21/07/24

Bruno Bérard & Aldo La Fata, Che cos’è l’esoterismo tra verità e contraffazioni. La recensione di Dario Chioli

 



Questo libro risulta davvero interessante per chi ancora ha mantenuto l’abitudine di ragionare e vuole addentrarsi con qualche speranza di comprendere nel labirinto esoterico, distinguendolo da quello che potremmo chiamare il “circo esoterico”.

Aldo La Fata, intervistato da Bruno Bérard, riesce ad essere ammirevolmente semplice, dando in breve spazio gli elementi fondamentali per accostarsi alle più diverse tradizioni nei loro aspetti esoterici.

In queste cose vale sempre la pena andar cauti, e non vi sono due esoteristi o presunti tali che usino i termini nello stesso modo, per cui bisogna stare molto attenti a leggere senza fantasticare troppo di quello che non c’è scritto e magari vorremmo trovarvi…

Il testo si dipana un po’ sotto il riflesso, non pedissequo, della distinzione imposta da René Guénon tra “esoterismo” ed “essoterismo” (o “exoterismo”). Questa distinzione viene in effetti comoda per tanti aspetti, anche se non sempre funziona e anche se soprattutto da molti viene usata assai male (anche da Guénon stesso rispetto al cristianesimo, per esempio).

1. Nell’“Esergo” e nel primo capitolo Bérard e La Fata cercano di delimitare il campo, escludendo dal campo dell’esoterismo il variegatissimo bric-à-brac prima dell’occultismo e poi delle varie espressioni new age, distinguendo dunque l’esoterismo “vero” da quella specie di sensazionalismo fantastico che per molti che esoteristi si definiscono non è più che una specie di “parco giochi per la mente”[1].

Aldo La Fata oscilla, come del resto per ragioni pratiche oscillo anch’io, tra una definizione “ristretta” di esoterismo come esperienza interiore di cui non è tracciabile la storia perché infine dipende da una grazia celeste e non da un seguito di visibili vicende, e una definizione “larga” che vi include le varie pratiche mistico-ascetiche e in qualche modo l’esoterologia, ovvero lo studio delle manifestazioni esoteriche identificabili. Giustamente fa presente che si è un buon esoterologo solo se si è anche esoterista, come si è un buon teologo solo se si è anche credente (p. 12).

In ultimo, in risposta a una domanda di Bérard, La Fata chiarisce che l’esoterismo non è assimilabile alla filosofia, non dipendendo dalla mente ma dalla “luce dell’intelletto” che ha origini trascendenti.

2. Nel secondo capitolo si tratta dei rapporti tra esoterismo e religione.

La Fata accenna ai rischi del voler troppo restringere il campo a dottrine e teorie: “Teorie e dottrine possono essere un punto di partenza, ma non sono la Via. Senza contare che non è di una sola Via che si tratta” (p. 17). Come esempi ne porta due molto diversi, quello di Umberto Eco, che nel Pendolo di Foucault finisce per far sembrare una buffonata ogni approccio esoterico, e quello di Antoine Faivre che avrebbe adattato taluni schemi da lui prediletti ad analizzare l’esoterismo anche laddove tali schemi non si adattavano. Tra l’altro io ho letto qualcosa di Faivre e non posso non convenire che il suo approccio mi è sembrato troppo classificatorio. In questi casi la mente dello studioso assume un predominio che non gli spetta, sostituendosi all’intuizione intellettuale. È peraltro un rischio difficilmente evitabile quando si vuol parlare di tutto.

La Fata dà ragione almeno in parte a Guénon quando differenzia esoterismo e religione, in particolare trattando di ebraismo ed islamismo, dove la Qabbalàh e il Sufismo sembrano mondi a sé rispetto alla religione praticata dai credenti. Capisco il suo punto di vista ma farei presente che vi sono ciò nonostante molte realtà intermedie, per esempio il Chassidismo e che d’altra parte, come tanti esoteristi hanno apprezzato nel cristianesimo l’Imitatio Christi, così non c’è ragione di non vedere l’analogo nell’imitazione di Muḥammad ispirata dagli Ḥadīth. L’insistenza su una netta distinzione tra exoterismo ed esoterismo è caratteristica dei guénoniani, ma assomiglia un po’ al letto di Procuste…

D’altronde La Fata, mentre accetta la distinzione di Guénon, ha ben chiaro che la Grazia è l’analogo (o direi io, la stessa cosa) dell’influenza spirituale di cui si parla nel Sufismo o nella Qabbalàh. Sembra che la distinzione sia più che altro questione di vocabolario, diverso essendo quello che usano i religiosi e quello che usano coloro che si ritengono esoteristi. Non sono tuttavia persuaso che la soluzione possa consistere, come con qualche esitazione suggerisce La Fata, in un “dizionario tecnico” dei termini esoterici; temo – e gli studi che vado in questi ultimi mesi conducendo sulla massoneria me lo confermano – che la contrapposizione abbia ragioni eminentemente “polemiche”, derivando da scontri politici ed ideologici che non furono e non sono né religiosi né esoterici. Del resto dal mio punto di vista un religioso non esoterico è solo un conformista o un ipocrita, e un esoterista non religioso è solo un illuso o un mistificatore.

3. Il terzo capitolo verte sulla “biografia esoterica” di Aldo, che ho letto con curiosità anche un po’ pettegola se vogliamo, visto che lui è generalmente assai riservato. Parla della sua scoperta da ragazzo di Julius Evola, poi di Guénon, poi del suo incontro con un kremmerziano che ebbe su di lui conseguenze ambivalenti, fino alla scoperta e all’incontro con Silvano Panunzio (di cui Aldo La Fata è esecutore testamentario ed erede spirituale)[2] nonché alla partecipazione alla sua “Alleanza Trascendente Michele Arcangelo” (ATMA), piccolo gruppo di persone che s’ispirava un po’ allo spirito degli antichi Cavalieri del medioevo.

