Questo libro risulta davvero interessante per chi ancora ha mantenuto l’abitudine
di ragionare e vuole addentrarsi con qualche speranza di comprendere nel
labirinto esoterico, distinguendolo da quello che potremmo chiamare il “circo
esoterico”.
Aldo La Fata, intervistato da Bruno Bérard, riesce ad
essere ammirevolmente semplice, dando in breve spazio gli elementi fondamentali
per accostarsi alle più diverse tradizioni nei loro aspetti esoterici.
In queste cose vale sempre la pena andar cauti, e non
vi sono due esoteristi o presunti tali che usino i termini nello stesso modo,
per cui bisogna stare molto attenti a leggere senza fantasticare troppo di
quello che non c’è scritto e magari vorremmo trovarvi…
Il testo si dipana un po’ sotto il riflesso, non
pedissequo, della distinzione imposta da René Guénon tra “esoterismo” ed
“essoterismo” (o “exoterismo”). Questa distinzione viene in effetti comoda per
tanti aspetti, anche se non sempre funziona e anche se soprattutto da molti
viene usata assai male (anche da Guénon stesso rispetto al cristianesimo, per
esempio).
1. Nell’“Esergo” e nel primo capitolo Bérard e La Fata
cercano di delimitare il campo, escludendo dal campo dell’esoterismo il
variegatissimo bric-à-brac prima dell’occultismo e poi delle varie
espressioni new age, distinguendo dunque l’esoterismo “vero” da quella
specie di sensazionalismo fantastico che per molti che esoteristi si
definiscono non è più che una specie di “parco giochi per la mente”[1].
Aldo La Fata oscilla, come del resto per ragioni
pratiche oscillo anch’io, tra una definizione “ristretta” di esoterismo come
esperienza interiore di cui non è tracciabile la storia perché infine dipende
da una grazia celeste e non da un seguito di visibili vicende, e una
definizione “larga” che vi include le varie pratiche mistico-ascetiche e in
qualche modo l’esoterologia, ovvero lo studio delle manifestazioni
esoteriche identificabili. Giustamente fa presente che si è un buon esoterologo
solo se si è anche esoterista, come si è un buon teologo solo se si è anche
credente (p. 12).
In ultimo, in risposta a una domanda di Bérard, La
Fata chiarisce che l’esoterismo non è assimilabile alla filosofia, non
dipendendo dalla mente ma dalla “luce dell’intelletto” che ha origini trascendenti.
2. Nel secondo capitolo si tratta dei rapporti tra
esoterismo e religione.
La Fata accenna ai rischi del voler troppo restringere
il campo a dottrine e teorie: “Teorie e dottrine possono essere un punto di
partenza, ma non sono la Via. Senza contare che non è di una sola Via che si
tratta” (p. 17). Come esempi ne porta due molto diversi, quello di Umberto Eco,
che nel Pendolo di Foucault finisce per far sembrare una buffonata ogni
approccio esoterico, e quello di Antoine Faivre che avrebbe adattato taluni
schemi da lui prediletti ad analizzare l’esoterismo anche laddove tali schemi
non si adattavano. Tra l’altro io ho letto qualcosa di Faivre e non posso non
convenire che il suo approccio mi è sembrato troppo classificatorio. In questi
casi la mente dello studioso assume un predominio che non gli spetta,
sostituendosi all’intuizione intellettuale. È peraltro un rischio difficilmente
evitabile quando si vuol parlare di tutto.
La Fata dà ragione almeno in parte a Guénon quando
differenzia esoterismo e religione, in particolare trattando di ebraismo ed
islamismo, dove la Qabbalàh e il Sufismo sembrano mondi a sé rispetto alla
religione praticata dai credenti. Capisco il suo punto di vista ma farei
presente che vi sono ciò nonostante molte realtà intermedie, per esempio il
Chassidismo e che d’altra parte, come tanti esoteristi hanno apprezzato nel
cristianesimo l’Imitatio Christi, così non c’è ragione di non vedere
l’analogo nell’imitazione di Muḥammad ispirata dagli Ḥadīth. L’insistenza
su una netta distinzione tra exoterismo ed esoterismo è caratteristica dei
guénoniani, ma assomiglia un po’ al letto di Procuste…
D’altronde La Fata, mentre accetta la distinzione di
Guénon, ha ben chiaro che la Grazia è l’analogo (o direi io, la stessa cosa)
dell’influenza spirituale di cui si parla nel Sufismo o nella Qabbalàh. Sembra
che la distinzione sia più che altro questione di vocabolario, diverso essendo
quello che usano i religiosi e quello che usano coloro che si ritengono esoteristi.
Non sono tuttavia persuaso che la soluzione possa consistere, come con qualche
esitazione suggerisce La Fata, in un “dizionario tecnico” dei termini esoterici;
temo – e gli studi che vado in questi ultimi mesi conducendo sulla massoneria
me lo confermano – che la contrapposizione abbia ragioni eminentemente
“polemiche”, derivando da scontri politici ed ideologici che non furono e non sono
né religiosi né esoterici. Del resto dal mio punto di vista un religioso non
esoterico è solo un conformista o un ipocrita, e un esoterista non religioso è
solo un illuso o un mistificatore.
3. Il terzo capitolo verte sulla “biografia esoterica”
di Aldo, che ho letto con curiosità anche un po’ pettegola se vogliamo, visto
che lui è generalmente assai riservato. Parla della sua scoperta da ragazzo di Julius
Evola, poi di Guénon, poi del suo incontro con un kremmerziano che ebbe su di
lui conseguenze ambivalenti, fino alla scoperta e all’incontro con Silvano
Panunzio (di cui Aldo La Fata è esecutore testamentario ed erede spirituale)[2]
nonché alla partecipazione alla sua “Alleanza Trascendente Michele Arcangelo”
(ATMA), piccolo gruppo di persone che s’ispirava un po’ allo spirito degli
antichi Cavalieri del medioevo.
