09/06/19

Le radici mediterranee dell’Europa per una nuova visione della storia



di Paolo Ciccioli

Les monuments sont les crampons qui unissent une génération d’une autre.
Joseph Joubert

            In tempi “ultimi” come quelli che stiamo vivendo anche ricerche dal carattere non volutamente metapolitico possono contribuire a metter luce nelle ombre che occultano la coscienza dell’uomo. Il testo di Medardo Arduino - Le radici mediterranee dell’Europa per una nuova visione della storia, primo di due volumi, offre una metodologia d’interpretazione storica fondata principalmente sulle discipline socio-economiche, sulla logistica e sulla storia dell’architettura. Muovendo da tali ambiti del sapere e dall’osservazione empirica della cultura materiale antica, l’architetto Arduino compie una lettura della storia italica preromana che è indubbiamente corretto definire rivoluzionaria. Per dissipare le nebbie e vincere le superstizioni infatti, occorre a volte quella praticità tipicamente americana così ben narrata da Oscar Wilde ne Il fantasma di Canterville. Il fantasma in questione però vive nelle Marche e possiamo ben dire che è stato smascherato dall’architetto Arduino, con la collaborazione di Fabrizio Cortella, dopo che ad evocarlo e a denunciarne la presenza era stato nel 1975 il grande etruscologo Massimo Pallottino che ebbe a dire «Noi abbiamo un grande fantasma che ci perseguita da molti decenni: sull'Adriatico questo fantasma sono i Piceni». Ma se a Canterville la fuga del fantasma produceva una certa mestizia per un senso del soprannaturale che lo scientismo e il progresso avevano contribuito a dileguare, in questo caso si può dire che le verità storiche mostrate possono aprire semmai degli scenari dal risvolto pienamente metapolitico per la nostra epoca e certamente per l’Italia.    
            Le ricerche di Arduino prendono le mosse dagli studi di Giovanni Carnevale sulla tesi di Aquisgrana in Val di Chienti, ma hanno prodotto negli anni argomenti affatto originali ed indipendenti. La domanda che si è posto inizialmente Arduino, la cui capacità di interpretazione della storia di edifici oggi riadattati nelle funzioni e nelle forme è davvero rara, è come giustificare la ricca presenza di manufatti antichi nelle Marche. Chi ha finanziato le numerose strade, città, pievi, castelli, municipi presenti nel centro Italia? Per rispondere a queste domande l’architetto piemontese ha adottato la propria metodologia elaborata in occasione della sua tesi di Laurea al Politecnico di Torino, sotto la supervisione del Prof. Andrea Bruno. Secondo tale metodologia «per leggere il messaggio testimoniale di un manufatto è necessario conoscere e percorrere tutta la complessa catena di azioni che hanno portato dalla sua realizzazione allo stato di fatto che è sotto i nostri occhi». Uno stato di fatto che non è facilmente modificabile come invece per i documenti scritti, e che può essere intrepretato a partire dall’‘orizzonte tecnologico’, il quale «comprende tutto l’insieme accessibile delle pratiche esecutive e delle attrezzature specifiche, le materie grezze e/o i manufatti semilavorati, in altre parole l’insieme complessivo del saper fare e delle disponibilità dei materiali e delle fonti energetiche, senza i quali non si può soddisfare nell’oggetto che si va a produrre, l’originale requisito funzionale». A partire dallo studio dell’‘orizzonte tecnologico’ che li ha prodotti, i manufatti possono essere datati in maniera accurata, contribuendo così all’accrescimento della conoscenza relativa ad una specifica cultura.