4. Il quarto capitolo è sulla storia dell’esoterismo. Giustamente Aldo La Fata parte con un “distinguo” sacrosanto: “l’esoterismo come entità storica non esiste e non è mai esistito, ma una storia delle sue tante espressioni, formulazioni, attualizzazioni e adattamenti è certo possibile”. E nel seguito chiarisce ancora: “Circa l’esoterismo possiamo parlare senz’altro di correnti o meglio di fiumi carsici da cui ogni tanto zampillano sorgenti a destra e a manca. È della ‘storia’ di queste sorgenti d’acqua che possiamo parlare e non del fiume che le ha originate” (p. 38).

Quanto a questo “fiume”, a domanda di Bérard, La Fata risponde magnificamente, citando l’Apocalisse, che esso scaturisce “dal trono di Dio e dell’Agnello” (p. 38).

La distinzione che viene poi portata avanti tra “padri maggiori” e “padri minori” dell’esoterismo è più che altro un “mezzo utile”. I maggiori, storici o leggendari che siano, sarebbero Ermete, Pitagora, Mosè, Manu, Orfeo. A loro vengono collegate le “religioni dei misteri”, e in questo senso il termine “esoterico” viene usato a significare “insegnamento riservato, non noto ai non iniziati”. Si parla poi dei “padri minori”, di cui La Fata afferma si potrebbe tracciare un lungo elenco che va da Platone a Guénon. Essi costituirebbero una sorta di “patristica esoterica” analoga alla patristica dei Padri della Chiesa.

Si parla poi della “geografia” dell’esoterismo, di quelli che sembrano essere stati i suoi maggiori centri di diffusione. Si distingue infine giustamente l’esoterismo dallo gnosticismo, che sarebbe sotto il segno di “Polemos” rispetto alla gnosi della tradizione cristiana universale, e si tratta dei rapporti con le antiche scuole filosofiche come quella di Alessandria, che La Fata non vede come propriamente esoteriche.

5. Il quinto capitolo[3] intitolato “Esoterismi ed esoteristi” ripercorre più dettagliatamente quanto già accennato precedentemente. La Fata identifica l’esoterismo con la “ricerca della verità”, poi dà delle notevoli spiegazioni dei nomi dei tre grandi “padri” greci, Orfeo, Pitagora ed Ermete, spiegazioni che gettano ulteriore luce sulla natura dell’esoterismo. Parla poi di come nei “misteri” fossero ammesse anche le donne, escluse dal suo seno ancor oggi dalla massoneria “ortodossa”. Consente all’affermazione di Bérard che il falso esoterismo si distingua, in quanto “prometeico”, dal vero, che non ruba il “fuoco degli dèi”, ma lo ottiene in dono (p. 51).

La Fata poi afferma con convinzione la natura esoterica dell’opera di Dante nonché – e per me ancor più è segno di grande chiarezza interiore – dell’insegnamento di Socrate. Non per nulla Socrate fu maestro di Platone; era iniziato ai misteri ma, più importante ancora, parlava col proprio daímon.

Un aspetto esoterico lo riconosce anche in Aristotele, su cui peraltro le opinioni sono variabili e su cui mi pare che anche Bérard parzialmente dissenta (p. 59).

Si parla poi delle scuole antiche, come quelle neoplatoniche, delle loro propaggini (almeno parziali) nel neoplatonismo cristiano antico, medievale e rinascimentale: La Fata cita anche alcuni filosofi su cui forse avrei qualche dubbio, per giungere poi alla scuola “tradizionalista” di Guénon, Coomaraswamy eccetera, a cui lui si è nel tempo notevolmente ispirato.

Sostiene che Guénon ha due anime: lo “scolarca” e l’iniziato “muto”, e che il secondo lo avrebbero capito in pochi, i più attenendosi al primo e radicalizzandone, a volte malamente, le categorie e le distinzioni (pp. 58-59).

6. Nel sesto capitolo Bérard chiede a La Fata di descrivere il suo percorso di ricerca non più in relazione alle persone incontrate ma in base ai “libri chiave” studiati, questo anche in relazione al volume Nella luce dei libri. Percorsi di lettura di un “cavaliere errante” pubblicato da Aldo nel 2022[4].

Per me è un capitolo molto curioso perché mi viene da paragonare i riferimenti di Aldo con quelli che citerei io. Guénon l’ho letto tutto più volte e mi ha molto influenzato per un certo periodo, di Evola ho apprezzato alcune opere e particolarmente l’Introduzione alla Magia da lui curata, che lessi mentre ero militare, Silvano Panunzio l’ho scoperto tardivamente mercé Aldo stesso che me l’ha fatto conoscere. Paolo Virio lo conosco solo di nome ma da quel che ne ho sentito mi attira poco, non sono molto convinto del suo “tantrismo cristiano”, ché poi il tantrismo in India non è affatto solo una questione di sesso.

Quanto a Kremmerz, lessi i tre volumi della Scienza dei Magi che cita La Fata (più il quarto volume di commento scritto da Danilo Ugo Cisaria), mi piacque moderatamente più che altro perché Kremmerz era un buono scrittore, ma non ne fui mai troppo convinto. Meyrink lo lessi e rilessi non so quante volte, perché mi attirava sia come letteratura fantastica sia per i suoi risvolti esoterici, e poi era il periodo in cui mi leggevo le cose del suo curatore italiano Evola.

Differentemente da Aldo, lessi e rilessi da cima a fondo (anche in senso cronologico) tutto Castaneda, ne trassi molte suggestioni e mi fu utile, anche se non ci volle molto perché mi accorgessi che si trattava quasi tutto di invenzione (avevo sperato che non lo fosse). Ma era un’invenzione di genio (solo le ultime tre opere uscite sapevano decisamente di mistificazione). Dante, Goethe e Shakespeare, che pure apprezzo assai, non li potrei citare tra le mie fonti principali, mentre condivido l’elogio di Aldo ai romanzi di Mircea Eliade, alcuni dei quali sono dei veri capolavori.