4. Il quarto capitolo è sulla storia dell’esoterismo.
Giustamente Aldo La Fata parte con un “distinguo” sacrosanto: “l’esoterismo
come entità storica non esiste e non è mai esistito, ma una storia delle sue
tante espressioni, formulazioni, attualizzazioni e adattamenti è certo
possibile”. E nel seguito chiarisce ancora: “Circa l’esoterismo possiamo
parlare senz’altro di correnti o meglio di fiumi carsici da cui ogni tanto
zampillano sorgenti a destra e a manca. È della ‘storia’ di queste sorgenti
d’acqua che possiamo parlare e non del fiume che le ha originate” (p. 38).
Quanto a questo “fiume”, a domanda di Bérard, La Fata
risponde magnificamente, citando l’Apocalisse, che esso scaturisce “dal trono
di Dio e dell’Agnello” (p. 38).
La distinzione che viene poi portata avanti tra “padri
maggiori” e “padri minori” dell’esoterismo è più che altro un “mezzo utile”. I
maggiori, storici o leggendari che siano, sarebbero Ermete, Pitagora, Mosè,
Manu, Orfeo. A loro vengono collegate le “religioni dei misteri”, e in questo
senso il termine “esoterico” viene usato a significare “insegnamento riservato,
non noto ai non iniziati”. Si parla poi dei “padri minori”, di cui La Fata
afferma si potrebbe tracciare un lungo elenco che va da Platone a Guénon. Essi
costituirebbero una sorta di “patristica esoterica” analoga alla patristica dei
Padri della Chiesa.
Si parla poi della “geografia” dell’esoterismo, di
quelli che sembrano essere stati i suoi maggiori centri di diffusione. Si
distingue infine giustamente l’esoterismo dallo gnosticismo, che sarebbe sotto
il segno di “Polemos” rispetto alla gnosi della tradizione cristiana
universale, e si tratta dei rapporti con le antiche scuole filosofiche come
quella di Alessandria, che La Fata non vede come propriamente esoteriche.
5. Il quinto capitolo[3]
intitolato “Esoterismi ed esoteristi” ripercorre più dettagliatamente quanto
già accennato precedentemente. La Fata identifica l’esoterismo con la “ricerca
della verità”, poi dà delle notevoli spiegazioni dei nomi dei tre grandi
“padri” greci, Orfeo, Pitagora ed Ermete, spiegazioni che gettano ulteriore
luce sulla natura dell’esoterismo. Parla poi di come nei “misteri” fossero
ammesse anche le donne, escluse dal suo seno ancor oggi dalla massoneria
“ortodossa”. Consente all’affermazione di Bérard che il falso esoterismo si
distingua, in quanto “prometeico”, dal vero, che non ruba il “fuoco degli dèi”,
ma lo ottiene in dono (p. 51).
La Fata poi afferma con convinzione la natura
esoterica dell’opera di Dante nonché – e per me ancor più è segno di grande
chiarezza interiore – dell’insegnamento di Socrate. Non per nulla Socrate fu
maestro di Platone; era iniziato ai misteri ma, più importante ancora, parlava
col proprio daímon.
Un aspetto esoterico lo riconosce anche in Aristotele,
su cui peraltro le opinioni sono variabili e su cui mi pare che anche Bérard
parzialmente dissenta (p. 59).
Si parla poi delle scuole antiche, come quelle neoplatoniche,
delle loro propaggini (almeno parziali) nel neoplatonismo cristiano antico,
medievale e rinascimentale: La Fata cita anche alcuni filosofi su cui forse
avrei qualche dubbio, per giungere poi alla scuola “tradizionalista” di Guénon,
Coomaraswamy eccetera, a cui lui si è nel tempo notevolmente ispirato.
Sostiene che Guénon ha due anime: lo “scolarca” e
l’iniziato “muto”, e che il secondo lo avrebbero capito in pochi, i più
attenendosi al primo e radicalizzandone, a volte malamente, le categorie e le
distinzioni (pp. 58-59).
6. Nel sesto capitolo Bérard chiede a La Fata di
descrivere il suo percorso di ricerca non più in relazione alle persone incontrate
ma in base ai “libri chiave” studiati, questo anche in relazione al volume Nella
luce dei libri. Percorsi di lettura di un “cavaliere errante” pubblicato da
Aldo nel 2022[4].
Per me è un capitolo molto curioso perché mi viene da
paragonare i riferimenti di Aldo con quelli che citerei io. Guénon l’ho letto
tutto più volte e mi ha molto influenzato per un certo periodo, di Evola ho
apprezzato alcune opere e particolarmente l’Introduzione alla Magia da
lui curata, che lessi mentre ero militare, Silvano Panunzio l’ho scoperto
tardivamente mercé Aldo stesso che me l’ha fatto conoscere. Paolo Virio lo
conosco solo di nome ma da quel che ne ho sentito mi attira poco, non sono
molto convinto del suo “tantrismo cristiano”, ché poi il tantrismo in India non
è affatto solo una questione di sesso.
Quanto a Kremmerz, lessi i tre volumi della Scienza
dei Magi che cita La Fata (più il quarto volume di commento scritto da
Danilo Ugo Cisaria), mi piacque moderatamente più che altro perché Kremmerz era
un buono scrittore, ma non ne fui mai troppo convinto. Meyrink lo lessi e
rilessi non so quante volte, perché mi attirava sia come letteratura fantastica
sia per i suoi risvolti esoterici, e poi era il periodo in cui mi leggevo le
cose del suo curatore italiano Evola.
Differentemente da Aldo, lessi e rilessi da cima a
fondo (anche in senso cronologico) tutto Castaneda, ne trassi molte suggestioni
e mi fu utile, anche se non ci volle molto perché mi accorgessi che si trattava
quasi tutto di invenzione (avevo sperato che non lo fosse). Ma era
un’invenzione di genio (solo le ultime tre opere uscite sapevano decisamente di
mistificazione). Dante, Goethe e Shakespeare, che pure apprezzo assai, non li potrei
citare tra le mie fonti principali, mentre condivido l’elogio di Aldo ai
romanzi di Mircea Eliade, alcuni dei quali sono dei veri capolavori.