            Prima di procedere alla presentazione, è necessario ricordare una regolarità storica ben conosciuta, quella della damnatio memoriae che i Romani ci hanno tramandato, per cui i popoli sconfitti sono destinati a vedere divelta la loro memoria storica. Affine alla damnatio memoriae è il fenomeno individuato da Silvano Panunzio - la Criptopolitica, da intendersi come quell’insieme di «forze nascoste, ma organizzate, che non appaiono quasi mai in prima fila», e che determina i destini della Politica quando se ne lascia attrarre. Pur con la cautela dovuta, specie quando s’introducono in una ricerca storica revisionista come quella che andiamo a presentare, termini di forte ascendenza metafisica, possiamo affermare che c’è del criptopolitico nella maniera in cui il fantasma dei Piceni, e più in generale degli Italici, è stato occultato sia dagli antichi che dai moderni. La tesi di Arduino muove dalla premessa secondo cui le moderne nazioni europee, soprattutto la Francia e la Germania, ma anche il potere papale, abbiano voluto riscrivere la storia passata, specie quella preromana e altomedievale, al fine di giustificare posticciamente il proprio nation building. Non potendo ignorare il proprio debito verso la civiltà di Roma, tali potenze europee si rappresentavano come discendenti delle popolazioni celtiche, barbariche e franche che nell’invadere l’Italia vi apportava elementi di civiltà, esercitandosi invero a scrivere criptopoliticamente la storia moderna mentre riscrivevano artificiosamente quella antica e altomedievale. Ma come si vuole in lingua inglese, “Rome wasn’t built in a day”. Ciò a spiegare che il processo di apprendimento nella costruzione di città, strade, armi e il saper fare che caratterizzava l’‘orizzonte tecnologico’ delle civiltà etrusche e picene, e che verrà poi ereditato dalla civiltà di Roma, doveva passare dai tempi lunghi di formazione di quelle civiltà centroitaliane che ebbero modo di fiorire durante l’Età del Bronzo e del Ferro.  
            Le indagini dedicate al territorio e all’urbanistica muovono anzitutto dalle analisi della strada, quale «risultato tecnologico che si realizza per quel processo iterativo di mutuo perfezionamento delle infrastrutture e della logistica fra manufatto viabile e mezzo di trasporto, in seguito allo stimolo delle situazioni economiche» che giustificano gli investimenti infrastrutturali, e quindi la presenza di un potere istituzionale in grado di indirizzarli strategicamente al fine di collegare fra loro le città. Città definite da Arduino come agglomerati di scopo, che diventano «sede d’elezione delle attività dei cosiddetti settori secondario e terziario: le manifatture ed i servizi ad esse pertinenti, dal commercio alla gestione della cosa pubblica». Messo in rilievo il collegamento tra strade e città, ne deriva che il primato di densità viaria, in km per kmq, che le Marche possono vantare in Italia, implica la presenza di un potere locale che, come la datazione dei manufatti dimostrano, non può che essere preromano. Tale potere investì risorse sia nelle strade sia nei centri urbani piceni, come Ascoli, Fermo, Septempeda, Osimo, Ancona e Urbs Saluia, cioè la città dei Salii nella quale Arduino individua l’Urbe dei Piceni, riconoscibili per le fortificazioni con cinte urbane ciclopiche, realizzate come in tutto il Mediterraneo in grossi blocchi litici, che possono essere giustificati solo in ragione di attività manifatturiere, commerciali e di terziario indotto, di buon volume e redditività.
            L’antico passato di questa civiltà trova una prova ulteriore nelle lingue e nei supporti grazie ai quali le conosciamo. In qualità di tecnologo, relativamente alla Stele di Mogliano conservata presso il Museo Archeologico nazionale delle Marche, l’architetto torinese arriva a collocare «le più antiche steli picene nel periodo Cretese Miceneo», che sarebbero quindi «più antiche delle iscrizioni etrusche su ceramiche ed enormemente anteriori alle iscrizioni Osche di Macerata in Campania. La scrittura dei Piceni sarebbe, cioè, una scrittura anteriore all’Etrusco e corrispondente al periodo nel quale, con ipotesi differenti e molte incertezze, la maggior parte degli studiosi colloca il lineare A greco». Un’ipotesi del tutto originale questa, che trova conferma nella presenza di reperti rinvenuti nell’areale italico e risalenti all’Età della Pietra, come il “ciottolo archeulano” di Tolentino con graffita la donna lupa, la Venere di Frasassi e la sepoltura del “giovane principe” delle Arene Candide in Liguria.
