29/04/07

Agarttha: una manipolazione guénoniana? No

"Secondo una dottrina presente nell’Asia Centrale, e di cui René Guénon ci ha dato notizia nella sua opera Il Re del Mondo, esisterebbe nel nostro mondo un Centro Spirituale Supremo nascosto e inaccessibile ai più, dal quale emanano e dipendono, in modo più o meno diretto, i centri particolari di ciascuna delle Forme Tradizionali esistenti (La Mecca, Gerusalemme, Roma…). Il sovrano di questo reame porta appunto il titolo di “Re del Mondo”.
Ora, uno dei più “quotati” attacchi che vengono sferrati all’opera di sidi ‘Abd al-Wahid dai suoi critici è relativo proprio a questo dato tradizionale, che secondo costoro non sarebbe altro che una mistificazione tutta occidentale, operata da viaggiatori europei che hanno travisato autentiche dottrine orientali (quando non le avrebbero del tutto inventate), e che in seguito il nostro Guènon si sarebbe, con rispetto parlando, “bevuto”. Le cose stanno così? Per rispondere a questo interrogativo, mi è sembrato interessante riportare sul forum alcuni estratti dell’importante studio di Paolo Urizzi intitolato Regalità e Califfato (pubblicato a puntate nella rivista Perennia Verba, di cui consiglio caldamente a tutti la lettura integrale), nel quale – precisamente nella terza parte dello studio, pubblicata nel numero 5 della rivista – viene fatta una piccola digressione intorno alla questione dell’Agarttha, che viene affrontata in modo succinto ma a mio modesto avviso assai completo. Lasciamo dunque la parola al testo:

