20/09/09

GIANNI BAGET-BOZZO e l’ipotesi nazional-cattolica

di PRIMO SIENA

Il 25 giugno del 1959 usciva a Roma L’ordine cvile, quindicinale diretto da Gianni Baget-Bozzo, giornalista di origini liguri che si era già distinto tra il 1958 e il 1959 per una serie di editoriali pubblicati su Il Quotidiano (l’organo romano dell’Azione Cattolica guidata allora da Luigi Gedda), raccolti quindi sulla stampa dei Comitati Civici con l’eloquente titolo generale Perché non vogliamo l’apertura a sinistra.

Per comprendere il significato di quell’iniziativa giornalistica bisogna rifarsi sinteticamente al contesto politico italiano degli anni 1959-1960, coincidente con l’incubazione del passaggio dalla lunga fase dei governi democristiani di centro-destra a quella dell’apertura a sinistra, mediante la quale la Democrazia Cristiana cercava di acquisire all’area laica di governo(rappresentata dai soci governativi liberali, repubblicani e socialdemocratici) i socialisti di Pietro Nenni.

Il 15 gennaio del 1959, al precedente governo guidato dal democristiano Amintore Fanfani (inviso a certe correnti interne della Dc per sospette tentazioni golliste) succedeva un governo monocolore Dc, presideuto da Antonio Segni (già vicepresidente e ministro della difesa del governo anteriore) con l’appoggio, richiesto ed accettato, di liberali, socialdemocratici repubblicani e quello esterno del Movimento Sociale Italiano (Msi), movimento nato nel secondo dopoguerra sulle ceneri del regime fascista mussoliniano sconfitto.

Il 10 marzo dello stesso anno, il consiglio nazionale democristiano eleggeva a maggioranza l’On. Aldo Moro quale segretario generale della Dc; il quale - nelle intenzioni dei suoi elettori - avrebbe dovuto essere un “segretario che non governa”, quale garante di un governo di notabili politici com’era il governo Segni.

Aldo Moro invece divenne subito il silenzioso e criptico tessitore di una nuova Dc destinata ad abbandonare le posizoni di centro-destra, in vista di una svolta a sinistra che accogliesse il partito socialista - fino ad allora assai prossimo politicamenta alle posizioni dei comunisti oppositori del governo - nell’area dei maggioranza governativa.

Nel febbraio 1960 il goeverno Segni veniva fatto cadere per opera del segretario liberale Giovanni Malagodi, che s’illudeva di assumere così maggior peso contrattuale nei riguardi della Dc. Il 25 marzo, un nuovo governo monocolore guidato dal democristiano Ferdinando Tambroni riceveva l’investitura dal parlamento con i soli voti favorevoli della Dc (che in un comunicato annacquava la coloritura democristiana di quel governo monocolore, definendolo solo “governo amico”) e quelli, determinanti, del Msi.

Il 10 maggio, Palmiro Togliatti, capo del partito comunista italiano, veniva convocato a Mosca e duramente ripreso da Nikita Krusce, esponente del comunismo sovietico; per cui – rientrato in Italia – lanciava al suo partito la consegna del “combattimento di massa per portara l’Italia fuori dala politica dei blocchi militari e dal blocco americano”.

L’appoggio condizionante del Msi al monocolore di Tambroni aveva fortemente irritato il partito comunista italiano: irritazione strumentale solo se si pensa che lo stesso Pci, dall’ottobre 1958 al febbraio 1960, aveva tranquilamente partecipato al governo della regione Sicilia, capeggiato dal democristiano Silvio Milazzo, che ribellatosi al centralismo romano aveva costituito una Unione cristiano-sociale per varare a Palermo una Giunta di governo regionale politicamente eterodossa e composta da: tre assessori democristiani dissidenti, quattro monarchici, due del Msi, un indipendente di destra, un socialista e un indipendente eletto nella lista del Partito comunista.