Mancano in questo elenco alcuni riferimenti che per
me, poeta e orientalista, furono fondamentali: Juan de la Cruz, di cui tradussi
e pubblicai tutta l’opera poetica, Teresa de Ávila, Rāmakṛṣṇa, Tagore, Rūmī,
Buber, Vasugupta (ai suoi Śivasūtra dedicai trent’anni), Gurdjieff, Whitman,
García Lorca, Hesse, Dostoevskij e Tolstoj, e tanti tanti altri… Ma la storia
di ciascuno di noi è diversa…
7. Il settimo capitolo è su “esoterismo e mistica”. La
Fata qui si destreggia in realtà tra due termini che è difficile non
identificare. Se non lo fa, è probabilmente per influenza di Guénon.
Da un punto di vista fenomenologico, si tende a
considerare l’esoterismo in due modi: da una parte un segreto interiore
ineffabile, dall’altra una serie di procedure o atteggiamenti atti a renderlo
accessibile.
Ecco, io penso che il secondo modo sia in realtà una
concessione alle smanie drammaturgiche umane, il primo modo essendo l’unico di
reale efficacia spirituale. Il mistero è sempre un dono, mai una cedola da
riscuotere a scadenza. Può capitare che venga “trasmesso” da qualcuno (il
“maestro”)[5],
ma mai “meritato” o “evocato”.
Questo significa semplicemente che l’insieme dei
rituali, cerimonie, tecniche dei vari gruppi esoterici non ha alcuna portata
reale, serve solo ad intrattenere o a rassicurare la mente (cosa a volte utile,
altre no). Ma certo, se non si vuole ammettere questo, ci si impantana in una
marea di distinzioni che rischiano di risultare superflue. Mi spiace dunque di dover
dissentire, anche se solo parzialmente, su questo punto, dall’analisi esposta
nel testo: per mio conto più indago più mi convinco che quasi tutta la parte
“tecnica” dell’esoterismo occidentale è nata in contrapposizione al
cristianesimo, come un deliberato tentativo di sostituire un’antichiesa
anarchica o multigerarchica alla Chiesa una, cattolica e apostolica (ma anche
ortodossa), una teoria pseudosacramentale postcristiana o anticristiana alla
teoria sacramentale cristiana.
Certo, è ben vero che il termine “mistica” è stato
spesso usato anche da tanti cattolici a indicare una zuccherosa sentimentalità
senza valore; questo andrebbe respinto, come in effetti è da sempre, se ben li si
legge, nei testi di ascetica cattolica.
È altresì vero che soprattutto in occidente la società
si è andata profanizzando e la compagine ecclesiastica non ha in ciò fatto
eccezione. Ma non è vero che sia scomparsa la mistica, è scomparsa invece la
venerazione che la costellava nel sentire comune; è scomparso il senso del
sovrannaturale nella Chiesa, la cui “organizzazione” troppo umana troppo ha
ceduto a posizioni laiche e accademiche che hanno espresso giudizi su ciò di
cui non avevano la competenza di giudicare. La condanna della Riforma prima,
del modernismo poi, non sono bastate a contenere la crisi[6].
Tutto ciò corrisponde in realtà per certi aspetti a
quella degenerazione di cui ha scritto Guénon, sennonché lui era in effetti
lontano dal cattolicesimo e non era in grado di percepirne la mistica, neppure
quella in atto all’epoca sua, tant’è che non si interessava ai mistici e reagì
sprezzantemente agli studi di Pouvourville (Matgioi) su Teresa di Lisieux.
In definitiva sembra essere stato Guénon stesso a
tracciare un solco invalicabile tra esoterismo e mistica. Basta accorgersene e
il problema perde in gran parte di consistenza.
8. L’ottavo capitolo parla dell’esoterismo ebraico,
che identifica con la Qabbalàh. Dice che c’è fin troppo materiale in giro; è
vero e non è vero, cioè c’è molta fuffa occultista, ma pare che un numero
incredibile di manoscritti ebraici giacciano impubblicati. La Fata fa risalire
la Qabbalàh alla mistica della Merkavàh, legata a Ezechiele. Bisogna
aggiungere che egualmente antica sembra la mistica di Bereshìth, legata
all’inizio del Genesi. I testi di riferimento sono il Séfer hazzohar e
il Séfer yetziràh.
La presentazione che qui se ne dà mi pare, nel suo
inevitabile schematismo, corretta. Forse basarsi principalmente su Scholem e
Idel può dare qualche problema, perché il primo fu molto contestato dai mequbbalìm
tradizionali, mentre il secondo sembra più uno storico della Qabbalàh che non
un mequbbàl. Ad ogni modo sono grandi studiosi, da paragonare a un
Corbin, a un Eliade, a uno Jung.
Segnalo che una analogia con l’esperienza mistica
della Merkavàh c’è nel Ṛgveda X, 135, 3-4.
Un po’ incauto dire, dopo che si è insistito
soprattutto sulla numerologia ebraica, che “il metodo di interpretazione
cabalistico delle Scritture fu ripreso dai Padri della Chiesa cristiani”. In
realtà si mantenne solo il concetto dei “quattro sensi della Scrittura”. Della
numerologia applicata alla Bibbia in campo cristiano non c’è quasi traccia,
salvo nella questione del 666 apocalittico.
Ad ogni modo La Fata presenta la Qabbalàh come una
“scienza” e parla di “metodo cabalistico”. Pur non potendo dire che sia
sbagliato, io andrei comunque cauto perché una tale formulazione sembra dare
troppo peso all’iniziativa umana, mentre l’uomo deve sostanzialmente
“ricevere”, da cui il termine qabbalàh stesso: “ricezione”.
Ma è proprio l’eccesso di dati dello studio accademico
che porta a “sistematizzare” trascurando il dato spirituale che è in fondo
l’unico fondamentale. Il mequbbàl non sarà mai colui che conosce e segue
tutte le teorie dei “manuali di cabala”, ma colui che si conduce secondo quanto
è stato a lui stesso comunicato da Dio.
