Non si comprende Panunzio se si continua a misurarlo
col metro iniziatico orientale: egli parla non dall’interno di un sistema, ma
dall’alto di una visione escatologica e profetica. I suoi toni, la sua
foga mistica, le sue “boutades” paradossali sono parte di uno stile che ha
molto più a che fare con Isaia che con Sankaracharya. Si può dissentire, ma non
si può negare la coerenza interna di un pensiero che ha come centro il Cristo
glorioso e come orizzonte la Parusia. Così, quando Panunzio ironizza sulla
mitologia dell’iniziato che si crede superiore al Cosmo e persino al Dio
personale, non sta rigettando la metafisica, ma ne sta denunciando una
caricatura gnostica e superbamente disincarnata. Laddove il vedantino Guénon mira alla conoscenza metafisica sovrapersonale, Panunzio cristianamente persegue la via
della deificazione personale, del ritorno all’Uno attraverso la trasfigurazione dell’io in Cristo.
È vero: Panunzio non ritiene i mantra, le formule, le
tecniche rituali come sufficienti alla realizzazione spirituale. Ma non perché
le disprezzi in quanto tali; piuttosto perché egli ne denuncia la riduzione a
mezzi automatici, a strumenti meccanici sganciati da una vera conversione
interiore. In ciò egli è profondamente cristiano: non è il rito che salva, ma
la grazia. Non è l’iniziazione regolare che trasforma, ma la risposta libera e
amorosa alla chiamata dello Spirito. La Tradizione, per Panunzio, non è un
archivio di forme, ma un organismo vivente che pulsa nel cuore del Cristo
eterno.
Quanto all’accusa di anticristicità rivolta da
Panunzio a Guénon, essa va letta non come un insulto, ma come una diagnosi
spirituale. Panunzio vede in Guénon non un nemico del Cristo, ma un pensatore
che, per formazione e inclinazione, ha ignorato il Mistero dell’Incarnazione,
scivolando talvolta verso un universalismo astratto. La sua critica alla gnosi luciferina non è rivolta a Guénon
uomo, ma a certe derive del suo sistema. Il Cristo non è uno fra tanti Avatâra:
è il Logos stesso fattosi carne. Dire che Panunzio neghi l’unità delle
tradizioni equivale a ignorare tutta la sua opera. Egli ha sempre affermato l’unità
trascendente, ma a partire da un centro superiore, che è il Verbo incarnato (cristianesimo paradigmatico).
Lungi dall’essere un relativista o un esclusivista, egli è semplicemente un "innamorato di Cristo".
Quanto agli autori di riferimento, è evidente che
Panunzio si muove in una dimensione ispirativa più che filologica. Non fa
genealogia iniziatica, ma ermeneutica pneumatica. Cita Hartmann, Sédir, Schuon,
Steiner, non perché ne condivida tutte le posizioni, ma perché intravede in
essi momenti di contatto con la Verità, barlumi, scintille, testimonianze
indirette. Rilegge persino il fantastico o il simbolico in chiave cristologica.
Il suo uso della figura dell’Agartha, ad esempio, non è mai letterale, ma
sempre trasparente: l’Agartha è il Centro interiore, il Cuore teofanico del
Mondo, il luogo invisibile dove si elabora la restaurazione finale. Non è
geografia occulta, è topologia spirituale.
Sul piano storico-dottrinale, Panunzio ha sempre
mostrato un rispetto profondo per la Tradizione cristiana, ma anche una
dolorosa lucidità nel constatarne la decadenza, la perdita della sua dimensione
iniziatica, la riduzione ad un moralismo dogmatico o a un essoterismo sterile.
Egli ha tentato una restaurazione, non attraverso una copia servile delle forme
orientali, ma con una originale e profonda metafisica della storia, in cui il
tempo è il teatro della progressiva manifestazione dello Spirito. La sua “metapolitica”
non è una bizzarria, ma un tentativo coraggioso di reintegrare l’evento storico
nella visione mistica. E ciò che più infastidisce certi difensori della
Tradizione congelata è proprio questa libertà interiore, questa capacità
panunziana di parlare con autorità senza invocare certificati iniziatici,
questa osmosi tra alta dottrina e profezia viva.
Infine, l’attacco personale al curatore, alla casa
editrice e agli studiosi che hanno avuto il merito di riproporre Panunzio al
pubblico contemporaneo rivela non tanto la forza della critica quanto la
debolezza di un dogmatismo impaurito. Invece di limitarsi a discutere le idee, si attacca
chi le presenta; invece di limitarsi a confutare, si insinua; invece di limitarsi ad argomentare, si
scomunica. Ma la Tradizione non appartiene a nessun gruppo, a nessuna rivista,
a nessuna setta intellettuale. Essa vive, respira, si rinnova nello Spirito. E
se oggi Panunzio ritorna, è perché vi è bisogno di un pensiero che non separi
mai la Metafisica dalla Carità, la Verità dall’Amore.
Chi ha occhi per vedere, veda. E chi non comprende
Panunzio, almeno non lo calunni. Non si accusa Isaia di scrivere come
Nietzsche, né si rimprovera a Elia il tuono con cui parlava in nome di Dio.
Talora, è solo lo Spirito a riconoscere i suoi. E Panunzio, a dispetto dei suoi
critici, ne è stato uno strumento.
Aldo La Fata
[1] La lunga recensione di oltre venti
pagine è uscita sulla rivista torinese “Studi Tradizionali” n. 119,
gennaio-giugno 2023, pp. 77-96.