Prendendo spunto dalla convocazione del congresso nazionale del Msi, previsto a Genova alla fine di giugno del 1960 (ed ignorando la tolleranza con cui appena pochi mesi prima aveva giustificato il sostegno comunista al governo siciliano di Milazzo assieme ai missini), Togliatti scatenava una offensiva della piazza di sinistra capeggiata dal Pci per opporsi al congresso missino di Genova, indicandolo pubblicamente come una grave provocazione antifascista alla città ligure“medaglia d’oro”della resistenza partigiana (ma governata da un Sindaco democristiano, sostenuto anche dai voti dei consiglieri comunali del Msi); questo era il falso scopo, il vero essendo quello di bruciare politicamente il governo Tambroni. Il quale infatti, sotto la pressione dei disordini di piazza avvenuti in vare località italiane, venne costretto a dimettersi per dar luogo ad un nuovo governo democristiano guidato da Amintore Fanfani, sostenuto da liberali, socialdemocratici, repubblicani con la benevole astensione del partito socialista.

Questo convulso clima politico aveva destato una seria preoccupazione nell’ala della Curia vaticana del cosidetto “partito romano” che faceva capo ai Cardinali Tardini ed Ottaviani, i quali avevano esercitato una diretta influenza sull’Azione Cattolica guidata da Luigi Gedda e soprattutto sui Comitati Civici, suo braccio politico.

Il riflesso italiano di questi ambienti vaticani si aveva mediante il giornale romano Il Quotidiano diretto dal giornalista Nino Badano e il quindicinale L’ordine civile affidato da Gedda alla direzione politica di Gianni Baget-Bozzo

Il titolo di quel quindicinale ed il fatto che lo dirigesse Baget-Bozzo attrasse fin dall’inizio la curiosa attenzione di chi, come me, all’interno della direzione nazionale del Msi, guidato fin dal 1954 da Arturo Michelin, esprimeva una linea nazional-cattolica attraverso la pubblicazione della rivista Carattere.

Avevo infatti seguito con interesse il percorso politico-dottrinale che aveva portato Gianni Baget-Bozzo da iniziali posizioni dossettiane e fanfaniane (era stato infatti attivo integrante negli anni Cinquanta della Comunità politica della sinistra democristiana, detta del Porcellino, che si riuniva nelle canonica della Chiesa Nuova in Roma) gradualmente verso una concezione critica della politica democristiana ancorata alla partitocrazia ed impantanatasi quindi in una disinvolta lottizzazione del potere giudicata dallo stesso Baget una cinica e palese contraddizione con il dichiarato impegno di un partito che si denominava pubblicamente cristiano.

Su L’ordine civile Baget–Bozzo andava proponendo un impegno civico ispirato ad un rapporto tra cristianesimo e civiltá coerente con la morale oggettiva, sia nella vita di fede come nella vita sociale e politica mentre, al tempo stesso, denunciava la corruzione partitocratica – esasperata dalla dialettica correntizia all’interno della stessa Democrazia Cristiana – che stava disgregando lo Stato di diritto, come in quegli anni andava denunciando, da par suo, il senatore indipendente Don Luigi Sturzo.

Gianni Baget vedeva nel partito moderno, nato dalla cultura politica della rivoluzione francese, <l’organo di una rivoluzione che distrugge alla radice il concetto greco- romano di ordine civile (e tale concetto è l’espressione compiuta del concetto tradizionale di ordine civile, semper et ubique), in nome di un cristianesimo intieramente razionalizzato e laicizzato>.