Mancano in questo elenco alcuni riferimenti che per me, poeta e orientalista, furono fondamentali: Juan de la Cruz, di cui tradussi e pubblicai tutta l’opera poetica, Teresa de Ávila, Rāmakṛṣṇa, Tagore, Rūmī, Buber, Vasugupta (ai suoi Śivasūtra dedicai trent’anni), Gurdjieff, Whitman, García Lorca, Hesse, Dostoevskij e Tolstoj, e tanti tanti altri… Ma la storia di ciascuno di noi è diversa…

7. Il settimo capitolo è su “esoterismo e mistica”. La Fata qui si destreggia in realtà tra due termini che è difficile non identificare. Se non lo fa, è probabilmente per influenza di Guénon.

Da un punto di vista fenomenologico, si tende a considerare l’esoterismo in due modi: da una parte un segreto interiore ineffabile, dall’altra una serie di procedure o atteggiamenti atti a renderlo accessibile.

Ecco, io penso che il secondo modo sia in realtà una concessione alle smanie drammaturgiche umane, il primo modo essendo l’unico di reale efficacia spirituale. Il mistero è sempre un dono, mai una cedola da riscuotere a scadenza. Può capitare che venga “trasmesso” da qualcuno (il “maestro”)[5], ma mai “meritato” o “evocato”.

Questo significa semplicemente che l’insieme dei rituali, cerimonie, tecniche dei vari gruppi esoterici non ha alcuna portata reale, serve solo ad intrattenere o a rassicurare la mente (cosa a volte utile, altre no). Ma certo, se non si vuole ammettere questo, ci si impantana in una marea di distinzioni che rischiano di risultare superflue. Mi spiace dunque di dover dissentire, anche se solo parzialmente, su questo punto, dall’analisi esposta nel testo: per mio conto più indago più mi convinco che quasi tutta la parte “tecnica” dell’esoterismo occidentale è nata in contrapposizione al cristianesimo, come un deliberato tentativo di sostituire un’antichiesa anarchica o multigerarchica alla Chiesa una, cattolica e apostolica (ma anche ortodossa), una teoria pseudosacramentale postcristiana o anticristiana alla teoria sacramentale cristiana.

Certo, è ben vero che il termine “mistica” è stato spesso usato anche da tanti cattolici a indicare una zuccherosa sentimentalità senza valore; questo andrebbe respinto, come in effetti è da sempre, se ben li si legge, nei testi di ascetica cattolica.

È altresì vero che soprattutto in occidente la società si è andata profanizzando e la compagine ecclesiastica non ha in ciò fatto eccezione. Ma non è vero che sia scomparsa la mistica, è scomparsa invece la venerazione che la costellava nel sentire comune; è scomparso il senso del sovrannaturale nella Chiesa, la cui “organizzazione” troppo umana troppo ha ceduto a posizioni laiche e accademiche che hanno espresso giudizi su ciò di cui non avevano la competenza di giudicare. La condanna della Riforma prima, del modernismo poi, non sono bastate a contenere la crisi[6].

Tutto ciò corrisponde in realtà per certi aspetti a quella degenerazione di cui ha scritto Guénon, sennonché lui era in effetti lontano dal cattolicesimo e non era in grado di percepirne la mistica, neppure quella in atto all’epoca sua, tant’è che non si interessava ai mistici e reagì sprezzantemente agli studi di Pouvourville (Matgioi) su Teresa di Lisieux.

In definitiva sembra essere stato Guénon stesso a tracciare un solco invalicabile tra esoterismo e mistica. Basta accorgersene e il problema perde in gran parte di consistenza.

8. L’ottavo capitolo parla dell’esoterismo ebraico, che identifica con la Qabbalàh. Dice che c’è fin troppo materiale in giro; è vero e non è vero, cioè c’è molta fuffa occultista, ma pare che un numero incredibile di manoscritti ebraici giacciano impubblicati. La Fata fa risalire la Qabbalàh alla mistica della Merkavàh, legata a Ezechiele. Bisogna aggiungere che egualmente antica sembra la mistica di Bereshìth, legata all’inizio del Genesi. I testi di riferimento sono il Séfer hazzohar e il Séfer yetziràh.

La presentazione che qui se ne dà mi pare, nel suo inevitabile schematismo, corretta. Forse basarsi principalmente su Scholem e Idel può dare qualche problema, perché il primo fu molto contestato dai mequbbalìm tradizionali, mentre il secondo sembra più uno storico della Qabbalàh che non un mequbbàl. Ad ogni modo sono grandi studiosi, da paragonare a un Corbin, a un Eliade, a uno Jung.

Segnalo che una analogia con l’esperienza mistica della Merkavàh c’è nel Ṛgveda X, 135, 3-4.

Un po’ incauto dire, dopo che si è insistito soprattutto sulla numerologia ebraica, che “il metodo di interpretazione cabalistico delle Scritture fu ripreso dai Padri della Chiesa cristiani”. In realtà si mantenne solo il concetto dei “quattro sensi della Scrittura”. Della numerologia applicata alla Bibbia in campo cristiano non c’è quasi traccia, salvo nella questione del 666 apocalittico.

Ad ogni modo La Fata presenta la Qabbalàh come una “scienza” e parla di “metodo cabalistico”. Pur non potendo dire che sia sbagliato, io andrei comunque cauto perché una tale formulazione sembra dare troppo peso all’iniziativa umana, mentre l’uomo deve sostanzialmente “ricevere”, da cui il termine qabbalàh stesso: “ricezione”.