In ultimo aggiungerei che forse
sarebbe il caso di dare più spazio all’esoterismo nel Chassidismo, soprattutto
considerando la grande importanza mistica e taumaturgica del fondatore, il Baʻal
Šem-Ṭôv, su cui scrisse cose eccellenti Buber insieme a tanti altri e verso il
cui movimento La Fata stesso dice di nutrire “molta simpatia”. Ma anche
all’esoterismo nella vita di un “buon fariseo”, visto che nel capitolo
successivo si dirà (p. 106) che i farisei erano esoteristi.
9. Il nono capitolo è
sull’esoterismo islamico. Anche qui la presentazione mi sembra corretta, salvo
che ognuno di noi insisterebbe su quelle cose che sente più vicine. Per esempio
io non porrei la “scienza delle lettere” in tanta evidenza, anche se è vero che
tale disciplina è legata direttamente al Corano. Ibn ʻArabī è certo
importantissimo, però io sento più vicini al-Ghazālī o Rūmī. Al-Ḥallāj poi è il
sufi “cristico” per eccellenza. Penso che anche in questo caso La Fata sia
influenzato da Guénon, per cui Ibn ʻArabī era il non plus ultra. Il che
magari è, ma per un occidentale risulta difficile. Sullo sciismo il citato
Sohravardī, reso noto presso di noi da Corbin, è effettivamente affascinante e
i libri di Corbin su di lui e le sue tematiche lo sono altrettanto.
Quanto alla necessità delle
confraternite, La Fata segnala giustamente le contaminazioni politiche o
settarie che hanno caratterizzato diverse loro vicende, mentre altrettanto
correttamente ne segnala il dhikr come pratica cultuale centrale.
10. Il decimo capitolo,
comprensibilmente più lungo degli altri, è dedicato all’esoterismo cristiano.
In primis ci si chiede se esista un tale esoterismo cristiano,
e La Fata risponde di sì. Scartando gnosticismo, sincretismo (Pico della
Mirandola) ed essenismo (a cui si vorrebbe ridurre Cristo stesso), vede in Gesù
stesso l’essenza dell’esoterismo, il Logos di fronte ai logoi.
Aldo dice che la Chiesa avrebbe in
passato limitato questo aspetto, che sarebbe stato “aperto” dal Concilio
Vaticano II. Penso che non sia sbagliato dire questo, anche se in molti casi
questa “apertura” ha portato a formulazioni incaute o addirittura indegne.
Vede poi gli atti con cui Gesù si
conformò, o direttamente o tramite i suoi genitori, agli usi del tempo, come
manifestazioni iniziatiche, il che a me sembra sinceramente superfluo. È ben
vero che lui stesso parlava in un modo a “chi non aveva orecchie da intendere”
e in un altro a chi le aveva, come i suoi discepoli diretti, ma la cosa, se ci
pensiamo, è abbastanza naturale. Si parla alla gente di ciò che essa capisce, a
meno che non si sia dei poveretti che sfoggiano una cultura di second’ordine.
Abbastanza azzeccata, mi pare,
dopo aver citato Jean Borella secondo cui “nel cristianesimo, esoterismo ed
essoterismo sono indissociabili”, la considerazione panunziana dell’essoterismo
cristiano come “esoterismo dell’esoterismo” (p.
110). Le riflessioni sulla massoneria e sull’esoterismo in campo
protestante e ortodosso sono sostanzialmente condivisibili. Quelle sul
neoplatonismo cristiano in epoca moderna riguardano forse più il campo
filosofico.
Anche e soprattutto qui, parlando
del cristianesimo, mi chiedo una volta di più se abbia senso parlare di “esoterismo
cristiano” o anche di “esoterismo” in genere, considerando la degenerazione a
cui è andato incontro l’uso di questo termine. Se non si potrebbe parlare di “Spirito”
e “Grazia” senza aggiungere termini non tradizionali in campo cristiano. È però
vero che per farsi capire dagli altri bisogna mediare tra le rispettive
consuetudini linguistiche…
11. L’undicesimo capitolo è
dedicato all’esoterismo hindu. Ora, i dati che riporta La Fata sono beninteso tutti
storicamente assai corretti, salvo che uno è portato a chiedersi: perché, anche
qui, parlare di esoterismo? Sembra quasi che sia il termine stesso a creare il
problema. Nonché Guénon… Ovvero, Aldo scrive a p. 121: “come il brahmano
era colui che aveva l’incarico di ‘sorvegliare’ la corretta esecuzione del rito
sacrificale, Guénon è stato nei nostri tempi il sorvegliante della purezza
della tradizione esoterica e della sua espressione dottrinale”. Ma questo
ruolo, preteso dai guénoniani, a Guénon chi l’avrebbe conferito? È una follia,
nessuna tradizione può conferire un’investitura del genere. Inoltre non è che i
brāhmaṇa “sorveglino” l’esecuzione dei riti, sono proprio loro stessi i
celebranti, abilitati a farlo per nascita. Quest’ultimo punto è sicuramente una
degenerazione, nel senso che la casta dovrebbe essere espressione delle qualità
interiori, non dipendente dalla sola nascita, ma la degenerazione è antica. La
susseguente ipotesi di Bruno Bérard, che “la dottrina delle caste potrebbe
essere stato un espediente per impedire che un certo sapere arrivasse al
popolo” può essere accettata solo se si comprende che questo sapere era allora
già per forza corrotto, perché nulla può fermare la trasmissione del “dono”
divino a chi ne è ritenuto degno. E il giudice in queste cose è solo Dio, non
un qualunque prete o capo religioso.
Mi pare esserci, in ragione del
termine “esoterismo” e del preteso ruolo “intermediario” di Guénon, una
confusione tra i “mezzi utili” delle varie scuole e il segreto spirituale a cui
esse dovrebbero, tutte, tendere. È certo che gli hindu stessi hanno spesso
ceduto alle fisime magiche, sia espresse nella loro tradizione sia, negli
ultimi secoli, sincretizzate con l’occultismo teosofico; ma questo non ci
autorizza a fraintendere limitando il cuore della tradizione hindu a queste
cose.