Molti dei temi trattati da L’Ordine Civile erano assai vicini alla battaglia culturale condotta da Carattere fin dalla sua fondazione (dicembre 1955). Unico punto di discrepanza era la valutazione che Baget-Bozzo dava del fascismo italiano e che - pur distaccandosi dai canoni di un antifascismo settario – veniva osservato quasi eslusivamente attraverso l’ottica della filosofia gentiliana considerata statolatrica, per cui ne discendeva l’irriducibilità del fascismo allo spirito del cristianesimo. Tuttavia veniva riconosciuta la buona fede e la dedizione di tanti fascisti e persino la miglior influenza morale esercitata in Italia rispetto agli errori dell’anticlericalismo liberale; e si ammetteva una visibile buona volontà di Mussolini che, in certi momenti e certamente negli ultimi – come riconosceva onestamente l’antico antifascista Baget - faceva di lui una figura così diversa da Hitler.

Baget esortava i giovani neofascisti del Msi a supeare totalmente l’eredità del fascismo, sostenendo trattarsi di un fenomeno storico concluso, affermando: <Bisogna aver la forza non di rinnegare, ma di abbandonare il proprio passato: di abbandonarlo nel senso in cui si è detto ad AbramoEsci dal tuo popolo”>; nel senso quindi di uscire dall’isolamento per rientrare nel pieno del gioco politico e del dibattito culturale.

Egli sosteneva poi coerentemente che l’abbandono del passato fascista, pur non rinnegato, doveva produrre specularmente l’abbandono dell’antifascismo, che in concreto si era rivelato spesso “un fascismo rovesciato”, incapace di chiaro e distinto, ma soltanto pasticci ideologici, validi solo come schemi demagogici>. A suo giudizio, infatti, le formule “liberl-socialismo”, “democrazia progressiva”, “Stato sociale” erano risultate formule prive di concetti, <espedienti verbali senza sostanza di dottrina> posti a sostegno e giustificazione di un “carattere solidamente conservatore” assunto da una involuzione dell’antifascismo che aveva tradito i suoi postulati genetici.

Ai primi di marzo del 1960, affrontai direttamente l’argomento inviando a L’Ordine Civile una lettera aperta “dall’altra sponda” che venne pubblicata sul periodico il 15 marzo.

In quella mia lettera aperta affermavo che l’attualismo gentiliano costituiva solo una componente del fascismo; componente che, senza mai esaurirlo completamente, era convissuta in un clima di vivace e talora persino aspra polemica con altre correnti di pensiero rappresentate da Forges Davanzati, Emilio Bodrero, Alfredo Rocco, Carlo Costamagna, Francesco Orestano, Carmelo Ottaviano; per tacere dei giovani della milanese scuola di mistica fascista voluta da Arnaldo Mussolini; giovani fascisti i quali, con Niccoló Giani in testa, si dichiaravano addirittura neotomisti.

Concordavo con Gianni Baget nel ritenere impropria la definizione di “nazifascismo” – come dimostrarà poi autorevolmente lo storico Renzo De Felice nella sua monumentale opera su Mussolini – risultando inapplicabile una assimilazione completa tra fascismo e nazismo, nonostante analogie formali (uniformi paramilitari, saluto a braccio teso e mano aperta, culto di un capo, ecc), essendo i nuclei fondamentali dei due regimi sostanzialmente dissimili: la “lotta di razze” per il nazismo sostenitore di una razza ariana pura sulle altre; “collaborazione di classe” per il fascismo postulatore di una società organica orientata da un’armonia sociale e spirituale.

La mia differenza con Gianni Baget consisteva in questo: ero d’accordo nel non restaurare il regime fascista, la cui caratteristica era stata la irrepetibile dittatura mussoliniana, ma <ritenevo necessario operare una scelta nel bagaglio del fenomeno fascista per discernere quanto esso conservava di tradizionalmente vivo e quanto di caduco in esso il vaglio storico ha rivelato>. E tra gli elementi non caduchi consideravo utile riprendere, attualizzandoli: il senso religioso della vita, il superamento istituzionale della lotta di classe, la riforma dello stato liberalparlamentare con un sistema rappresentativo che affiancasse alla rappresentanza politica dei partiti quella della società civile organizzata attraverso i suoi corpi intermedi.