Ma è proprio l’eccesso di dati dello studio accademico che porta a “sistematizzare” trascurando il dato spirituale che è in fondo l’unico fondamentale. Il mequbbàl non sarà mai colui che conosce e segue tutte le teorie dei “manuali di cabala”, ma colui che si conduce secondo quanto è stato a lui stesso comunicato da Dio.

In ultimo aggiungerei che forse sarebbe il caso di dare più spazio all’esoterismo nel Chassidismo, soprattutto considerando la grande importanza mistica e taumaturgica del fondatore, il Baʻal Šem-Ṭôv, su cui scrisse cose eccellenti Buber insieme a tanti altri e verso il cui movimento La Fata stesso dice di nutrire “molta simpatia”. Ma anche all’esoterismo nella vita di un “buon fariseo”, visto che nel capitolo successivo si dirà (p. 106) che i farisei erano esoteristi.

9. Il nono capitolo è sull’esoterismo islamico. Anche qui la presentazione mi sembra corretta, salvo che ognuno di noi insisterebbe su quelle cose che sente più vicine. Per esempio io non porrei la “scienza delle lettere” in tanta evidenza, anche se è vero che tale disciplina è legata direttamente al Corano. Ibn ʻArabī è certo importantissimo, però io sento più vicini al-Ghazālī o Rūmī. Al-Ḥallāj poi è il sufi “cristico” per eccellenza. Penso che anche in questo caso La Fata sia influenzato da Guénon, per cui Ibn ʻArabī era il non plus ultra. Il che magari è, ma per un occidentale risulta difficile. Sullo sciismo il citato Sohravardī, reso noto presso di noi da Corbin, è effettivamente affascinante e i libri di Corbin su di lui e le sue tematiche lo sono altrettanto.

Quanto alla necessità delle confraternite, La Fata segnala giustamente le contaminazioni politiche o settarie che hanno caratterizzato diverse loro vicende, mentre altrettanto correttamente ne segnala il dhikr come pratica cultuale centrale.

10. Il decimo capitolo, comprensibilmente più lungo degli altri, è dedicato all’esoterismo cristiano.

In primis ci si chiede se esista un tale esoterismo cristiano, e La Fata risponde di sì. Scartando gnosticismo, sincretismo (Pico della Mirandola) ed essenismo (a cui si vorrebbe ridurre Cristo stesso), vede in Gesù stesso l’essenza dell’esoterismo, il Logos di fronte ai logoi.

Aldo dice che la Chiesa avrebbe in passato limitato questo aspetto, che sarebbe stato “aperto” dal Concilio Vaticano II. Penso che non sia sbagliato dire questo, anche se in molti casi questa “apertura” ha portato a formulazioni incaute o addirittura indegne.

Vede poi gli atti con cui Gesù si conformò, o direttamente o tramite i suoi genitori, agli usi del tempo, come manifestazioni iniziatiche, il che a me sembra sinceramente superfluo. È ben vero che lui stesso parlava in un modo a “chi non aveva orecchie da intendere” e in un altro a chi le aveva, come i suoi discepoli diretti, ma la cosa, se ci pensiamo, è abbastanza naturale. Si parla alla gente di ciò che essa capisce, a meno che non si sia dei poveretti che sfoggiano una cultura di second’ordine.

Abbastanza azzeccata, mi pare, dopo aver citato Jean Borella secondo cui “nel cristianesimo, esoterismo ed essoterismo sono indissociabili”, la considerazione panunziana dell’essoterismo cristiano come “esoterismo dell’esoterismo” (p.  110). Le riflessioni sulla massoneria e sull’esoterismo in campo protestante e ortodosso sono sostanzialmente condivisibili. Quelle sul neoplatonismo cristiano in epoca moderna riguardano forse più il campo filosofico.

Anche e soprattutto qui, parlando del cristianesimo, mi chiedo una volta di più se abbia senso parlare di “esoterismo cristiano” o anche di “esoterismo” in genere, considerando la degenerazione a cui è andato incontro l’uso di questo termine. Se non si potrebbe parlare di “Spirito” e “Grazia” senza aggiungere termini non tradizionali in campo cristiano. È però vero che per farsi capire dagli altri bisogna mediare tra le rispettive consuetudini linguistiche…

11. L’undicesimo capitolo è dedicato all’esoterismo hindu. Ora, i dati che riporta La Fata sono beninteso tutti storicamente assai corretti, salvo che uno è portato a chiedersi: perché, anche qui, parlare di esoterismo? Sembra quasi che sia il termine stesso a creare il problema. Nonché Guénon… Ovvero, Aldo scrive a p. 121: “come il brahmano era colui che aveva l’incarico di ‘sorvegliare’ la corretta esecuzione del rito sacrificale, Guénon è stato nei nostri tempi il sorvegliante della purezza della tradizione esoterica e della sua espressione dottrinale”. Ma questo ruolo, preteso dai guénoniani, a Guénon chi l’avrebbe conferito? È una follia, nessuna tradizione può conferire un’investitura del genere. Inoltre non è che i brāhmaṇa “sorveglino” l’esecuzione dei riti, sono proprio loro stessi i celebranti, abilitati a farlo per nascita. Quest’ultimo punto è sicuramente una degenerazione, nel senso che la casta dovrebbe essere espressione delle qualità interiori, non dipendente dalla sola nascita, ma la degenerazione è antica. La susseguente ipotesi di Bruno Bérard, che “la dottrina delle caste potrebbe essere stato un espediente per impedire che un certo sapere arrivasse al popolo” può essere accettata solo se si comprende che questo sapere era allora già per forza corrotto, perché nulla può fermare la trasmissione del “dono” divino a chi ne è ritenuto degno. E il giudice in queste cose è solo Dio, non un qualunque prete o capo religioso.