È certo che vi fu una perdita;
all’arrivo degli inglesi in India la situazione dei Veda era pressappoco
la stessa dell’Avesta in Iran: i rappresentanti tradizionali non ci
capivano più nulla. Proprio grazie agli europei, sia per l’importanza dei loro
studi sia in contrasto ad essi, si riscoprì il significato delle antiche
tradizioni, spesso da parte di personaggi fieramente nazionalisti come Bal
Gangadhar Tilak e Aurobindo. Senza peraltro che la riscoperta andasse fino in
fondo, perché molte cose restano oscure.
Contemporaneamente alla decadenza
nella conoscenza dei Veda si era affermato in maniera estremamente
invasiva il sistema delle caste, che da quattro erano diventate centinaia o
migliaia, cosa che purtroppo tuttora irrigidisce la società indiana in una
marea di vincoli inutili. Gandhi lo aveva capito ed aveva cercato di rimediare
ma fu ucciso da un “tradizionalista”.
In tal modo la situazione risulta
enormemente confusa. A fronte dei brāhmaṇa più tradizionalisti che forse
tuttora reputano la semplice uscita dall’India una causa di impurità, vi sono
stati e vi sono maestri spirituali riconosciuti come tali che non solo di cose
del genere se ne infischiano ma che in alcuni casi spingono i propri discepoli
a esporre il Sanātanadharma anche in Occidente. Così fu per esempio nel
caso di Śrī Rāmakṛṣṇa, di casta bramina e considerato dai suoi discepoli avatār
di Rāma e di Kṛṣṇa, che mandò in giro per il mondo il suo principale discepolo
Vivekānanda – kṣatriya dalla natura ardente e grandissimo santo a sua
volta, checché ne pensasse Guénon. La stessa apertura caratterizzò peraltro
anche Ramaṇa Maharṣi e si noti che l’“illuminazione” sia sua che di Rāmakṛṣṇa
precedette ogni loro “ricollegamento iniziatico” (per dirla alla guénoniana).
D’altra parte vi è una quantità
di “maestri spirituali” di ogni casta legati alla bhakti o allo yoga,
che spesso girano per il mondo e di cui è talora più talora meno difficile
capire quanto siano seri. In relazione al Tantra poi si sono diffuse in
Occidente interpretazioni che non stanno né in cielo né in terra, come se esso
consistesse semplicemente in magia e pratiche sessuali. Le idee sono altresì
confuse sui rapporti tra Tantra, Yoga e Haṭhayoga.
“Tantra” era per Guénon stesso
una sorta di “quinto Veda”, ma è ben vero che sotto questo nome di Tantra si
presentano libri di natura assai diversa. Tutti sono comunque fatti per gli
hindu, è ben difficile per un occidentale penetrare nella loro foresta
simbolica, nel loro “linguaggio crepuscolare” (sāndhyābhāṣā) e adeguarsi
alle loro pretese ascetiche (anche nei rari casi in cui nei Tantra hindu si
contempli un’effettiva attività sessuale, con la moglie perlopiù, questa è
tutt’altro che “libera” ma assolutamente ritualizzata, conforme alle
indicazioni dell’antica Bṛhadāraṇyakopaniṣad).
“Yoga” viceversa è di per sé in
apparenza la cosa più semplice che ci sia; è l’unione con Dio, e per
immergervisi, conforme ai più antichi testi, basta assumere una postura (più
che altro interiore) che permetta di distogliersi dalle distrazioni esterne e
penetrare nella Sua considerazione.
“Haṭhayoga”, ovvero lo “yoga del
sole e della luna” è una versione alchemica dello yoga che è stata spesso scambiata
con la mera ginnastica e che appassiona gli occultisti perché promette quelle siddhi,
cioè quei “poteri” che formalmente tutti sono impegnati a rifiutare, ma che
vien facile rifiutare soprattutto quando non si hanno.
Beninteso i grandi maestri come
Rāmakṛṣṇa o Ramaṇa Maharṣi, quand’anche nel loro cammino li abbiano conosciuti,
non hanno mai prescritto ad alcuno di seguire le pratiche tantriche o lo Haṭhayoga.
Quel che importa nel sentiero vedico come su quello cabalistico della Merkavàh, è agevolare la nascita in sé di un
“veicolo” che porti, sovrannaturalmente cosciente, l’anima al cielo all’atto
della morte.
La Fata insiste giustamente sull’importanza del
“sacrificio”. Questo è effettivamente centrale nel Veda come nel
cristianesimo, ed è egualmente difficile penetrarne in ambedue il senso. Cioè
tante cose se ne sono dette, ma farne proprio il senso trasmutatorio sembra
tutt’altro che semplice. È qualcosa di estremamente arcaico, che pare affondare
nelle radici atemporali della storia, un mistero di condivisione che può
probabilmente chiarirsi all’uomo solo per divina concessione.
Quanto a Upaniṣad, Vedānta, Yoga
e Śaṅkara, come dovrebbe ormai apparire chiaro Aldo segue la versione di Guénon,
che ha pregi e difetti. Dal mio punto di vista definire più esoterico il Vedānta
dello Yoga non ha alcun senso, ma questo dipende dal differente
significato che si conferisce ai termini. Inoltre ci si dimentica sempre di
ricordare che il testo forse oggi più rappresentativo dello Hinduismo, ovvero
la Bhagavadgītā, non è espressione dell’Advaitavedānta di Śaṅkara,
bensì del Viśiṣtādvaitavedānta[7]
di Rāmānuja.
12. Il dodicesimo capitolo tratta dell’esoterismo
buddhista. Qui il discorso è abbastanza generale, vengono dette cose comunque corrette
sia sul Buddha che sulle pratiche delle varie scuole. Sul rapporto tra
buddhismo e hinduismo, si fa cenno alla interpretazione inizialmente negativa
di Guénon, poi parzialmente corretta su influenza di Coomaraswamy.