“La questione della misteriosa Agarttha (o Agartha) e del Re del Mondo è stata tuttavia oggetto di accese polemiche che continuano a suscitare opposizioni e consensi fino ai nostri giorni. La controversia, purtroppo, non ha coinvolto soltanto personalità dichiaratamente ostili al pensiero guénoniano come Umberto Eco, ma persino autori di dichiarata adesione tradizionale come Marco Pallis e Marco Baistrocchi, le cui argomentazioni, a prima vista, potrebbero anche sembrare fondate. Le risposte di sicuro non sono mancate, come quelle di Jean Robin e di Charles-Andrè Gilis, per arrivare fino al recentissimo libro di Bruno Hapel intitolato appunto René Guénon et le Roi du Monde. […] La maggior parte delle critiche mosse a Guènon vertono fondamentalmente sulla dubbia credibilità delle fonti da lui chiamate in causa, ossia coloro che per primi hanno parlato dell’Agarttha e del suo capo supremo; in ordine cronologico: Louis Jacolliot (1837-1890), Saint-Yves d’Alveidre (1842-1910), e Ferdinand Ossendowski (1876-1945). La tesi di Pallis – che contiene già l’essenziale di quanto sarà invocato in seguito dagli altri critici – propone soprattutto la possibilità di plagio da parte di Ossendowski, dal momento che costui, contrariamente a quanto Guénon sostiene ne Il Re del Mondo, ben avrebbe potuto essere a conoscenza dell’opera di Saint’Yves – di cui ricalca numerosi passaggi - o quantomeno avrebbe potuto conoscerne le idee fondamentali sia durante i suoi studi a Parigi, dove era stato in contatto con Papus, sia in seguito a San Pietroburgo, dal momento che queste circolavano negli ambienti della Russia zarista già verso la fine dell’ottocento. Sembrerebbe infatti alquanto improbabile che un personaggio profano, per di più dotato di una conoscenza soltanto superficiale della lingua mongola, potesse esser messo a conoscenza dei segreti dei lama mentre si trovava di passaggio per la capitale mongola durante la fuga dalla rivoluzione bolscevica. Per Pallis, poi, una seria ipoteca sulla credibilità del geologo polacco è data dal gran numero di inesattezze terminologiche e storiche disseminate nella sua opera. Questo tuttavia non è un’argomento valido a sfavore di Ossendowski; anzi, paradossalmente potrebbe persino essere invocato a supporto della sua narrazione, poiché, stabilita la sua scarsa conoscenza della lingua mongola (e sicuramente la sua completa ignoranza di quella tibetana su cui poggia la terminologia dottrinale lamaista anche in Mongolia), è del tutto naturale che fosse impreciso nel riferire delle nozioni che non possedeva.
Il perno della critica di Marco Pallis verte però soprattutto sulle dichiarazioni del sapiente Tilopa Hutuktu, uno dei due lama che, prima del suo esilio negli Stati Uniti, avevano diretto il monastero di Narobanchin dove Ossendowski aveva soggiornato due volte nel 1920. L’argomento decisivo risulterebbe dal fatto che questo venerabile monaco, informato, durante il suo esilio, da un professore americano di Baltimora sui racconti di Ossendowski relativi al Re del Mondo e alla sua apparizione ai monaci del monastero di Narobanchin nel 1891, avrebbe esternato, con tono tediato, che tutto ciò era pura fantasia. Ma viene il sospetto che l’affermazione dell’Hutuktu sia stata motivata da una normale ‘disciplina dell’arcano’ nei confronti di un ambiente completamente profano, poiché – come lo stesso Pallis ha dovuto ammettere – qualche tempo dopo lo stesso lama avrebbe confidato ad un suo discepolo, che l’aveva interrogato in proposito, che secondo lui Ossendowski aveva fatto allusione al ‘regno segreto’, e il Pallis a questo punto aggiunge tra parentesi: di Shambala. Tale interpretazione (che non risulta dalle parole del lama, e che in Baistrocchi si trasforma addirittura da dato ipotetico in cronaca annunciata!), per quanto plausibile, in assenza di precisazione dovrebbe quantomeno essere presa con una certa prudenza.
Va detto, ad ogni modo, che la critica di Palls e di Baistrocchi non è tesa a negare l’esistenza di un ‘regno meraviglioso’ dal momento che esso è parte integrante della dottrina del Kalachackra propria al Buddismo Mahayana, dove si parla della città di Shambala, una nozione che ritroviamo peraltro già prima nei testi indù. Secondo Pallis, Ossendowski avrebbe avrebbe potuto sentir parlare di Shambala e del suo sovrano, il Kulika. La tesi viene ulteriormente suffragata dall’opinione dell’orientalista russo Georges Roerich che il Pallis avrebbe incontrato a Kalimpong, sull’Himalaya; anche secondo quest’ultimo, infatti, l’Ossendowski avrebbe potuto aver conosciuto l’opera di Saint-Yves anteriormente al suo viaggio in Mongolia e, ritenendo di riconoscere nella storia di Shambala la descrizione dell’Agarttha fatta da Saint-Yves, potrebbe aver pensato di adottarne il nome in vista dei suoi eventuali lettori europei.”

(lo studio prosegue ricordando che Georges Roerich non è altro che il figlio dell’illustre pittore e archeologo – nonché affiliato alla Società Teosofica – Nicholas Roerich, che organizzò una spedizione nell’Asia Centrale negli anni 1924-1928, e che nei suoi scritti riferisce anch’egli dell’apparizione del Re del Mondo a Narobanchin, parlando però espressamente di “Shambala”).

