ci si riferisce a quell’Ineffabile che sta al di là
dell’ontologia, pur non negandola. Sicché, per affrontare la metafisica si deve
aver preliminarmente acquisito ed esaurito il discorso religioso. In modo
emblematico, nella Prashna Upanishad
i sei discenti che si avvicinano al rishi
Pippalada per chiedere una guida nella ricerca del Brahman supremo sono già stabiliti nel Brahman non supremo. Gli aggettivi “supremo” e “non supremo” non
hanno un valore assoluto, ma vengono utilizzati solo per necessità di
esposizione. Ai sei sadhaka viene
chiesto altresì un anno di silenzio preliminare e di servizio disinteressato al
maestro. Come a dire che sono indispensabili precise qualificazioni per
accedere alla metafisica. Un tempo i Grandi Misteri metafisici venivano
custoditi con cura e trasmessi dalla bocca del maestro all’orecchio dell’aspirante;
oggi, invece, circolano liberamente. Ciò, se da un lato è provvidenziale,
dall’altro è pericoloso e deleterio, poiché, in numerosi casi, amplificano
l’“io” impermanente, invece di risolverlo o sublimarlo.
Ne Il
Filo Aureo i riferimenti all’Islam e alla Cabbala non sono più di due o
tre, mentre i riferimenti al Cristianesimo sono abbastanza frequenti, benché
incidentali. Sostenere tuttavia che essi privilegino una visione negativa del
Cristianesimo, sottolineandone l’“esclusivismo”, il “dogmatismo”, “la pretesa
di supremazia”, ecc., non ci sembra corretto.
A pagina 110, nella nota n. 43, citiamo un
brano tratto dalla rivista La Tradizione
Cattolica, in cui, secondo noi, vengono elencati quelli che La Fata
definisce «i difetti
e limiti storici e, diciamo così, “istituzionali” del cristianesimo»; indi
osserviamo come la religione Cattolica stia oscillando tra il rischio di cadere
nell’«irrigidimento in dogmi e prospettive cultuali la cui forma, ormai
obsoleta, si sta rivelando contraria all’intelligenza» (“irrigidimento” che il
Concilio ecumenico Vaticano II ha tentato di correggere) e il pericolo
altrettanto grave di perdere, come conseguenza di un’ansia eccessiva di
ammodernamento, la propria identità liturgica e teologica.
A pagina 122, nota n.
3, laddove Daniélou sostiene che «le religioni devono sforzarsi di chiudere la
porta alla liberazione», utilizzando lo strumento del dogmatismo, e che
l’abbandono di ogni religione e di ogni legge morale sia una sorta di conditio sine qua non alla liberazione,
si replica che tale riflessione è un’estremizzazione inaccettabile, giacché:
«il Liberato, pur trascendendo la dimensione religiosa, non la nega» e nemmeno
vi si oppone o cerca di distogliere da essa chicchesia. Si consideri come nello
Yogadarshana i primi due passi o
mezzi (anga), yama (autocontrollo, proibizioni) e niyama (osservanze), siano costituiti da un insieme di precetti
etici e morali. Un saggio non sarebbe tale se si opponesse tout court all’aspetto exoterico della religione. È giusto
stigmatizzare e, se possibile, correggere, le barbarie in cui spesso cade
l’exoterismo, ma è fondamentale preservarne l’aspetto provvidenziale.
A pagina 51, nota n.
19, accenniamo al valore del dogma della Trinità che adombra il mistero della
Non-dualità.
A pagina 172, si parla
della grande importanza dell’aspetto personale del divino e, nella nota n. 59,
citiamo Rudolf Otto, il quale giustamente sostiene: «I maestri dell’est e
dell’ovest sono d’accordo sull’esigenza che “Dio scompaia”. Ma sono anche
d’accordo nell’essere fedeli teisti nel loro ambiente: la loro mistica si
innalza su un fondamento teistico». Questo concetto viene riproposto più volte,
implicitamente ed esplicitamente, ne Il
Filo Aureo. A differenza di Marco Vannini (cfr. in particolare La religione della ragione, Mi 2007),
noi non riteniamo che le religioni, i miti o la devozione al Dio personale
siano “superstizione”.
A pagina 30, prendendo
lo spunto da un verso di Dante, si accosta S. Francesco alla Gayatri, il mantra vedico per eccellenza che in India viene recitato dai “due
volte nati” al sorgere del sole.
A pagina 140, nota n.
56, riflettendo sulla nefanda pratica degli espianti e trapianti di organi
vitali, si constata con rammarico come la Chiesa Cattolica, accettando
l’approssimativa definizione di “morte cerebrale”, non si erga a difesa della
dignità dell’uomo e rinneghi o, quanto meno, sottovaluti la tradizione della
“buona morte”. Spesso non si può che convenire con le dichiarazioni della
Chiesa riguardanti fenomeni di degenerazione sociale e spirituale (aborto
indiscriminato, matrimoni tra omosessuali, ecc.), ma talvolta, a fronte di temi
di non poca importanza, si ha come l’impressione di osservare una Chiesa
“imbavagliata”.
In più punti, inoltre,
ci si sofferma sul concetto di libero arbitrio, citando il prezioso lavoro di
Jean Phaure, che i lettori del Corriere
Metapolitico conoscono bene, e si fanno riferimenti all’insegnamento
Cristiano.