Baget rispondeva al mio intervento affermando quale compito fondamentale della cultura italiana la necessità di pervenire ad <una valutazione oggettiva, non fascista né antifascista, del fascismo>. Riconosceva quindi la sincerità di tanti giovani che avevano creduto nel fascismo e che non dovevano essere per questo obbligati ad una ingiusta “morte civile”, come invece continuavano pertinacemente a fare i professionisti dell’antifascismo; i quali – come Baget avrebbe scritto successivamente – tendevano a perpetuare la guerra civile <negando ogni nobiltà del nemico (…) di colui che morì per fedeltà, che combatté per solidarietà, per onore: colui che combatté nonostante sapesse della sconfitta, che morì senza la speranza della vittoria>.

La colpa della cultura resistenziale ed antifascista, era per Baget-Bozzo, impedire con la propria “partigianità” la fondazione della “polis”, quindi della “respublica”, cioè dello Stato inteso come l’entità politica di tutti. Ciò facendo la cultura dell’antifascismo – affermava ancora Baget – si dimostrava incapace di intendere la democrazia in senso classico, ignorandone il cammino, restando invece abbarbicata ad un senso di democrazia quale esclusivo strumento di lotta all’antidemocrazia.

All’intervento di Baget-Bozzo sulla mia “lettera dall’altra sponda” ne seguiva uno di Augusto Del Noce su L’ordine civile del 15 aprile 1960.

Rifacendosi direttamente alla risposta dell’amico Baget a Primo Siena, Del Noce annuciava la sua tesi del “fascismo come inveramento del comunismo”; tesi che deduceva dal libro di Gentile sul giovane Marx, dove veniva colta la contraddizione marxiana dell’espulsione del principio del fatto come realtà materiale, per cui il marxismo restava, secondo Gentile, una prassi priva di materialismo. Partendo da questa osservazione gentiliana, Del Noce sosteneva dialetticamente che il fascismo, come politica in azione, risultava un “inveramento del marxismo”. Affermazione questa, che con tutto rispetto per Del Noce, mi molestava poiché ritenevo invece arbitrario far dipendere il fascismo mussoliniano esclusivamente dalla filosofia gentiliana, quand’esso poteve ritenersi più che una filosofia politica una concezione di vita nella quale erano confluite diverse correnti di pensiero non materialiste ed includenti altresì correnti e uomini di estrazione tradizionalista e cattolica.

Quel lungo ed articolato commento di Del Noce intitolato “Idee per l’interpretazione del fascismo, sarà successivamente raccolto in una antologia curata da Costanzo Casucci e pubblicata dall’editrice “Il Mulino” (Il fascismo: antologia di scritti critici, Bologna 1961)1.

Su questi presupposti incominciò tra Baget-Bozzo e me una corrispondenza nella quale cominció a prendere corpo una intesa tra la rivista Carattere e i suoi ambienti politici di riferimento con L’ordine civile e i circoli dei Comitati Civici. In data 8 settembre 1960, Gianni Baget mi scriveva, tra l’altro: Non ci sono tra noi divergenze e nemmeno piú differenze. Il fine è uno, il giudizio è uno. E d’altro lato potresti iniziare una collaborazione interna e regolare all’Ordine Civile. Cercherò De Marzio, quanto ad Anderson, aspetto una sua telefonata; ma tu, credo, saresti indispensabile”.

Il De Marzio citato da Baget era il deputato missino Ernesto De Marzio, ben conosciuto dal Prof. Luigi Gedda, dove ero stato discretamente introdotto fin dall’aprile del 1956; e quanto all’Anderson, si trattava di Massimo Anderson, allora segreterio generale della diffusa Associazione studentesca “Giovane Italia” appartenente anch’essa all’area missina.

