di Antonio Scurati
Si potrà magari contestare che si tratti di uno scontro di civiltà, ma una cosa è certamente innegabile.
La lotta mortale tra Isis e Occidente manifesta una guerra tra due culture, e in particolare tra due culture della guerra.
Ogni volta che in cronaca leggiamo di un agguato terroristico in Europa, o di un ribaltamento di fronte lungo l’Eufrate, leggiamo di una vicenda storica millenaria che giunge al muro del tempo. La sua origine si può far risalire al 12 settembre del 490 a. C., nel momento in cui sulla piana di Maratona gli ateniesi, usciti dalla propria città per difenderla dagli invasori persiani, sebbene meno numerosi e pesantemente armati, entrati nel raggio di tiro degli arcieri, decidono di attaccare lo schieramento del terribile nemico a passo di corsa (dròmoi). In quella carica a perdifiato di uomini inferiori in numero, sfiancati, privi di arcieri e cavalieri, gli aggressori persiani – scrive Erodoto – videro il segno certo della follia e del destino di morte; il panico si propagò, invece, nelle loro file. Il cozzo micidiale e la disciplina della falange oplitica fecero il resto. Rimasero sul campo più di 6000 persiani e solo 192 fanti ateniesi. Il secolo d’oro della civiltà greca poteva avere inizio.
Gloria solare
Ma già quella splendida carica riecheggiava una storia plurisecolare. La cultura marziale degli opliti ateniesi era figlia dell’epica omerica la cui autorità aveva stabilito il paradigma della guerra come monomachia, duello risolutivo all’ultimo sangue tra due campioni appiedati che si battono all’arma bianca e a viso aperto in uno scontro frontale di violenza letale sotto gli occhi dei testimoni e dei posteri risaltando sul fondo della mischia dove si uccide e si muore oscuramente. Da allora, presso i guerrieri d’Occidente, la gloria è sempre stata una qualità della luce, l’acme zenitale del suo splendore, dove tutto accade, una volta e per tutte, nella pienezza di un chiarore meridiano.
Da allora l’Occidente pensa, rappresenta e narra la battaglia come un duello su vasta scala – secondo la celebre definizione di Von Clausewitz – e la guerra come una collezione di battaglie. Da allora l’Occidente si attiene a una cultura militare che predica – e spesso pratica – la ricerca della battaglia in campo aperto come urto violentissimo di masse, cozzo micidiale, carica a fondo, attacco distruttore e risolutivo che conferisca alla guerra la virtù di essere «decisiva», dispositivo capace di risolvere i conflitti in modo inappellabile, senza sistemi di valutazione tracciati dall’esterno, decretando in modo inequivocabile e inappellabile un vincitore e un vinto. Da allora l’Occidente si contrappone ideologicamente all’Oriente pensato come culla di una cultura marziale che, all’opposto, predica e pratica la violenza ingloriosa, la tattica dilatoria, l’attacco fraudolento, il rifiuto dello scontro frontale in campo aperto, la disonorevole attitudine a manovrare onde sottrarsi ai colpi del nemico nella linea della battaglia per guadagnare un altro giorno e poter combattere ancora.
Alessandro
La storia millenaria delle guerre tra Occidente e Oriente fornisce anche nella prassi militare ripetute conferme di questo schema ideologico. Nel 331 a. C. Alessandro Magno schianta gli achemenidi guidando personalmente la carica decisiva dei suoi migliori cavalieri (hetâiroi) contro il centro dello schieramento nemico nel punto preciso in cui si trova Dario, re dei persiani. Nel 53 a. C. il disastro di Carre – che segna il punto di massima espansione a Oriente dell’impero romano – fu determinato dalla cavalleria leggera dei Parti che, dopo aver provocato l’attacco con un tiro a distanza, si ritirò di fronte all’assalto dei quadrati nemici continuando, però, a bersagliarli con frecce scoccate cavalcando voltati all’indietro. Da quel momento «la freccia del Parto» diviene per gli occidentali proverbiale di comportamento guerriero fraudolento e inglorioso.
La giornata del destino
E ancora: a Poitiers Carlo Martello riesce a fermare l’espansione degli arabi in Europa perché impone ai suoi fanti di attendere i cavalieri berberi a piè fermo per il corpo a corpo, evitando così la trappola della tattica evasiva musulmana dell’«al-qarr wa al-farr», cioè dell’attacco seguito da una programmata ritirata, mirante a illudere l’avversario, per poi portare un improvviso e inatteso nuovo attacco. E ancora: la gloria di Lepanto entra nella leggenda di Venezia non tanto perché sia stata effettivamente decisiva nel confronto tra Europa cristiana e Impero Ottomano ma perché sembra incarnare, deterritorializzata in mare, l’idea archetipica per la cultura occidentale di «decisive warfare», di battaglia campale come «giornata del destino».
E’ una storia che dura ancora. Si prolunga ogni volta che sul suolo europeo un terrorista islamizzato emerge dalla oscurità ingloriosa per massacrare vigliaccamente civili inermi. Si prolunga nella nostra reazione di sconcerto verso la violenza contro la quale siamo personalmente inetti e, soprattutto, verso il suo carattere ai nostri occhi ciechi scandalosamente fraudolento. E si prolunga in Medio Oriente nella nuova tattica che il Califfato sta attuando dopo le recenti sconfitte militari: costruire una rete di alleanze nascoste sfruttando un principio antico del mondo musulmano – il «moubaya’a», la fedeltà data in segreto –, un principio che arriva dalla dottrina della «taqiya wal ketman», l’arte della dissimulazione e del sapersi mimetizzare.
La rappresentazione
Le culture marziali devono, senz’altro, molto a nuclei ideologici che talvolta mistificano la realtà ma è altrettanto vero che le rappresentazioni culturali della guerra non sono un mero fenomeno derivato, secondario rispetto al loro oggetto. Spesso lo precostituiscono e determinano. La storia sta a dimostrarlo. La cieca fedeltà a se stessa della cultura bellica occidentale ha indubbiamente causato enormi errori strategici, politici ed etici nei recenti conflitti con il mondo arabo-musulmano, ma continuare a ingannarci sui nostri nemici sarebbe un errore ancora più grande.
Fonte: La Stampa &
Nessun commento:
Posta un commento