Riguardo invece al
fenomeno della conversione da una religione all’altra, non è un tema che
abbiamo affrontato nella nostra ultima opera. Esso però viene in parte trattato
ne Il Segno del Cigno – Sulle tracce
dell’Ineffabile, (Rimini 1999), in saggi quali: Fame d’Oriente, Occidente e Sanatana-dharma,
Quale Buddhismo, Unità e uguaglianza. Per l’ordinario – fatte salve alcune
giustificate eccezioni – non apprezziamo le conversioni orizzontali; piuttosto,
se di conversione si vuol proprio parlare, ci si deve riferire ad un
innalzamento verticale, sovrareligioso.
E infine, veniamo al
secondo punto critico, relativo all’ultimo saggio, Riflessioni sull’Essere. Replichiamo a La Fata che la verità
secondo cui la nostra unica certezza è che “l’Essere È” non va rigettata
frettolosamente, anzi, secondo chi scrive, essa è quanto di più prossimo
all’Essenza. Il Dio biblico non si manifesta forse a Mosè, nel Libro dell’Esodo, dicendo “Io Sono Colui
che Sono”? E Gesù non ripete forse per ben quattro volte “Io Sono” nel Vangelo
di Giovanni?
Nel Notiziaro del gruppo cristiano Kairós si legge: «Kairós è il tempo di Dio […] è il tempo presente, l’istante in cui
si può cogliere la presenza divina […] Dio non va cercato fuori di noi, ma
dentro di noi […] Per tornare al centro e percepire Dio nel silenzio della
nostra interiorità, oltre ai sacramenti e alla liturgia, sono di grande aiuto
la preghiera e la meditazione». A parte il fatto che, metafisicamente, Dio non
sarà mai oggetto di percezione, mi colpisce come, anche nei pensieri sopra
riportati, si ribadisca l’importanza del silenzio.
La saggezza
realizzativa d’Oriente e d’Occidente ci insegna che un conto è pensare,
credere, divenire, aspirare, praticare questo o quel rito, pur validissimi,
altro è tacitare la mente, immergersi nel silenzio, affinché Dio si riconosca
in noi identico a se stesso. La prima modalità appartiene alla via lenta,
progressiva, la seconda alla via diretta. A tale vertiginosa identità – che
implica il “rinnega te stesso” evangelico – ci si arriva nudi, spogliati di
ogni cogitazione o dottrina. Johann Valentin Andreae, nella sua celebre opera Le nozze chimiche, fa scrivere a
Christian Rosenkreutz, dopo che questi ha bevuto la bevanda del silenzio – Haustus Silentii – ed ha raggiunto il
grado di Cavaliere della Pietra d’Oro: «Summa
scientia nihil scire».
Ci si rende conto di
quanto sia pericoloso riflettere pubblicamente sui grandi Misteri metafisici,
tuttavia è la temperie dell’Era Oscura che ce lo consente, anzi, che ce lo
impone. Si consideri come, tra l’altro, la diffusione de Il Filo Aureo resterà circoscritta a un numero limitatissimo di
persone: i temi che vi si trattano non sono appetibili alle moltitudini
smarrite dell’oggi. Ma anche se non fossero smarrite, in preda al più disperato
nichilismo, non sarebbero ugualmente adatti alle maggioranze. E qui veniamo al
significato di religione e alla verità che custodisce. Essa è provvidenziale
nella misura in cui mostra all’uomo il Bene eterno, la salvezza
dall’identificazione nell’effimero ed è paragonabile al dito che indica la luna
o al rametto incandescente che svanisce nel fuoco da esso stesso acceso.
Naturalmente l’essenza della verità della luna o del fuoco dev’essere contenuta
nella religione, tuttavia questa, in ultima istanza, non può che autorisolversi
nell’“esperienza” diretta (abbiamo aggiunto le virgolette per segnalare
l’inadeguatezza del vocabolo) dell’avvicinamento o persino dell’identità con
l’Essere.
Max Müller definì
l’atteggiamento religioso dell’indiano con il termine “enoteismo”: la facoltà
di votarsi con totalità al Divino, appoggiandosi alla prassi di una determinata
dottrina o religione, pur restando consapevoli che lo stesso Dio a cui ci si
rivolge può, nella sua misteriosa trascendenza immanente, rivelarsi ad altri
uomini o altri popoli in forme differenti, altrettanto efficaci.
«La Verità è una sola:
i saggi la chiamano con vari nomi. Vi è un solo Dio, una sola Verità assoluta e
una sola Esistenza. Le genti di differenti paesi adorano Dio sotto vari nomi e
diverse forme. Ognuno di questi nomi e forme è una faccia dell’Infinito, ed è
uno con l’Infinito» (Srimad Bhagavatam
IV). «Un giorno, una contadina siciliana, moglie di un fattore presso il quale
lavoravo come vendemmiatore, vedendo che digiunavo ogni sera, mi disse: “Ho
capito, Giuseppe, questo è il tuo modo
di pregare… Ma, quale Dio preghi?”. Le risposi: “Ce n’è più d’Uno?”. Ella
assentì, e i suoi occhi si illuminarono di comprensione» (da Fame d’Oriente, in op. cit.).
Sino a pochi secoli fa
non avremmo potuto esternare le riflessioni contenute nel presente scritto; ora
è possibile e ciò è un bene; peccato soltanto che l’illusione della modernità
abbia reso quasi tutti sordi e non soltanto alle riflessioni metafisiche, il
che non sarebbe gravissimo, ma anche – e ciò è davvero drammatico – all’orientamento
sacrale e religioso.
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