            A noi storicamente più vicini, e più consistenti numericamente, sono invece i manufatti rinvenibili nei musei centroitaliani che l’autore passa in rassegna nel terzo capitolo, e che dimostrano la potenza di tali fiorenti civiltà. Per quel che riguarda gli Etruschi, a fronte di una ricchezza culturale unanimemente riconosciuta, si registra la poca attenzione prestata da storici e archeologi verso le nuove scoperte provenienti dalle scienze dure. Un esempio preclaro è quello dell’ascia con tagliente di rame della mummia del Similaun conservata a Bolzano, che una recente pubblicazione scientifica dimostra provenire dall’area toscana, giustificando così la conoscenza della metallurgia del rame in questa regione già dalla seconda metà del IV millennio a.C. La nuova luce che tali studi gettano sulla storia italica preromana perciò, «può indurre una revisione delle ipotesi a lungo sostenute sulla diffusione precoce del rame balcanico in Italia» in ragione del fatto che «tutti gli oggetti trovati a sud delle Alpi (nord e centro Italia) erano fatti di rame della Toscana o del meridione delle Alpi» risalente a 5.300 anni fa, creando così «una voragine cronologica tra l’ascia di Oetzi e i manufatti italici ascritti “d’ufficio” a periodi storici molto più prossimi a noi».
            Se gli Etruschi erano indubbiamente specializzati nelle produzioni in rame, la forte presenza di reperti in acciaio risalenti alla prima Età del Ferro nell’areale medioadriatico, dimostrerebbe la perfetta conoscenza delle tecniche di forgiatura dell’acciaio da parte dei Piceni. É questa la tesi principale che l’autore elabora a partire dall’osservazione dei manufatti piceni, una produzione a cavaliere dei tre-quattro secoli fra I e II millennio a.C., fra cui spicca per importanza il torque. Si tratta di un collare ritorto, la cui provenienza è unanimemente individuata nelle Gallie transalpine, a dispetto di reperti rinvenuti in tutta Europa e in particolare nell’areale medioadriatico, al punto da poterli definire come propri e distintivi della civiltà picena, nel cui territorio sono stati rinvenuti peraltro i più antichi esemplari risalenti alla prima Età del Ferro nella località di Colle Pigne a Montedinove. Tali collari ritorti, ad oggi gli unici che conosciamo della produzione picena in acciaio, identificano inequivocabilmente i Galli, come mostrato dagli studi sulla statua del Gallo morente conservata al Museo capitolino a Roma, che per l’autore erano «i custodi eunuchi delle sacre sacerdotesse Sibille, le leggendarie depositarie delle scienze e della geodesia», ragion per cui «quest’area potrebbe con buona approssimazione essere il luogo italico d’origine del collare ritorto, simbolo sacerdotale prima e gentilizio poi, di quella popolazione che nell’Età del Ferro appare già articolata in caste, è particolarmente organizzata ed evoluta sul piano sociale, è produttrice e distributrice, in sinergia con i Rasenna, di manufatti di metallotecnica centro-italica in tutte le parti raggiungibili dell’Europa protostorica».