“Detto ciò, dobbiamo pensare con i nostri critici che effettivamente Agarttha è una mistificazione che ha origine con Saint-Yves ed è stata in seguito plagiata da Ossendowski? […] La tesi che vorrebbe fare di Saint-Yves un mistificatore tout-court non è poi del tutto scontata, quali che siano le riserve e le obbiezioni che pur giustamente si possono sollevare al suo riguardo; rimane pur sempre vero che, per quanto possa aver travisato gli insegnamenti che gli erano pervenuti, ebbe comunque occasione di entrare in contatto con due orientali (un afgano e un indù dell’India settentrionale, secondo Jean Reyor) da cui avrebbe ricevuto dei dati tradizionali. E, in linea di principio, non v’è alcun motivo per dubitare che in qualche modo egli abbia potuto ricevere da queste fonti il nome di Agarttha.
Una testimonianza indipendente sull’esistenza di Agarttha e delle fonti di Ossendowski che dovrebbe essere maggiormanete valorizzata e che, a nostra conoscenza, è stata finora ignorata dalle principali parti in causa in questa polemica, ci viene da Maurice Percheron. Essa acquista tanto più valore in quanto proviene da uno studioso di Buddismo che non ha alcun motivo per screditare la sua fama accademica con coloriti racconti di sapore occultista. Lo studioso, che si trovò a viaggiare in Mongolia pochi anni dopo Ossendowski, ebbe modo di incontrare l’Hutuktu di Narobanchin e anch’egli racconta (nel suo libro Tour d’Asie) che questi gli aveva riportato una predizione del Brathymah (sic), il sovrano del regno sotterraneo dell’Aggerthi, riguardante l’avvento messianico analoga a quella riportata dallo stesso Ossendowski!
Guénon, ad ogni buon conto, era perfettamente consapevole della debolezza delle testimonianze di Saint-Yves e di Ossendowski, e non mancava di sottolineare che egli citava questi autori ‘solo perché quello che hanno detto può servire come punto di partenza per considerazioni che nulla hanno a che vedere con quanto si potrà pensare dell’uno e dell’altro’.
[…] Rimangono tuttavia da chiarire due punti che Baistrocchi definisce essenziali: il significato e l’origine della parola ‘Agarttha’ e la localizzazione sotterranea di tale centro iniziatico. E’ Saint-Yves a ricordare che la parola ‘Agarttha’ significherebbe ‘inafferrabile, inaccessibile’, ma sembra appurato senza ombra di dubbio che non si tratterebbe di una parola sanscrita. Contrariamente a quanto sostiene P. Levastine, il termine gartha, ‘afferrabile’ (a cui viene aggiunto il prefisso privativo a-), non esiste. Nella letteratura vedica ‘inafferrabile’ si diceva agrbhita, mentre ‘afferrabile’ si dice grabha. La questione è stata esaminata anche da B. Hapel, secondo il quale tutte le considerazioni linguistiche attorno alla radice grah (grabh) comunque ‘non infirmano né confermano l’appartenenza della parola Agarttha al sanscrito classico, poiché gli si può riconoscere un’origine ancor più antica comune ad una corrente linguistica più larga’.
Forse una traccia di questa corrente linguistica la possiamo trovare nello scinti, uno dei principali idiomi degli zingari, il popolo la cui origine è stata associata da Ossendowski con l’Agarttha. E’ infatti nel patrimonio tradizionale del ‘popolo del vento’ che possiamo trovare un’altra testimonianza importante che conferma per l’essenziale, non solo i racconti di Saint’Yves e Ossendowski, ma anche la relazione, messa in luce da René Guénon, tra il regno del Prete Gianni e l’Agarttha. Stupisce solo che nessuno di questi autori ne abbia fatto menzione.”

(segue la descrizione della storia sacra del popolo scinti, così come lo studioso Frans de Ville l’ha raccolta dal Balibach (barone) degli zingari del Belgio: gli zingari costituirebbero la sesta razza umana – discendente da Abele, il primo pastore nomade - eletta da Dio a suo testimone nel corso dei tempi. Essi si sarebbero salvati dal Diluvio in quanto Dio avrebbe indicato loro delle montagne tanto alte da toccare i cieli con le loro cime, dove rifugiarsi con le ossa dei loro padri, e perciò essi conserverebbero ancora la memoria di una rivelazione pre-diluviana. Gli zingari sostengono che solo loro sanno dove fu creato il primo uomo (Manu), ed essi, i Manousches o “figli di Adamo”, sostengono che il Paradiso Terrestre si trovi in Siberia, e precisamente nella regione della Mandchouire (Manciuria). La loro tradizione apocalittica afferma che alla fine dei tempi gli zingari usciranno da un regno situato nelle viscere della terra e chiamato Agharti, per seguire il Re del Mondo e annunziare la Rivelazione Primordiale ad essi nota. Inoltre, anticamente il loro capo era un sacerdote-re chiamato Kan – che il de Ville identifica col Prete Gianni – e tutti i suoi sudditi maschi erano sacerdoti di Cristo).