Si fa accenno anche all’opinione di Radhakrishnan che
non vedeva gran differenza tra il fine delle Upaniṣad e quello del
buddhismo, che in effetti si differenziarono non tanto nella pratica meditativa
ma più che altro perché i buddhisti rigettarono i Veda e i sacrifici.
In realtà ad ogni modo qui l’uso del termine
“esoterismo” rischia di essere particolarmente superfluo, dato che il buddhismo
è essenzialmente tradizione di monaci, di cui solo una versione edulcorata sembra
venir trasmessa alle masse. Questo vale per tutte le forme di buddhismo, dal Theravāda
al Mahāyāna al Vajrayāna.
A proposito di quest’ultimo, La Fata e Bérard danno
forse un po’ troppo credito a certe voci su loro aspetti “oscuri”, che
probabilmente sono fraintendimenti relativi alla commistione del buddhismo
tibetano con lo sciamanico Bön o con la magia nera (vedi il caso di Milarepa). Questi
aspetti oscuri sono stati sopravvalutati in Occidente, prima dalla Blavatsky e
dalla David-Néel, poi da studiosi di retroterra culturale cristiano che
prendevano gli “spiriti protettori” per diavoli e infine da qualche buontempone
occultista che voleva sembrare particolarmente affascinante o da qualche
scrittore del fantastico (nonché esoterista) come Meyrink. Aggiungiamoci le
pratiche tantriche col sesso (che peraltro, a differenza di talune analoghe hindu,
non prevedono l’emissione del seme) e il misterioso insegnamento apocalittico
del Kālacakratantra, di cui è maestro principale il Panchen Lama
(sovraordinato spiritualmente al Dalai Lama[8]),
anche se ultimamente si parla solo delle iniziazioni impartite dal Dalai Lama
(e qui ci sarebbero delle belle considerazioni da fare)[9].
13. Il tredicesimo capitolo tratta l’esoterismo
taoista[10].
Le spiegazioni sono corrette ed essenziali, con riferimenti culturali
interessanti agli studiosi occidentali di maggiore interesse. Farei solo
presente che forse non è il caso di distinguere così nettamente taoismo,
confucianesimo e religione popolare cinese. In realtà paiono tutte
manifestazioni perfettamente concordabili dell’unica antica tradizione cinese
che venerava il Cielo. Non c’è nulla di tanto taoista, per esempio, come lo Yijing
eppure appartiene al canone confuciano ed è stato commentato tanto da Confucio
quanto da alchimisti taoisti. Sia il taoismo che il confucianesimo assunsero
poi in sé e ritualizzarono una quantità di tradizioni popolari.
Il taoismo in realtà passa per particolarmente esoterico
perché si hanno presenti le tradizioni sugli “Immortali”, le varie tradizioni
di famiglia passate di padre in figlio (Michael Saso parlava della “magia del
tuono”), l’alchimia interna (correlata alle tradizioni alchemiche dei siddhar
del Tamil Nadu soprattutto tramite il siddha Bogar). Perché è più
“spettacolare” del confucianesimo insomma, non solo per avere prodotto
meraviglie di sintesi come il Daodejing. Ma se uno approfondisce scopre
a mio avviso, comune a tutto il mondo cinese, una visione organica del mondo
basata sul senso dell’equilibrio e su una strategia spirituale[11]
quasi invincibile. Non per nulla la loro civiltà dura da almeno tremila anni.
14. Il quattordicesimo capitolo parla degli
“esoterismi moderni”. È un po’ come sparare sulla Croce Rossa… La Fata dice
parecchie cose interessanti sul New Age, sull’occultismo, sul fanatismo
anticattolico. Parla persino degli ufomani. Lui e Bérard rilevano poi come il
mito dei “Superiori Incogniti” che tanto spazio ha ricevuto in innumerevoli
gruppi pseudoesoterici sia in realtà una scimmiottatura della “comunione dei
santi”.
“Il punto è – dice La Fata – se esistono individui
giunti alle più alte vette della realizzazione spirituale, dotati magari di
longevità o addirittura immortali, come l’Ebreo Errante o il Profeta Elia, san
Giovanni, ‘il discepolo che non sarebbe mai morto’ o il Conte di Saint-Germain
o Fulcanelli. Guénon ne Il Re del Mondo citando Ibn ʻArabī parla di ‘gerarchia dei
santi’ e di ‘custodi del mondo’. In fondo non è un’idea molto diversa da quella
che noi cristiani chiamiamo ‘communio sanctorum’ (comunione dei santi)”.
Tuttavia, seguendo Guénon, pur nel degrado generale Aldo
tende a salvare il ruolo della massoneria, anche se non accessibile ai
cattolici per via della scomunica del 1738, ipotizzando che in qualche parte di
essa si celino ancora delle vere “trasmissioni iniziatiche”. Su questa base
elenca una serie di riferimenti culturali più o meno affini a Guénon, quasi tutti
ottimi studiosi, ma nessuno dei quali, mi pare, si può a cuor leggero ritenere
un “santo” da cui aspettarsi un profitto spirituale “da bocca a orecchio”.
15. Il quindicesimo capitolo è su “esoterismo e
metafisica”. Dice Aldo (p. 167): “Semplificando direi che la metafisica è la
pienezza della Verità, quindi il fine, mentre l’esoterismo è una via
percorrendo la quale è possibile giungervi”. Dopodiché Bruno Bérard chiede: “se
l’intelletto puro è l’organo della metafisica, qual è quello dell’intelletto?”
e lui risponde che, d’accordo con Corbin, è l’immaginazione creatrice, ma “che
non bisogna confondere l’immaginativo con l’immaginario”.
Questa è una bella risposta, che evidentemente
definisce un preciso settore della psiche o della mente in cui qualcosa va
immaginativamente costruito secondo certe regole tradizionali, conformandosi
alle necessità dell’intelletto puro.
Si parla poi della cosmologia esoterica come di una
realtà che comprende sia il visibile che l’invisibile. Mezzo a raggiungere
tutto ciò è il “Simbolo come apparizione ed epifania del Vero spirituale”.