Mi pare esserci, in ragione del termine “esoterismo” e del preteso ruolo “intermediario” di Guénon, una confusione tra i “mezzi utili” delle varie scuole e il segreto spirituale a cui esse dovrebbero, tutte, tendere. È certo che gli hindu stessi hanno spesso ceduto alle fisime magiche, sia espresse nella loro tradizione sia, negli ultimi secoli, sincretizzate con l’occultismo teosofico; ma questo non ci autorizza a fraintendere limitando il cuore della tradizione hindu a queste cose.

È certo che vi fu una perdita; all’arrivo degli inglesi in India la situazione dei Veda era pressappoco la stessa dell’Avesta in Iran: i rappresentanti tradizionali non ci capivano più nulla. Proprio grazie agli europei, sia per l’importanza dei loro studi sia in contrasto ad essi, si riscoprì il significato delle antiche tradizioni, spesso da parte di personaggi fieramente nazionalisti come Bal Gangadhar Tilak e Aurobindo. Senza peraltro che la riscoperta andasse fino in fondo, perché molte cose restano oscure.

Contemporaneamente alla decadenza nella conoscenza dei Veda si era affermato in maniera estremamente invasiva il sistema delle caste, che da quattro erano diventate centinaia o migliaia, cosa che purtroppo tuttora irrigidisce la società indiana in una marea di vincoli inutili. Gandhi lo aveva capito ed aveva cercato di rimediare ma fu ucciso da un “tradizionalista”.

In tal modo la situazione risulta enormemente confusa. A fronte dei brāhmaṇa più tradizionalisti che forse tuttora reputano la semplice uscita dall’India una causa di impurità, vi sono stati e vi sono maestri spirituali riconosciuti come tali che non solo di cose del genere se ne infischiano ma che in alcuni casi spingono i propri discepoli a esporre il Sanātanadharma anche in Occidente. Così fu per esempio nel caso di Śrī Rāmakṛṣṇa, di casta bramina e considerato dai suoi discepoli avatār di Rāma e di Kṛṣṇa, che mandò in giro per il mondo il suo principale discepolo Vivekānanda – kṣatriya dalla natura ardente e grandissimo santo a sua volta, checché ne pensasse Guénon. La stessa apertura caratterizzò peraltro anche Ramaṇa Maharṣi e si noti che l’“illuminazione” sia sua che di Rāmakṛṣṇa precedette ogni loro “ricollegamento iniziatico” (per dirla alla guénoniana).

D’altra parte vi è una quantità di “maestri spirituali” di ogni casta legati alla bhakti o allo yoga, che spesso girano per il mondo e di cui è talora più talora meno difficile capire quanto siano seri. In relazione al Tantra poi si sono diffuse in Occidente interpretazioni che non stanno né in cielo né in terra, come se esso consistesse semplicemente in magia e pratiche sessuali. Le idee sono altresì confuse sui rapporti tra Tantra, Yoga e Haṭhayoga.

“Tantra” era per Guénon stesso una sorta di “quinto Veda”, ma è ben vero che sotto questo nome di Tantra si presentano libri di natura assai diversa. Tutti sono comunque fatti per gli hindu, è ben difficile per un occidentale penetrare nella loro foresta simbolica, nel loro “linguaggio crepuscolare” (sāndhyābhāṣā) e adeguarsi alle loro pretese ascetiche (anche nei rari casi in cui nei Tantra hindu si contempli un’effettiva attività sessuale, con la moglie perlopiù, questa è tutt’altro che “libera” ma assolutamente ritualizzata, conforme alle indicazioni dell’antica Bṛhadāraṇyakopaniṣad).

“Yoga” viceversa è di per sé in apparenza la cosa più semplice che ci sia; è l’unione con Dio, e per immergervisi, conforme ai più antichi testi, basta assumere una postura (più che altro interiore) che permetta di distogliersi dalle distrazioni esterne e penetrare nella Sua considerazione.

“Haṭhayoga”, ovvero lo “yoga del sole e della luna” è una versione alchemica dello yoga che è stata spesso scambiata con la mera ginnastica e che appassiona gli occultisti perché promette quelle siddhi, cioè quei “poteri” che formalmente tutti sono impegnati a rifiutare, ma che vien facile rifiutare soprattutto quando non si hanno.

Beninteso i grandi maestri come Rāmakṛṣṇa o Ramaṇa Maharṣi, quand’anche nel loro cammino li abbiano conosciuti, non hanno mai prescritto ad alcuno di seguire le pratiche tantriche o lo Haṭhayoga. Quel che importa nel sentiero vedico come su quello cabalistico della Merkavàh, è agevolare la nascita in sé di un “veicolo” che porti, sovrannaturalmente cosciente, l’anima al cielo all’atto della morte.

La Fata insiste giustamente sull’importanza del “sacrificio”. Questo è effettivamente centrale nel Veda come nel cristianesimo, ed è egualmente difficile penetrarne in ambedue il senso. Cioè tante cose se ne sono dette, ma farne proprio il senso trasmutatorio sembra tutt’altro che semplice. È qualcosa di estremamente arcaico, che pare affondare nelle radici atemporali della storia, un mistero di condivisione che può probabilmente chiarirsi all’uomo solo per divina concessione.

Quanto a Upaniṣad, Vedānta, Yoga e Śaṅkara, come dovrebbe ormai apparire chiaro Aldo segue la versione di Guénon, che ha pregi e difetti. Dal mio punto di vista definire più esoterico il Vedānta dello Yoga non ha alcun senso, ma questo dipende dal differente significato che si conferisce ai termini. Inoltre ci si dimentica sempre di ricordare che il testo forse oggi più rappresentativo dello Hinduismo, ovvero la Bhagavadgītā, non è espressione dell’Advaitavedānta di Śaṅkara, bensì del Viśiṣtādvaitavedānta[7] di Rāmānuja.

