05/08/25

In risposta alla Rivista di Studi Tradizionali e in difesa di Silvano Panunzio e della sua opera (1)

 

 

 Che Silvano Panunzio non potesse essere compreso dai cultori di un guénonismo rigido, cristallizzato, museificato, era noto da tempo a chi avesse non dico approfondito il suo pensiero, ma anche soltanto colto l’impronta pneumatica che lo anima e che non si lascia inquadrare nei sistemi, nei ritualismi, nelle tassonomie iniziatiche così care a certi ambienti pseudo-tradizionali. Non è quindi sorprendente che la pubblicazione del volume René Guénon e la crisi del mondo moderno (2022) curato dal sottoscritto abbia suscitato reazioni tanto veementi quanto rivelatrici. Rivelatrici, innanzitutto, dell’incapacità di distinguere una critica interna da una negazione esterna, di discernere tra la legittima esigenza di superamento e l’anarchia dissolutrice. Silvano Panunzio, con fedeltà cristica e chiaroveggenza profetica, ha sempre riconosciuto l’opera guénoniana come una delle grandi manifestazioni restauratrici dell’intellettualità tradizionale, ma ha anche indicato i limiti, le rigidità, le unilateralità che ne impediscono una vera apertura al Mistero cristico, nella sua dimensione incarnata e glorificata. Lungi dal rifiutare Guénon, Panunzio lo colloca laddove merita: come precursore di un risveglio dell’intelletto simbolico e sacrale, ma non come ultimo custode del Vero. Il pensiero di Panunzio non è antagonista a Guénon, ma – come ogni autentica voce pneumatica – lo oltrepassa, lo compie, lo trasfigura alla luce della Rivelazione cristica. Accusarlo di voler sostituire all’autorità tradizionale di Guénon una presunta “exusia ultrapersonale” è non solo una distorsione polemica, ma un fraintendimento radicale del cuore stesso della mistica cristiana. L’exusia cui Panunzio allude è quella che, secondo san Paolo, è data a chi è stato reso partecipe dello Spirito del Signore e ne è divenuto tempio vivente: è potenza carismatica, non potere umano.

Non si comprende Panunzio se si continua a misurarlo col metro iniziatico orientale: egli parla non dall’interno di un sistema, ma dall’alto di una visione escatologica e profetica. I suoi toni, la sua foga mistica, le sue “boutades” paradossali sono parte di uno stile che ha molto più a che fare con Isaia che con Sankaracharya. Si può dissentire, ma non si può negare la coerenza interna di un pensiero che ha come centro il Cristo glorioso e come orizzonte la Parusia. Così, quando Panunzio ironizza sulla mitologia dell’iniziato che si crede superiore al Cosmo e persino al Dio personale, non sta rigettando la metafisica, ma ne sta denunciando una caricatura gnostica e superbamente disincarnata. Laddove il vedantino Guénon mira alla conoscenza metafisica sovrapersonale, Panunzio cristianamente persegue la via della deificazione personale, del ritorno all’Uno attraverso la trasfigurazione dell’io in Cristo.

È vero: Panunzio non ritiene i mantra, le formule, le tecniche rituali come sufficienti alla realizzazione spirituale. Ma non perché le disprezzi in quanto tali; piuttosto perché egli ne denuncia la riduzione a mezzi automatici, a strumenti meccanici sganciati da una vera conversione interiore. In ciò egli è profondamente cristiano: non è il rito che salva, ma la grazia. Non è l’iniziazione regolare che trasforma, ma la risposta libera e amorosa alla chiamata dello Spirito. La Tradizione, per Panunzio, non è un archivio di forme, ma un organismo vivente che pulsa nel cuore del Cristo eterno.

Quanto all’accusa di anticristicità rivolta da Panunzio a Guénon, essa va letta non come un insulto, ma come una diagnosi spirituale. Panunzio vede in Guénon non un nemico del Cristo, ma un pensatore che, per formazione e inclinazione, ha ignorato il Mistero dell’Incarnazione, scivolando talvolta verso un universalismo astratto. La sua critica alla gnosi luciferina non è rivolta a Guénon uomo, ma a certe derive del suo sistema. Il Cristo non è uno fra tanti Avatâra: è il Logos stesso fattosi carne. Dire che Panunzio neghi l’unità delle tradizioni equivale a ignorare tutta la sua opera. Egli ha sempre affermato l’unità trascendente, ma a partire da un centro superiore, che è il Verbo incarnato (cristianesimo paradigmatico). Lungi dall’essere un relativista o un esclusivista, egli è semplicemente un "innamorato di Cristo".

Quanto agli autori di riferimento, è evidente che Panunzio si muove in una dimensione ispirativa più che filologica. Non fa genealogia iniziatica, ma ermeneutica pneumatica. Cita Hartmann, Sédir, Schuon, Steiner, non perché ne condivida tutte le posizioni, ma perché intravede in essi momenti di contatto con la Verità, barlumi, scintille, testimonianze indirette. Rilegge persino il fantastico o il simbolico in chiave cristologica. Il suo uso della figura dell’Agartha, ad esempio, non è mai letterale, ma sempre trasparente: l’Agartha è il Centro interiore, il Cuore teofanico del Mondo, il luogo invisibile dove si elabora la restaurazione finale. Non è geografia occulta, è topologia spirituale.

Sul piano storico-dottrinale, Panunzio ha sempre mostrato un rispetto profondo per la Tradizione cristiana, ma anche una dolorosa lucidità nel constatarne la decadenza, la perdita della sua dimensione iniziatica, la riduzione ad un moralismo dogmatico o a un essoterismo sterile. Egli ha tentato una restaurazione, non attraverso una copia servile delle forme orientali, ma con una originale e profonda metafisica della storia, in cui il tempo è il teatro della progressiva manifestazione dello Spirito. La sua “metapolitica” non è una bizzarria, ma un tentativo coraggioso di reintegrare l’evento storico nella visione mistica. E ciò che più infastidisce certi difensori della Tradizione congelata è proprio questa libertà interiore, questa capacità panunziana di parlare con autorità senza invocare certificati iniziatici, questa osmosi tra alta dottrina e profezia viva.

Infine, l’attacco personale al curatore, alla casa editrice e agli studiosi che hanno avuto il merito di riproporre Panunzio al pubblico contemporaneo rivela non tanto la forza della critica quanto la debolezza di un dogmatismo impaurito. Invece di limitarsi a discutere le idee, si attacca chi le presenta; invece di limitarsi a confutare, si insinua; invece di limitarsi ad argomentare, si scomunica. Ma la Tradizione non appartiene a nessun gruppo, a nessuna rivista, a nessuna setta intellettuale. Essa vive, respira, si rinnova nello Spirito. E se oggi Panunzio ritorna, è perché vi è bisogno di un pensiero che non separi mai la Metafisica dalla Carità, la Verità dall’Amore.

Chi ha occhi per vedere, veda. E chi non comprende Panunzio, almeno non lo calunni. Non si accusa Isaia di scrivere come Nietzsche, né si rimprovera a Elia il tuono con cui parlava in nome di Dio. Talora, è solo lo Spirito a riconoscere i suoi. E Panunzio, a dispetto dei suoi critici, ne è stato uno strumento.

Aldo La Fata



[1] La lunga recensione di oltre venti pagine è uscita sulla rivista torinese “Studi Tradizionali” n. 119, gennaio-giugno 2023, pp. 77-96.