Naturalmente bisogna riuscirci, e a questo punto forse sarebbe importante far
presente la necessità di una disposizione etica conforme. Dopodiché l’unione di
metafisica ed esoterismo dovrebbe mettere in condizione di “morire prima di
morire”, di “morire a se stesso” (uccidere la nafs, direbbero i sufi),
di condurre una “catabasi” (discesa agli inferi) che prelude all’“anabasi”
(salita al cielo). Vi sarebbe poi il caso di coloro che, scesi, non possono
salire, e sarebbe ciò che identifica i “controiniziati”, secondo la
terminologia di Guénon, o più semplicemente – aggiungerei io – i “dannati”, se
s’intende che costoro siano tali proprio perché “scesi” con una disposizione
etica non conforme. La Fata e Bérard sono convinti che una prospettiva
metafisica salvi da questo infausto destino, e si può anche accettare, considerando
che una comprensione metafisica senza disposizione etica conforme è a sua volta
impossibile.
Quanto alla metafisica definita come qualcosa che si
pone aldilà di qualsiasi religione in quanto religio perennis, sono
d’accordo fino a un certo punto, nel senso che tale religio perennis non
mi pare tanto una visione a sé quanto una modalità di visione che
informa ogni religione qualora la si sia afferrata con l’occhio della
metafisica, ovvero della vera Gnosi. Intendo che non esiste una super-religione,
ma uno sguardo svincolato dalle forme in grado di riconoscere il vero in
ciascuna di esse. Ma penso che in definitiva questa sia, espressa in altre
parole, l’idea stessa dei due autori di questo libro.
16. Il sedicesimo capitolo s’intitola “Esoterismo e
«umiltà cognitiva»” e fa presenti tutta una serie di raccomandazioni
estremamente utili. Intanto ricorda che “La verità comincia ad apparire solo
quando l’uomo impara a vedere le cose dall’alto o, come suggeriva Spinoza, ‘sub
specie aeternitatis’”. Poi fa presente il rischio dell’orgoglio, a cui cedono
tutti i falsi esoteristi ma anche i cattolici troppo fermi sulle proprie
posizioni, che accusano di hybris anche gli “esoteristi veri”. La
coscienza di tutto ciò rende inevitabile l’acquisizione di una certa umiltà
cognitiva e di una certa prudenza. L’arroganza non può coesistere con
l’esoterismo. Qui La Fata inserisce quella che a me sembra una sopravvalutazione
di Guénon come “custode dell’ortodossia”, su cui, come ho già espresso in
precedenza, non sono affatto d’accordo, anche se concordo che ha contribuito a
chiarire un sacco di questioni, nel mentre tuttavia che creava lui stesso dei
problemi, soprattutto riguardo al cristianesimo.
Aldo parla poi del carattere di alcuni autori che
furono affini a Guénon: di Reghini, intemperante verso il cristianesimo, di
Titus Burckhardt e di Coomaraswamy, eccellenti ed anche caratterialmente più
equilibrati. Erano ad ogni modo tutt’e tre ottimi studiosi. Potrebbe poi citare
una folla di guénoniani arroganti e pretenziosi (ce ne sono fin troppi) ma
caritatevolmente non lo fa…
17. L’ultimo capitolo s’intitola “Che cos’è
l’esoterismo”. Si traggono le conclusioni, si riepiloga. Si fa presente che a
una domanda del genere sarebbe meglio rispondere col silenzio.
Ad ogni modo, parlare di esoterismo avrebbe il
vantaggio o il fine “di persuadere dell’esistenza di una realtà nascosta,
celata alla nostra vista e ai nostri sensi o anche ignorata perché dissimulata
o volutamente occultata” (p. 188). Quanto all’“esoterologia”, “i migliori
esoterologi sono quelli che prendono molto sul serio l’esoterismo e che sono
animati, per così dire, da uno spirito di fervore quasi religioso” (p. 189). A questo proposito cita Jung e, in qualche modo da lui dipendenti,
Kerényi, Camp-bell, Hillman, Eliade. Poi cita Evola ed Elémire Zolla, e
ovviamente, sopra tutti, Guénon.
Bérard lo interroga poi sugli esoterologi attuali e La
Fata fa i nomi dei francesi Jean-Pierre Brach e Jean-Pierre Laurant, nonché
dell’austriaco Thomas Hakl. Interrogato sugli italiani mi fa l’onore – e lo ringrazio
di cuore – di fare il mio nome insieme a quelli più noti ed eccellenti di
Alessandro Grossato, Nuccio D’Anna e Claudio Lanzi. Parla poi di valenti
studiosi che ha incontrato ma che non hanno mai scritto nulla.
Ancora interrogato sulla definizione più accattivante
di esoterismo per l’uomo comune, La Fata ne parla come di “quella Via che lo
famigliarizzerà con l’invisibile o per meglio dire con l’Anima”. La perfezione
in questa via è comunque di fatto riservata a pochi.
Bérard ricorda la tesi secondo cui l’esoterismo di
Guénon sarebbe un esoterismo “sacerdotale” mentre quello per esempio di Evola
sarebbe un esoterismo “guerriero”[12].
La Fata conviene che l’esoterismo è “una realtà plurale” (p.193), anche se
attualmente in grande sofferenza per il predominio di visioni del mondo
materialistiche o spiritualmente irrealistiche.
Bérard dice a questo proposito che “La dottrina della
risurrezione della carne, così come la conosciamo nel cristianesimo, risolve
per integrazione la separazione artificiale tra Spirito e materia” (p. 194),
sul che La Fata conviene, notando però – quanto giustamente – che a volte sono
proprio i cristiani a dimenticarsi di tale dottrina.
Si termina parlando della possibilità che l’esoterismo
possa mediare tra scienza e religione. Per come stanno le cose, Aldo La Fata ci
crede poco, e neppure io ne sono convinto.
Il libro riporta ancora un “albero sefirotico”, con
una breve descrizione tratta da Leo Schaya e una postfazione di Jean-Pierre
Brach che spiega le ragioni dell’opera e ne commenta alcuni aspetti.