            I numerosi altri reperti visibili nei musei locali, oltre a mostrare grande sofisticatezza, segno delle capacità tecniche acquisite dai Piceni, spiegano, in ragione della gran quantità di oggetti in acciaio presenti, che «la forgiatura è una tecnica posseduta in loco e non la si deve ricercare altrove». A partire dai residui in acciaio delle lavorazioni delle armi, i Piceni realizzavano infatti molti altri oggetti durevoli e di uso quotidiano, come «gli spiedi per arrostire, graticole, alari di sostegno degli spiedi […] coltelli, manici di pentole, di secchielli e di casseruole, morsi per cavalli, staffe, fermagli e cerchioni per le ruote delle bighe». Il rinvenimento dei cerchi in acciaio delle ruote, dimostrano sia l’esistenza in epoca preromana di quei carri ad un asse che a Roma si chiameranno bighe, sia la necessaria presenza delle strade battute a cui si accennava più sopra. Ulteriori manufatti tipici della società picena sono poi i dischi pettorali, gli scudi bronzei rotondi sbalzati, precursori degli scudi Ancili portati in processione a Roma dai guerrieri Salii, e gli elmi a calotta tipo Montegiorgio. Altrettanto indicativi sia dell’articolazione della società picena che degli scambi commerciali che tale civiltà intratteneva con l’Europa transalpina sono le spade falcate e le spade dritte in acciaio. L’autore individua nelle spade falcate picene delle armi particolarmente adatte allo scontro isolato uomo a uomo, sviluppate perciò per rispondere alle esigenze militari non già di eserciti da battaglia, bensì per quelle «guardie di scorta dei convogli mercantili che incessantemente percorrevano le piste ed i sentieri dall’Italia verso tutte le direzioni del centro Europa», e che formavano una vera casta nel periodo di massima espansione dei Piceni.
Signore dei Cavalli. Decorazione in lega di rame fusa a cera persa.
[Immagine e didascalia tratta dal volume a pag. 263]

            Approntata l’elencazione dei principali manufatti piceni, vale la pena proseguire la presentazione esponendo la storia della tecnologia protagonista del saggio di Arduino, cioè l’acciaio piceno che risulta essere in realtà un’eredità culturale degli Ittiti. Si tratta dell’unica concessione dell’architetto torinese al dogma che descrive la civiltà italica come debitrice di quella greca. Quando nel XIII sec. a.C. scoppiava la guerra fra Achei e Ittiti, questi ultimi, scopritori delle caratteristiche della lega ferro-carbonio, poiché sconfitti, rilocalizzandosi nell’areale centroitaliano, trovavano un ambiente manifatturiero sviluppato e lasciavano «un segno indelebile nella memoria dei Piceni e degli Etruschi come testimonia la diffusione della conoscenza dei poemi omerici nelle pitture delle tombe dal lato tirrenico dell’Appennino e la mitizzazione di Enea e dei Troiani sul versante adriatico, con Antenore». Una volta consolidata la pratica della lavorazione dell’acciaio, l’accrescersi di tali attività provocava la ricerca di stagno nella direzione nord-ovest dell’Europa lungo la ‘via dello stagno’, sebbene le traiettorie commerciali dei Piceni non sdegnassero l’est, cioè la ‘via dell’ambra’, determinando così la divisione dell’Europa nelle due metà delle lingue romanze ad ovest, e delle lingue germaniche e slave ad est. La ‘via dello stagno’, che partiva dal centro Italia e aveva un interporto naturale a Marsiglia (la cui etimologia deriverebbe da mas salya, cioè casa dei Salii), proseguiva lungo le vie d’acqua costituite dai grandi fiumi dell’attuale Francia – il Rodano, la Saona, la Loira e la Senna, per giungere fino ai giacimenti di stagno, indispensabile per legare il rame e per la produzione dell’acciaio, dunque strategica per le economie etrusche e picene, presenti in grande quantità nelle Isole Britanniche, in Cornovaglia e in Irlanda. Lungo tale via s’insediavano gli Italici, che davano così avvio al fenomeno della romanizzazione delle Gallie, producendo quella cultura gallo-romana debitrice in tutto delle popolazioni centro-italiane. A dimostrazione di tale tesi ci sono l’esclusiva presenza di divinità italiche come descritte da Cesare nel De Bello Gallico, la cui spedizione militare è da interpretare come volta a indurre a più miti consigli le popolazioni transalpine che stavano formando un polo geopolitico indipendente e