12. Il dodicesimo capitolo tratta dell’esoterismo buddhista. Qui il discorso è abbastanza generale, vengono dette cose comunque corrette sia sul Buddha che sulle pratiche delle varie scuole. Sul rapporto tra buddhismo e hinduismo, si fa cenno alla interpretazione inizialmente negativa di Guénon, poi parzialmente corretta su influenza di Coomaraswamy.

Si fa accenno anche all’opinione di Radhakrishnan che non vedeva gran differenza tra il fine delle Upaniṣad e quello del buddhismo, che in effetti si differenziarono non tanto nella pratica meditativa ma più che altro perché i buddhisti rigettarono i Veda e i sacrifici.

In realtà ad ogni modo qui l’uso del termine “esoterismo” rischia di essere particolarmente superfluo, dato che il buddhismo è essenzialmente tradizione di monaci, di cui solo una versione edulcorata sembra venir trasmessa alle masse. Questo vale per tutte le forme di buddhismo, dal Theravāda al Mahāyāna al Vajrayāna.

A proposito di quest’ultimo, La Fata e Bérard danno forse un po’ troppo credito a certe voci su loro aspetti “oscuri”, che probabilmente sono fraintendimenti relativi alla commistione del buddhismo tibetano con lo sciamanico Bön o con la magia nera (vedi il caso di Milarepa). Questi aspetti oscuri sono stati sopravvalutati in Occidente, prima dalla Blavatsky e dalla David-Néel, poi da studiosi di retroterra culturale cristiano che prendevano gli “spiriti protettori” per diavoli e infine da qualche buontempone occultista che voleva sembrare particolarmente affascinante o da qualche scrittore del fantastico (nonché esoterista) come Meyrink. Aggiungiamoci le pratiche tantriche col sesso (che peraltro, a differenza di talune analoghe hindu, non prevedono l’emissione del seme) e il misterioso insegnamento apocalittico del Kālacakratantra, di cui è maestro principale il Panchen Lama (sovraordinato spiritualmente al Dalai Lama[8]), anche se ultimamente si parla solo delle iniziazioni impartite dal Dalai Lama (e qui ci sarebbero delle belle considerazioni da fare)[9].

13. Il tredicesimo capitolo tratta l’esoterismo taoista[10]. Le spiegazioni sono corrette ed essenziali, con riferimenti culturali interessanti agli studiosi occidentali di maggiore interesse. Farei solo presente che forse non è il caso di distinguere così nettamente taoismo, confucianesimo e religione popolare cinese. In realtà paiono tutte manifestazioni perfettamente concordabili dell’unica antica tradizione cinese che venerava il Cielo. Non c’è nulla di tanto taoista, per esempio, come lo Yijing eppure appartiene al canone confuciano ed è stato commentato tanto da Confucio quanto da alchimisti taoisti. Sia il taoismo che il confucianesimo assunsero poi in sé e ritualizzarono una quantità di tradizioni popolari.

Il taoismo in realtà passa per particolarmente esoterico perché si hanno presenti le tradizioni sugli “Immortali”, le varie tradizioni di famiglia passate di padre in figlio (Michael Saso parlava della “magia del tuono”), l’alchimia interna (correlata alle tradizioni alchemiche dei siddhar del Tamil Nadu soprattutto tramite il siddha Bogar). Perché è più “spettacolare” del confucianesimo insomma, non solo per avere prodotto meraviglie di sintesi come il Daodejing. Ma se uno approfondisce scopre a mio avviso, comune a tutto il mondo cinese, una visione organica del mondo basata sul senso dell’equilibrio e su una strategia spirituale[11] quasi invincibile. Non per nulla la loro civiltà dura da almeno tremila anni.

14. Il quattordicesimo capitolo parla degli “esoterismi moderni”. È un po’ come sparare sulla Croce Rossa… La Fata dice parecchie cose interessanti sul New Age, sull’occultismo, sul fanatismo anticattolico. Parla persino degli ufomani. Lui e Bérard rilevano poi come il mito dei “Superiori Incogniti” che tanto spazio ha ricevuto in innumerevoli gruppi pseudoesoterici sia in realtà una scimmiottatura della “comunione dei santi”.

“Il punto è – dice La Fata – se esistono individui giunti alle più alte vette della realizzazione spirituale, dotati magari di longevità o addirittura immortali, come l’Ebreo Errante o il Profeta Elia, san Giovanni, ‘il discepolo che non sarebbe mai morto’ o il Conte di Saint-Germain o Fulcanelli. Guénon ne Il Re del Mondo citando Ibn ʻArabī parla di ‘gerarchia dei santi’ e di ‘custodi del mondo’. In fondo non è un’idea molto diversa da quella che noi cristiani chiamiamo ‘communio sanctorum’ (comunione dei santi)”.

Tuttavia, seguendo Guénon, pur nel degrado generale Aldo tende a salvare il ruolo della massoneria, anche se non accessibile ai cattolici per via della scomunica del 1738, ipotizzando che in qualche parte di essa si celino ancora delle vere “trasmissioni iniziatiche”. Su questa base elenca una serie di riferimenti culturali più o meno affini a Guénon, quasi tutti ottimi studiosi, ma nessuno dei quali, mi pare, si può a cuor leggero ritenere un “santo” da cui aspettarsi un profitto spirituale “da bocca a orecchio”.

15. Il quindicesimo capitolo è su “esoterismo e metafisica”. Dice Aldo (p. 167): “Semplificando direi che la metafisica è la pienezza della Verità, quindi il fine, mentre l’esoterismo è una via percorrendo la quale è possibile giungervi”. Dopodiché Bruno Bérard chiede: “se l’intelletto puro è l’organo della metafisica, qual è quello dell’intelletto?” e lui risponde che, d’accordo con Corbin, è l’immaginazione creatrice, ma “che non bisogna confondere l’immaginativo con l’immaginario”.