“Quanto al secondo punto, quello relativo al carattere ‘sotterraneo’ dell’Agarttha, è sorprendente constatare quanti, e non solo tra i detrattori, si siano lasciati ingannare circa la vera natura del centro in questione. L’idea tutto sommato abbastanza diffusa, soprattutto negli ambienti occultisti e in quelli ufologici, ma non solo, della rete di gallerie sotterranee collegate tra loro che percorrerebbero il globo terrestre ad una notevole profondità, si ricollega spesso all’altra teoria alquanto bizzarra della ‘Terra cava’ (the Hollow Earth theory). […] Con ciò non si vuole negare l’esistenza di mondi sotterranei e di gallerie misteriose, la cui presenza è attestata da più fonti, né che queste abbiano potuto svolgere, in diverse epoche, un ruolo anche importante di carattere iniziatico come lo stesso Guénon afferma. Tuttavia significa dar prova di ben scarsa discriminazione se si pensa che per lui il Centro supremo debba essere cercato ‘sotto terra’ nel senso fisico del termine. Non sono pochi i passaggi, del resto, in cui egli ci mette in guardia da una tanto grossolana interpretazione, a cominciare dall’affermazione che ‘l’esistenza di un mondo sotterraneo, le cui ramificazioni si estenderebbero dappertutto, sotto i continenti e anche sotto gli oceani’ poteva parere ‘inverosimile’, o quella secondo cui le descrizioni di questo mondo, di cui Saint-Yves non spiegava il simbolismo in questione, davano ‘un’apparenza fantasiosa’, e quanto a Ossendowski, ‘egli sicuramente era incapace di andare di là dalla lettera’. Basta anche ricordare che a proposito del regno del Prete Gianni – dove il Graal finì con l’essere trasportato, e che taluni hanno voluto identificare con la Mongolia – non può essere accettata ‘nessuna localizzazione geografica in senso letterale’. […] Per Guénon il termine ‘sotterranea’ applicato all’Agarttha è da intendersi soprattutto come ‘nascosta agli uomini ordinari nel corso del Kali-Yuga’. […] La natura sotterranea dell’Agarttha non indica altro, in fondo, che l’incapacità dell’uomo decaduto di accedere al Centro supremo; prima della sua scomparsa dal mondo visibile, infatti, il Centro portava un altro nome, ed è proprio esaminando il passaggio dalla prima fase di apparizione a quella di occultamento che possiamo comprendere appieno la situazione di questo Centro nel corso del Manvantara e le sue relazioni con le diverse forme tradizionali.”

Riprendendo la parola, direi che questo breve scritto dimostra chiaramente che la dottrina dell’Agarttha è ben lungi dall’essere una “contraffazione occidentale”. Mi piace anche ricordare, per concludere, che Marco Pallis, insigne tibetologo ed egli stesso di fede buddhista, tradusse in tibetano due opere di Guénon (La crisi del Mondo moderno e [/i]Il regno della quantità e i segni dei tempi[/i]), riunendole in un unico volume e portandole all’attenzione di alcuni maestri tibetani. E’ degno di nota ricordare che il commento di questi maestri, riferito dal Pallis, fu che a loro modo di vedere René Guénon era l’unico occidentale che fino ad allora avesse veramente penetrato il senso delle dottrine orientali. Questo dato, unito ad analoghe affermazioni riportate dal Danielou e relative a numerosi maestri spirituali indù della città santa di Benares, nonché alle ben note attestazioni di stima e di riconoscimento dell’alto grado spirituale e dottrinale che gli hanno tributato vari maestri spirituali musulmani sia prima che dopo la sua morte, sono sufficienti per sorridere bonariamente di coloro che, spingendosi oltre a una critica legittima ancorché fallace, giungono addirittura a dare (non si sa da quale pulpito…) patenti di “dilettantismo” o di “contraffazione” alla conoscenza della dottrina tradizionale da parte di Guénon".

(Autore: Talib; Fonte: http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?t=299580)

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