concorrenziale rispetto a Roma, e gli studi di Dumezil per il quale nel contesto delle mitologie europee non esiste alcun riferimento ai miti gallici autoctoni, fatta eccezione per la favola di Cappuccetto Rosso. Con l’aumento dei volumi di produzione e la necessità di accedere a nuove fonti di approvvigionamento, si apriva nell’VIII sec. a.C. la via del commercio con la Sardegna, ricca di giacimenti di stagno, ferro e argento, e naturalmente favorevole ad Etruschi, Punici e Magnogreci, ma che escludeva i Piceni privi di uno sbocco sul mar Tirreno. Nacque Roma, per la precisa scelta strategica dei Piceni di fondare un interporto sul Tirreno, e nacque adulta, con riferimenti giuridici e sociali già maturi, ereditando altresì «l’organizzazione dei “guerrieri torquati” delle scorte armate alle carovane» distintiva della civiltà picena. Nel testo viene pure riportata la teoria di Massimo Pallottino sulla fondazione di Roma, da parte di generici gruppi italici orientali. Mentre il nome di Roma s’imponeva nel mondo, comportando come per tutti gli imperi una ricollocazione delle attività produttive nelle periferie, e il conseguente e ben noto infiacchimento del carattere italico, si procedeva a cancellare le tracce della civiltà picena. In ragione di tale espansione multinazionale, l’impero si trovava impreparato a gestire lo tsunami di Creta del 365 d.C, che segnava l’inizio della fine per Roma con lo spostamento del baricentro fra Milano e Ravenna, da dove sbarcavano numerosi profughi dall’Oriente, fra cui numerosi monaci cristiani che, ritiratisi sugli Appennini, permettevano la rinascita spirituale dell’Occidente europeo, unanimemente attribuita a S. Benedetto da Norcia, che pure deve esser stato ammaestrato dai monaci orientali, come rilevato anche da Silvano Panunzio. In un testo dedicato a Santa Rita il filosofo cristiano invocava per il circondario di Cascia maggiore antichità rispetto al corso medievale, mettendo nel conto «S. Pacomio e S. Basilio, il Monachesimo orientale, S. Antonio Abate e gli asceti della Tebaide. Di tutto ciò v’erano tracce negli eremi rupestri della valle casciana e persino in Roccaporena: come dimostra la “Grotta d’oro” dell’asceta sconosciuto, proprio di fronte, in alto, alla casa di Rita e sempre presente ai suoi occhi di fanciulla».
            Le ricerche compiute dall’autore possono interrogare il lettore, certamente più a suo agio fra le certezze della storia ufficiale, sulla realtà di popoli antichi la cui esistenza politica confligge con le tesi riportate. Stiamo parlando ad esempio della cultura celtica, della cui espressione culturale però non conosciamo altro che manufatti italici. Non disponiamo infatti di fonti sulla lingua celtica, sconosciuta a noi perché suppostamente riservata solo ai druidi iniziati, né si registrano rinvenimenti di città o strade celtiche, ma solo dei cimiteri in campi di urne, ritenuti distintivi della civiltà celtica, con riguardo ai quali Arduino fornisce però una spiegazione in grado di definirli, rispetto ai cimiteri per tumulazione, sulla base di questioni strettamente pratiche, quali l’usanza di avere le spoglie dei propri cari, morti durante un lungo viaggio, non distanti dai luoghi domestici. Facendo riferimento ai ritrovamenti di Hallstatt e di La Tène, gli archeologi e gli storici transalpini costruirono a tavolino una civiltà celtica che dopo aver invaso l’Italia settentrionale, svanì del tutto inspiegabilmente, in contemporanea alla spedizione di Cesare nelle Gallie, cioè intorno all’ultimo quarto del primo secolo a.C.. I dubbi sollevati dall’autore non sono affatto isolati, trovando riscontro fra ricercatori contemporanei, come Gilbert Kaenel, per il quale è «consigliabile non identificare la cultura materiale di La Tène con un’“etnia”», sebbene per quanto icastica troviamo più efficace la proposizione di Arduino secondo cui: «chiamare “celtico” un qualunque utente dei prodotti della metallotecnica (unica testimonianza che si vuole “celtica”) è come dire che sono di etnia Svizzera, della cultura di La-Chaux-de-Fonds, tutti coloro che indossano un orologio da polso e, come conseguenza, tutti devono parlare la stessa lingua». Non diversamente dai Celti, anche le civiltà umbro-osco-sabelliche, svolgerebbero la stessa funzione al contempo riempitiva e mistificatoria.