Questa è una bella risposta, che evidentemente definisce un preciso settore della psiche o della mente in cui qualcosa va immaginativamente costruito secondo certe regole tradizionali, conformandosi alle necessità dell’intelletto puro.

Si parla poi della cosmologia esoterica come di una realtà che comprende sia il visibile che l’invisibile. Mezzo a raggiungere tutto ciò è il “Simbolo come apparizione ed epifania del Vero spirituale”. Naturalmente bisogna riuscirci, e a questo punto forse sarebbe importante far presente la necessità di una disposizione etica conforme. Dopodiché l’unione di metafisica ed esoterismo dovrebbe mettere in condizione di “morire prima di morire”, di “morire a se stesso” (uccidere la nafs, direbbero i sufi), di condurre una “catabasi” (discesa agli inferi) che prelude all’“anabasi” (salita al cielo). Vi sarebbe poi il caso di coloro che, scesi, non possono salire, e sarebbe ciò che identifica i “controiniziati”, secondo la terminologia di Guénon, o più semplicemente – aggiungerei io – i “dannati”, se s’intende che costoro siano tali proprio perché “scesi” con una disposizione etica non conforme. La Fata e Bérard sono convinti che una prospettiva metafisica salvi da questo infausto destino, e si può anche accettare, considerando che una comprensione metafisica senza disposizione etica conforme è a sua volta impossibile.

Quanto alla metafisica definita come qualcosa che si pone aldilà di qualsiasi religione in quanto religio perennis, sono d’accordo fino a un certo punto, nel senso che tale religio perennis non mi pare tanto una visione a sé quanto una modalità di visione che informa ogni religione qualora la si sia afferrata con l’occhio della metafisica, ovvero della vera Gnosi. Intendo che non esiste una super-religione, ma uno sguardo svincolato dalle forme in grado di riconoscere il vero in ciascuna di esse. Ma penso che in definitiva questa sia, espressa in altre parole, l’idea stessa dei due autori di questo libro.

16. Il sedicesimo capitolo s’intitola “Esoterismo e «umiltà cognitiva»” e fa presenti tutta una serie di raccomandazioni estremamente utili. Intanto ricorda che “La verità comincia ad apparire solo quando l’uomo impara a vedere le cose dall’alto o, come suggeriva Spinoza, ‘sub specie aeternitatis’”. Poi fa presente il rischio dell’orgoglio, a cui cedono tutti i falsi esoteristi ma anche i cattolici troppo fermi sulle proprie posizioni, che accusano di hybris anche gli “esoteristi veri”. La coscienza di tutto ciò rende inevitabile l’acquisizione di una certa umiltà cognitiva e di una certa prudenza. L’arroganza non può coesistere con l’esoterismo. Qui La Fata inserisce quella che a me sembra una sopravvalutazione di Guénon come “custode dell’ortodossia”, su cui, come ho già espresso in precedenza, non sono affatto d’accordo, anche se concordo che ha contribuito a chiarire un sacco di questioni, nel mentre tuttavia che creava lui stesso dei problemi, soprattutto riguardo al cristianesimo.

Aldo parla poi del carattere di alcuni autori che furono affini a Guénon: di Reghini, intemperante verso il cristianesimo, di Titus Burckhardt e di Coomaraswamy, eccellenti ed anche caratterialmente più equilibrati. Erano ad ogni modo tutt’e tre ottimi studiosi. Potrebbe poi citare una folla di guénoniani arroganti e pretenziosi (ce ne sono fin troppi) ma caritatevolmente non lo fa…

17. L’ultimo capitolo s’intitola “Che cos’è l’esoterismo”. Si traggono le conclusioni, si riepiloga. Si fa presente che a una domanda del genere sarebbe meglio rispondere col silenzio.

Ad ogni modo, parlare di esoterismo avrebbe il vantaggio o il fine “di persuadere dell’esistenza di una realtà nascosta, celata alla nostra vista e ai nostri sensi o anche ignorata perché dissimulata o volutamente occultata” (p. 188). Quanto all’“esoterologia”, “i migliori esoterologi sono quelli che prendono molto sul serio l’esoterismo e che sono animati, per così dire, da uno spirito di fervore quasi religioso” (p. 189). A questo proposito cita Jung e, in qualche modo da lui dipendenti, Kerényi, Camp-bell, Hillman, Eliade. Poi cita Evola ed Elémire Zolla, e ovviamente, sopra tutti, Guénon.

Bérard lo interroga poi sugli esoterologi attuali e La Fata fa i nomi dei francesi Jean-Pierre Brach e Jean-Pierre Laurant, nonché dell’austriaco Thomas Hakl. Interrogato sugli italiani mi fa l’onore – e lo ringrazio di cuore – di fare il mio nome insieme a quelli più noti ed eccellenti di Alessandro Grossato, Nuccio D’Anna e Claudio Lanzi. Parla poi di valenti studiosi che ha incontrato ma che non hanno mai scritto nulla.

Ancora interrogato sulla definizione più accattivante di esoterismo per l’uomo comune, La Fata ne parla come di “quella Via che lo famigliarizzerà con l’invisibile o per meglio dire con l’Anima”. La perfezione in questa via è comunque di fatto riservata a pochi.

Bérard ricorda la tesi secondo cui l’esoterismo di Guénon sarebbe un esoterismo “sacerdotale” mentre quello per esempio di Evola sarebbe un esoterismo “guerriero”[12]. La Fata conviene che l’esoterismo è “una realtà plurale” (p.193), anche se attualmente in grande sofferenza per il predominio di visioni del mondo materialistiche o spiritualmente irrealistiche.

Bérard dice a questo proposito che “La dottrina della risurrezione della carne, così come la conosciamo nel cristianesimo, risolve per integrazione la separazione artificiale tra Spirito e materia” (p. 194), sul che La Fata conviene, notando però – quanto giustamente – che a volte sono proprio i cristiani a dimenticarsi di tale dottrina.