Nell’ultima decade di settembre si svolse un convegno tra il gruppo di Carattere e quello de L’ordine civile allo scopo di concordare una collaborazione in vista della formazione di un possibile movimento civico-politico di cattolici che – accanto alle altre formazioni della destra monarchico-missina – promovesse un fronte articolato in alternativa alla Democrazia Cristiana, per ostacolare lo slittamento a sinistra del quadro politico italiano.

Quell’incontro, benchè svolto in una voluta discrezione politica, avrebbe meritato successivamente l’attenzione di alcuni politologi e studiosi delle relazioni tra la destra cosiddetta neofascista del MSI e gli ambienti della curia vaticana guidata dal Cardinale Ottaviani; tra costoro Giovanni Tassani che sedici anni dopo vi avrebbe dedicato un ampio capitolo del suo libro La cultura politica della destra cattolica (Coines Ed. 1976).

Per la rivista Carattere parteciparono al convegno: Mario Pucci, giornalista del “Secolo d’Italia”, Primo Siena (a ció delegato direttamente dal segretario nazionale del Msi, Arturo Michelini) ed i collaboratori della rivista Piero Vassallo, Giano Accame, Giovanni d’Aloe, Gianfranco Legitimo. Per l’ordine civile intervennero: Gianni Baget-Bozzo, Nicola Guiso, Paolo Possenti, Leandro Castellani. Il convegno si svolse nella sede romana dei Comitati Civici. Nel corso del convegno la delegazione di Carattere sostenne che l’idealismo attualista, dopo l’assassinio di Giovanni Gentile, era stato travolto dalla sconfitta politico-militare del regime fascista, mentre le correnti che lo avevano avversato durante il ventennio erano rivissute, con aperto spirito critico nei settori piú vivi della giovane destra italiana post-bellica definita, con una approssimazione piú o meno esatta, “neofascista”.

Dal canto loro i rappresentanti de L’ordine civile riconobbero in questa giovane destra >, come Gianni Baget Bozzo scriverá in “esigenza ed errore del fascismo”, attribuendo a questa giovane destra il merito di aver superato od evitato le suggestioni del panteismo statolatra, il solispismo filosofico e l’attivismo meramente vitalistico.

In riferimento alla campagna comunista in atto per ridar vigore all’antifascismo e alla resistenza, il gruppo de L’ordine civile affermava che <La Resistenza e l’antifascismo hanno cessato di essere parole di significato universale dal momento in cui, in loro nome, la religione fu soppressa, l’autonomia nazionale e statale di mezza Europa fu conculcata e dispersa, la libertá civile annullata (…) Da quel momento coloro che avevano sentito nella resistenza la lotta della verità e della civiltà contro un neopaganesimo diventato ormai solo dispotismo e barbarie, non potevano più in verità usare quelle parole, come espressione militante dei valori>:

Su questo chiarimento culturale, vennero poste le premesse per costituire la redazione del settimanale Lo stato che dal 15 dicembre del 1960 sostituì L’ordine civile, riassumendo il proprio programma editoriale nella formula dell’anticomunismo di stato, mirato a ristabilire nella pienezza del suo valore obbligante lo “Stato di diritto” insidiato dalla violenza comunista e dallo strapotere dei partiti.

Nel nuovo periodico confluirono vari collaboratori di Carattere: Giano Accame, Fausto Gianfranceschi, Mario Marcolla, Piero Vassallo, Fausto Belfiori.

Primo Siena, considerata la sua posizione di componente attivo della direzione nazionale del Msi, vi scrisse firmando con gli anagrammi di Pino Maresi e Remo Pasini.

Il convegno del settembre del 1960 pose inoltre le basi per la collaborazione del gruppo di Carattere con il Movimento dei Centri per l’Ordine Civile che Gianni Baget-Bozzo costituì alla fine di quell’anno in appoggio alla posizione critica dell’On. Tambroni all’interno della DC.