            A margine di così tanti argomenti, del tutto conseguenti da un punto di visto logico rispetto ai ritrovamenti effettuati, ci sentiamo di muovere un’obiezione alla tesi di Arduino sulla successione delle divinità italiche, secondo cui l’imporsi di Giove, quale nuova divinità alto-picena, sia dovuto all’emergere della nuova società dedita all’industria e al commercio in sostituzione della precedente economia agricola devota a Saturno. Ci sembra questa, una determinazione dello strutturalismo economicista che mal si adatta all’indagine sul fattore religioso, che come esposto da Dumezil nei suoi studi sull’articolazione tripartita, risultava essere sempre prioritario e mai determinato dalle sfere del potere politico e di quello economico. 


Decorazione di “cista prenestina” raffigurante Nerio Menerua che, deposto l’elmo e lo scudo, aiutata da Cupido, blandisce Marte cingendolo fra le braccia e accarezzandolo. Il disegno è copiato da quello pubblicato da G. Dumezil nella sua tesi di laurea. L’oggetto originale, dichiara Dumezil, è scomparso.
[Immagine e didascalia tratta dal volume a pag. 231]


            Le tante novità presentate dall’autore attorno a temi trattati in maniera così radicalmente dissonante rispetto ai canoni della storia ufficiale, farà forse storcere il naso a qualche purista delle fonti. Per rassicurare gli animi, andrebbe tenuto nel debito conto che la questione delle fonti nella storia è un tema dibattuto in dottrina da almeno due secoli. La nostra conoscenza della storia antica e medievale deriva infatti da quel metodo storico della “critica delle fonti” introdotto da Niebuhr e Mommsen, e in generale dalla storiografia tedesca nel XIX secolo, che aveva suscitato numerose perplessità, fra cui quelle del filosofo americano Charles S. Peirce il quale ne tratta con rigore scientifico nel suo On the logic of drawing history from ancient documents. In questa ricerca, Peirce polemizza contro gli storici tedeschi e i loro metodi che si ispirano arbitrariamente e maldestramente alla logica di David Hume, al fine di riservarsi «una nobile libertà nel costruire la storia che più soddisfa le loro opinioni soggettive». Ma oltre a questa specifica polemica contro gli storici tedeschi, Peirce presenta nel proprio studio un metodo di ricerca in grado di fondare una nuova e più vera critica delle fonti, alla luce dei ritrovamenti archeologici.  Scrive il logico americano che «la storia antica viene scritta in parte a partire dai documenti e in parte dai monumenti. L’ultima generazione ha fornito così tanti esempi del rifiuto, da parte dell’archeologia, delle conclusioni degli storici dei documenti, al punto da porre la questione se l’intera procedura logica di quest’ultima classe di studiosi non sia radicalmente sbagliata. Lo scopo di questa ricerca è di mostrare che è proprio questo il caso; che la teoria logica sulla quale gli storici dei documenti procedono è una cattiva logica; e di esporre e difendere il vero metodo logico di trattare gli antichi documenti storici». In particolare mettendo alla prova tale metodo, a partire dal Libro XIII della Geografia di Strabone, Peirce espone un caso studio sulle opere di Aristotele. Coincidenza vuole che anche in questa ricerca, gli aspetti logistici del trasporto materiale e della conservazione delle opere di Aristotele si intersechino con quelli propriamente documentali. Strabone racconta della sorte dei manoscritti aristotelici, passati dalle mani di Teofrasto a quelle di Neleo di Scepsi, poi trasportati da Atene in Asia minore, e qui conservati in un locale umido e sotterraneo, quindi riportati ad Atene da Apellicone, che ricopia i manoscritti danneggiati in maniera filologicamente scorretta, per poi essere consegnati a Tirannione nell’87 a.C, dopo la presa di Atene da parte di Silla. Come scrive Peirce è grazie a questa conquista storica, e alla nuova edizione a cura di Andronico di Rodi, che noi oggi conosciamo Aristotele e la sua filosofia.  