Si termina parlando della possibilità che l’esoterismo possa mediare tra scienza e religione. Per come stanno le cose, Aldo La Fata ci crede poco, e neppure io ne sono convinto.

 

Il libro riporta ancora un “albero sefirotico”, con una breve descrizione tratta da Leo Schaya e una postfazione di Jean-Pierre Brach che spiega le ragioni dell’opera e ne commenta alcuni aspetti.

Tratta a suo modo della possibilità storica di un esoterismo cristiano senza tuttavia “nascondere la quasi totale assenza di prove documentali che permettano di stabilire l’effettiva continuità storica di tali tradizioni né l’esatta natura delle tecniche o dei mezzi utilizzati in questo contesto” (p. 200).

A riguardo dell’importanza della dottrina dell’“intelletto trascendente” parla poi dell’importanza “di alcuni teologi della diaspora russa ortodossa, in particolare francesi” (ibidem). Accenna quindi alla necessità della trasformazione spirituale, comune alle varie tradizioni, diffondendosi sulla nascita in ambito pietista nel XVII secolo di alcune dottrine di alchimia interiore, mentre dice che l’occultismo del XIX secolo si è mostrato, come dire, assai “creativo socialmente”, sviluppando tematiche nuove e contrapponendosi alle tradizioni istituzionalizzate.

Termina affermando che “l’esoterismo sembra mobilitare anzitutto una molteplicità di apprensioni molto personali e raffinate, corrispondenti ad altrettanti orientamenti propri della vita spirituale” (p. 202), col che, perlomeno per quanto riguarda i casi migliori, non posso che essere d’accordo.

 

Nel complesso, nonostante i “distinguo” che qua e là ho fatto, non posso che considerare estremamente interessante questo libro, sia per la moderazione e la competenza con cui i vari temi sono stati trattati, sia per l’attenzione dimostrata verso le tradizioni consolidate, riguardo alle quali si sono evitate affermazioni incaute. Cosa non strana del resto, considerando l’estremo equilibrio che connota i lavori e la personalità di Aldo La Fata, che conosco abbastanza bene, ma penso anche di Bruno Bérard, con cui ho minore consuetudine.

I miei stessi dissensi sono del resto stati espressi con l’intento di “integrare” e “proporre”, non certo di “avversare”. Diciamo che io, rispetto ad Aldo, sono meno amante del termine “esoterismo” e più critico su Guénon, di cui riconosco i meriti ma che non vedo come garante di ortodossia. Per il resto, il modo di Aldo di trattare di queste cose, libero ed euristico, mi trova assolutamente concorde.



[1] Qui (p. 9) Aldo ha avuto la cortesia di citarmi elogiativamente, del che lo ringrazio. Ho in effetti trattato la questione in questi termini nel mio articolo “Una strana impressione”, http://www.superzeko.net/doc_dariochioli_saggistica/DarioChioliQuestaStranaImpressione.pdf.

[3] Aldo La Fata mi segnala un refuso, ad uso di chi leggendo il libro legga anche questa recensione: alla prima riga di p. 59 “Giovanni l’evangelista” va cambiato in “Giovanni Battista”.

[5] Ci possono essere a questo proposito delle modalità di trasmissione estremamente particolari, come quelle che per contatto ingenerano un’immediata esperienza estatica; mi viene in mente quel che ne scrisse Abhinavagupta nel Tantrāloka o quel che si racconta di san Serafino di Sarov nel Colloquio con Motovilov. Ma la casistica in merito è ben più vasta.

[6] Incidentalmente: reputo lo sviluppo della mariologia cattolica negli ultimi secoli come una via di salvezza, ovvero come un vero e proprio esorcismo rispetto alle ispirazioni diaboliche sottostanti alla comune decadenza. La mariologia dialoga infatti in modo non mentale con un aspetto interiore “materno” dell’essere umano che è aldilà della portata dell’inganno.

[7] “Non dualismo nella distinzione”, mantiene il rapporto tra l’anima umana e Dio.

[8] Il Panchen Lama è emanazione (tulku) del Buddha Amitābha, mentre il Dalai Lama è “solo” emanazione del Bodhisattva Avalokiteśvara. Essi hanno peraltro il compito di riconoscere ognuno i tulku dell’altro.

[9] Relativamente al Kālacakra Jurij Nikolaevič Roerich pubblicò nel 1949 The Blue Annals, un bel volumone che potrebbe venire – forse – utile praticamente a un monaco cartografo e linguista tibetano particolarmente dotto ed esperto ma difficilmente a qualcun altro, e che costituisce la principale fonte relativa alle tradizioni su Śambhala, donde probabilmente coloro su cui si basò Guénon per il suo Re del mondo trassero l’idea delle varie Asgartha (Jacolliot), Agarttha (Saint-Yves d’Alveydre), Agartthâ (Sédir) e Agharti (Ossendowski). Jacolliot probabilmente riciclò leggende di Śambhala collegandole all’Ásgarðr norrena, Saint-Yves prese da lui, Sédir e Ossendowski da Saint-Yves. E Guénon abboccò senza verificare…

[10] Segnalo per una futura riedizione che a p. 146 purtroppo la prima frase è risultata incompleta. Aldo La Fata mi comunica che essa va completata così: “qualcosa che fa essere le cose ed è allo stesso tempo un modo d’essere delle cose”.

[11] Non solo spirituale; ha anche prodotto il capolavoro strategico militare sull’arte della guerra di Sunzi.

[12] Per quanto riguarda Guénon la mia opinione è parzialmente diversa. Perlomeno Il Re del Mondo mi sembra un’opera dal carattere assolutamente kṣatriya, da accostarsi forse ai romanzi del Graal. Così pure il suo attivismo iniziale nei vari gruppi occultistici.


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