Il mondo giovanile della destra missina fornì molti dei suoi quadri per costituire in varie regioni italiane i centri provinciali del Movimento per l’Ordine Civile che aveva assunto come proprio un simbolo suggerito da me stesso: il leone dorato di S. Marco in campo rosso, con il libro chiuso e la spada alzata brandita dalla zampa anteriore destra, espressione del potere e dell’autoritá concepiti come “servizio”.

La linea dottrinale dei Centri per l’ Ordine Civile, fondata su una teologia della regalitá di Cristo che di fronte alla realtá dissacrata del totalitarismo moderno riproponeva la politica come un nuovo compito dei cattolici, venne sviluppata e raccolta in un quaderno da Gianni Baget-Bozzo, trasformato successivamente in un volumetto sotto il titolo “Cristianesimo e ordine civile” (ed. Mame, Roma 1962).

Il periodico Lo Stato - che dalla fine di gennaio 1961 assunse periodicità quindicinale -uscì fino al 15 novembre dello stesso anno, quando cessò le pubblicazioni. Anche il Movimento dei Centri per l’Ordine Civile si spense silenziosamente assieme all’ipotesi di una politica nazional-cattolica di centro destra, dopo l’interdizione vaticana di presentarsi con liste autonome alle elezioni amministrative del 1961; interdizione notificata direttamente a Baget Bozzo dal presidente della Commissione per l’Azione Cattolica, cardinale Traglia e che sanzionava la sconfitta del “partito romano” rappresentato oltre Tevere.

Dopo questi contatti i miei rapporti con Gianni Baget – nel frattempo ritiratosi in seminario per essere finalmente ordinato sacerdote a 42 anni, nel 1967 – continuarono solo intelletualmente attraverso la lettura della rivista teologica, da lui diretta nella sua prima fase, Renovatio promossa a Genova dal Cardinale Giuseppe Siri; quindi si spensero.

Lo segui da lontano, anche dopo il mio trasferimento all’estero, durante il suo ondivago percorso politico-intellettuale fatto di contraddizioni, disobbedienze e ritorni all’ovile. Un percorso che lo portò ad amare, elogiare e successivamente avversare personaggi, con le rispettive posizioni, quali: De Gasperi, Dossetti, Moro e Tambroni, Siri e Montini, Berlinguer, Brandt e Craxi per approdare infine a Berlusconi. Ebbi notizie del suo ultimo periodo di vita attraverso un suo conterraneo, l’amico prof. Piero Vassallo, che periodicamente lo visitava nella sua residenza genovese.

Al di là e al di sopra delle sue inquietudini culturali e politiche, gli sono grato d’essere stato esempio del “politicamente scorretto”, specie quando riconobbe apertamente la nobiltà di chi come me, giovanissimo, aveva combattuto senza speranza di vittoria “per fedeltà, solidarietà, senso dell’onore” nella trincea definita “sbagliata” dalla prepotenza dei vincitori.

Ho raccolto, addolorato, i commenti di stampa seguiti alla sua morte che lo colse nel sonno della notte dell’8 maggio del 2009. Concordo con chi lo ha definito – come ha fatto il laico Giuliano Ferrara (Il Foglio, 9 maggio 2009) – “onnivoro di storia e di fede, genio religioso ricco di intuizioni teologiche, talento della politica sociale democristiana, poi della milizia di ordine civile, tambroniana e destrorsa, infine craxiano, quindi terzamondista, da ultimo forzitaliano ortodosso, il vero prevosto di casa Berlusconi”.

1 Quella riposta di Del Noce avrebbe suscitato uno speciale interesse nel giovane storico Renzo De Felice che lo recensirà nel novembre del 1960., riconoscendogli il merito di aver affermato la necessità di muovere dall’indagine del momento culturale per addivenire ad una valutazione oggettiva del fascismo. Su quel saggio delnociano s’innesterà la riflessione che porterà De Felice nel 1965 alla pubblicazione del primo volume della sua famosa biografia mussoliniana.


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