In tale ricerca Peirce compie un’analisi accurata al fine di dimostrare che numerose parti delle edizioni critiche a noi pervenute dei Primi Analitici di Aristotele, come quella di Giorgio Colli che segue l’edizione di Waitz e Bekker, probabilmente i due curatori tedeschi della collazione contro cui Peirce polemizza per il loro principio della minor probabilità (less likelihood) applicato al racconto di Strabone, risultano essere presenti sia interpolazioni che parti corrotte. Ad esempio nel secondo libro degli Analitici Primi, «i primi quattro capitoli sono dedicati a considerare in quali occasioni possono essere tratte conclusioni vere da premesse false. Seguono poi tre capitoli, di circa 70 righe, o più precisamente 146 righe, sulla dimostrazione circolare. Tali capitoli mi sembrano fuori luogo, per la ragione che Aristotele non ha ancora concluso la sua ricerca dal carattere puramente formale, che viene interrotta dalle ricerche sulle dimostrazioni circolari; e per l’ulteriore ragione che non appena queste ricerche giungono alla conclusione, con il XVI capitolo, Aristotele dedica un capitolo alla Petitio Principii, che è quasi esattamente la stessa cosa della dimostrazione circolare; e non credo che un pensatore così sistematico li avrebbe separati». Molti altri sono i casi, più pregnanti ma anche più tecnici, mostrati da Peirce, il cui metodo potrebbe essere adottato per una riconsiderazione delle fonti storiche documentali di nostra conoscenza, che lungi dall’essere le Tavole della Legge, proprio perché soggette ad alterazioni di varia natura, potrebbero e dovrebbero essere sottoposte a metodi scientifici di verificazione come quello elaborato da Peirce, come più volte reclamato per parte sua da Arduino.  
            Per concludere la presentazione di questa originale ricerca storica, che nelle intenzioni dell’autore vuole costituire una cornice, necessariamente sintetica, a partire dalla quale potranno poi essere elaborati ulteriori studi monotematici, vorremmo congedarci con una citazione di Franz D. Gerlach tratta dalla prefazione allo studio sulla Storia di Roma, scritto insieme a Johann J. Bachofen, nel quale i due professori di Basilea, nel polemizzare contro il tedesco Niebuhr, e più in generale con il metodo tedesco della “critica delle fonti”, invitano il popolo italiano a scrivere da sé la storia di Roma e la propria storia. Un invito questo che facciamo nostro, ed estendiamo a tutti i ricercatori e uomini di buona volontà, animati dall’amore per la verità.  «Noi riconosciamo il nostro compito come un dovere; […]. Noi non vogliamo ascoltare le idee, le supposizioni e i giudizi del diciannovesimo secolo sull’antica Roma, ma vogliamo conoscere le gesta e i destini dei Romani come essi stessi li intesero, li concepirono e li tramandarono. Gli interpreti più fedeli della vita di un popolo saranno sempre coloro che, originari della stessa patria e cresciuti tra le memorie dei padri, sempre attraversati dal respiro del passato, sono in grado di trovare nel proprio cuore la chiave per comprendere enigmi la cui soluzione è spesso impossibile per i cronisti stranieri. Infatti la vita dei popoli non può essere compresa come qualcosa di diviso e di spezzato […]. La fede [del popolo romano] in un continuo legame col mondo degli dèi ha donato una tinta particolare alla sua comprensione dei fatti. Disconoscere questa peculiarità della tradizione e schernirla con il senno dell’oggi, o addirittura trarne motivo per contestare la credibilità degli storici è a dir poco antiromano, e, secondo la nostra convinzione antistorico. Se, come sostiene Platone, il simile può essere compreso solo dal simile, il sapere e la fede di Roma devono essere la guida nella nostra esposizione delle gesta dei Romani».
 


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