Tratta a suo modo della possibilità storica di un
esoterismo cristiano senza tuttavia “nascondere la quasi totale assenza di
prove documentali che permettano di stabilire l’effettiva continuità storica di
tali tradizioni né l’esatta natura delle tecniche o dei mezzi utilizzati in
questo contesto” (p. 200).
A riguardo dell’importanza della dottrina
dell’“intelletto trascendente” parla poi dell’importanza “di alcuni teologi
della diaspora russa ortodossa, in particolare francesi” (ibidem).
Accenna quindi alla necessità della trasformazione spirituale, comune alle
varie tradizioni, diffondendosi sulla nascita in ambito pietista nel XVII
secolo di alcune dottrine di alchimia interiore, mentre dice che l’occultismo
del XIX secolo si è mostrato, come dire, assai “creativo socialmente”,
sviluppando tematiche nuove e contrapponendosi alle tradizioni
istituzionalizzate.
Termina affermando che “l’esoterismo sembra mobilitare
anzitutto una molteplicità di apprensioni molto personali e raffinate,
corrispondenti ad altrettanti orientamenti propri della vita spirituale” (p.
202), col che, perlomeno per quanto riguarda i casi migliori, non posso che essere
d’accordo.
Nel complesso, nonostante i “distinguo” che qua e là
ho fatto, non posso che considerare estremamente interessante questo libro, sia
per la moderazione e la competenza con cui i vari temi sono stati trattati, sia
per l’attenzione dimostrata verso le tradizioni consolidate, riguardo alle
quali si sono evitate affermazioni incaute. Cosa non strana del resto,
considerando l’estremo equilibrio che connota i lavori e la personalità di Aldo
La Fata, che conosco abbastanza bene, ma penso anche di Bruno Bérard, con cui
ho minore consuetudine.
I miei stessi dissensi sono del resto stati espressi
con l’intento di “integrare” e “proporre”, non certo di “avversare”. Diciamo
che io, rispetto ad Aldo, sono meno amante del termine “esoterismo” e più critico
su Guénon, di cui riconosco i meriti ma che non vedo come garante di
ortodossia. Per il resto, il modo di Aldo di trattare di queste cose, libero ed
euristico, mi trova assolutamente concorde.
[1]
Qui (p. 9) Aldo ha avuto la cortesia di citarmi elogiativamente, del che lo
ringrazio. Ho in effetti trattato la questione in questi termini nel mio
articolo “Una strana impressione”, http://www.superzeko.net/doc_dariochioli_saggistica/DarioChioliQuestaStranaImpressione.pdf.
[2]
Cfr. la mia recensione del suo libro su Silvano Panunzio: http://www.superzeko.net/doc_dariochioli_saggistica/DarioChioliRecensioneAlNuovoLibroDiAldoLaFataSuSilvanoPanunzio.pdf
[3] Aldo La Fata mi segnala un refuso,
ad uso di chi leggendo il libro legga anche questa recensione: alla prima riga
di p. 59 “Giovanni l’evangelista” va cambiato in “Giovanni Battista”.
[4] Cfr. su questo libro la mia recensione:
http://www.superzeko.net/doc_dariochioli_saggistica/DarioChioliRecensioneAlNuovoLibroDiAldoLaFataSuSilvanoPanunzio.pdf.
[5] Ci possono essere a questo
proposito delle modalità di trasmissione estremamente particolari, come quelle
che per contatto ingenerano un’immediata esperienza estatica; mi viene in mente
quel che ne scrisse Abhinavagupta nel Tantrāloka o quel che si racconta
di san Serafino di Sarov nel Colloquio con Motovilov. Ma la casistica in
merito è ben più vasta.
[6] Incidentalmente: reputo lo
sviluppo della mariologia cattolica negli ultimi secoli come una via di
salvezza, ovvero come un vero e proprio esorcismo rispetto alle ispirazioni
diaboliche sottostanti alla comune decadenza. La mariologia dialoga infatti in
modo non mentale con un aspetto interiore “materno” dell’essere umano che è
aldilà della portata dell’inganno.
[7]
“Non dualismo nella distinzione”, mantiene il rapporto tra l’anima umana e Dio.
[8] Il Panchen Lama è emanazione (tulku)
del Buddha Amitābha, mentre il Dalai Lama è “solo” emanazione del Bodhisattva
Avalokiteśvara. Essi hanno peraltro il compito di riconoscere ognuno i tulku
dell’altro.
[9] Relativamente al Kālacakra
Jurij Nikolaevič Roerich pubblicò nel 1949 The Blue Annals, un bel
volumone che potrebbe venire – forse – utile praticamente a un monaco cartografo
e linguista tibetano particolarmente dotto ed esperto ma difficilmente a
qualcun altro, e che costituisce la principale fonte relativa alle tradizioni
su Śambhala, donde probabilmente coloro su cui si basò Guénon per il suo
Re del mondo trassero l’idea delle varie Asgartha (Jacolliot), Agarttha
(Saint-Yves d’Alveydre), Agartthâ (Sédir) e Agharti
(Ossendowski). Jacolliot probabilmente riciclò leggende di Śambhala
collegandole all’Ásgarðr norrena, Saint-Yves prese da lui, Sédir e
Ossendowski da Saint-Yves. E Guénon abboccò senza verificare…
[10] Segnalo per una futura riedizione
che a p. 146 purtroppo la prima frase è risultata incompleta. Aldo La Fata mi
comunica che essa va completata così: “qualcosa che fa essere le cose ed è allo
stesso tempo un modo d’essere delle cose”.
[11] Non solo spirituale; ha anche prodotto il capolavoro
strategico militare sull’arte della guerra di Sunzi.
[12] Per quanto riguarda Guénon la mia
opinione è parzialmente diversa. Perlomeno Il Re del Mondo mi sembra
un’opera dal carattere assolutamente kṣatriya, da accostarsi forse ai romanzi
del Graal. Così pure il suo attivismo iniziale nei vari gruppi
occultistici.
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