di Aldo La Fata
Il termine “metafisica”, secondo
l’opinione più comune (sostenuta ancora dalla maggior parte dei dizionari
filosofici) avrebbe avuto un origine bibliotecaria designando il gruppo dei
libri che, nell’ordinamento dato alle opere di Aristotele intorno al I secolo
a.C., venivano “dopo” (metá) quelli costituenti la Fisica. Naturalmente i più
avveduti e informati sanno che si tratta solo di un’ipotesi, quantunque un
filosofo di solito contro corrente come Martin Heidegger l’avesse approvata.
Eppure, esistono buoni argomenti per ritenere, anche sulla base di una
ricostruzione storico-genetica e logico-sistematica, che la Fisica, “scienza
delle cause prime”, fosse per Aristotele la più alta forma concepibile di
sapere. Dunque ad essa il termine metafisica si attaglierebbe perfettamente.
Come “metafisiche” anche se in un senso naturalistico – da non dimenticare che
per i greci, come osservava Goethe, “la natura è la veste vivente della
divinità” - possono definirsi le concezioni dei Presocratici, dai quale non a
caso Aristotele faceva iniziare la “storia della filosofia”[1].
Ma la parola “metafisica” ha una
storia troppo lunga e complessa e ha subito nel corso dei secoli troppe
trasformazioni e articolazioni per avere noi qui la pretesa di dirne qualcosa
anche per sommi capi. Rimandiamo pertanto agli studi competenti e illuminanti
di Giovanni Reale ed Enrico Berti.
È stato detto che a partire da Nietzsche
una rifondazione razionale della metafisica sia improponibile. Siamo d’accordo,
perché la vera metafisica in realtà può sgorgare solo dal Mito e dal Simbolo e
quindi solo da forme di ideazione intuitive, immaginifiche e spirituali, non
razionali. In questo senso riteniamo che si possa parlare legittimamente di una
vera e propria “rinascita” della Metafisica esclusivamente nel recinto del
Sacro. In ambito cattolico ciò è avvenuto nel Novecento con quei movimenti che
si sono ispirati al pensiero di San Tommaso d’Aquino, come il neotomismo e la
neoscolastica e nell’ambito dell’esoterismo tradizionale, con quelle correnti
che hanno preso l’abbrivio dal magistero e dall’opera di René Guénon.
Nel primo caso, tale rinascita ha
trovato la sua incarnazione emblematica in studiosi di vaglia come É. Gilson,
J. Maritain, R. Garrigou-Lagrange, T. Tyn, F. Olgiati, C. Fabro, M. F. Sciacca,
S. Vanni-Rovighi, A. Mosnovo, M. Gentile, R. Spiazzi, G. Reale, V. Melchiorre,
V. Possenti, V. Mathieu (solo per citarne alcuni); nel secondo, in autori di
nicchia, ma anche di culto, come A.K. Coomaraswamy, F. Schuon, T. Burckhardt e,
relativamente al mondo cattolico, come L. Charbonneau-Lassay, H. Stephane, A.
Mordini, S. Panunzio, N. Dallaporta Xydias, M. Vereno, J. Borella, F. Chénique
e più di recente, A. Santacreu e B. Bérard.
Se è vero che il tomismo si è imposto
al magistero ecclesiastico almeno fino a Giovanni Paolo II, è altrettanto vero
che oggi esso sia finito in un vicolo cieco e che la sua voce si sia fatta
talmente flebile e inascoltata, proprio in ambito cattolico, da risultare
insignificante. Al contrario, riteniamo che l’esoterismo tradizionale di René
Guénon abbia dimostrato nel tempo una maggiore vitalità e una presa ancora
considerevole, soprattutto sui giovani. E ciò non solo per il suo fascino
esotico o per la sua eccellenza teorica, ma anche e soprattutto, per quel
concordismo spirituale e simbolico che si è dimostrato, paradossalmente, più
cattolico (universale) e conforme allo spirito del Vangelo di quanto non lo
fosse mai stato il formalismo teologico di matrice tomista. Diciamolo senza
ambagi: in assenza del contributo fondamentale di Guénon e della sua “scuola”
l’ecumenismo cattolico e il dialogo interreligioso, probabilmente si
troverebbero ancora su posizioni assai arretrate (sappiamo per certo, ad
esempio, che autori come Thomas Merton e Raimon Panikkar se ne sono
segretamente nutriti e che non furono i soli).
Per parte nostra riteniamo che il
“punto di vista tradizionale” che solo in seguito si è convenuto chiamare
“perennialista” (ma a ben vedere il perennialismo non coincide sempre con
l’esoterismo tradizionale), filosoficamente capace di armonizzare e ridurre ad
unità tutto il sapere metafisico e religioso dell’umanità, alla fine abbia dato
il meglio di sé quando chi ne ha compreso e assunto i principii e i caratteri
generali è rimasto poi ben ancorato alla propria religione. E questo senza
dubbio è stato il caso di Bruno Bérard (1958), oggi protagonista in terra di
Francia di una nuova rinascita intellettuale della metafisica. Quattro finora i
titoli licenziati da questo autore sull’argomento: Introduction à une métaphysique des mystères chrétiens: en regard des
traditions bouddhique, hindoue, islamique, judaïque et taoïste (2005), Jean Borella, La révolution métaphysique:
après Galilée, Kant, Marx, Freud, Deridda (2006); Initiation à la métaphysique: Les
trois songes (2009), Métaphysique du paradoxe (2019)[2]; di tutti, quest’ultimo, è anche il più voluminoso:
due tomi per un totale di oltre seicento pagine di cui si è fatta carico la
prestigiosa casa editrice cattolica L’Harmattan.
Ora, non si può nascondere che il
testo nel suo insieme presenti delle complessità e che il suo imponente
apparato di note richieda quasi una lettura a parte. Ma alla fine il tutto si
lascia leggere abbastanza agevolmente, anche per la capacità dell’autore di
esporre i vari temi con estrema semplicità e chiarezza.
Il primo volume è diviso in due
parti. Nella prima si parla diffusamente dei paradossi che l’Autore suddivide per
aree tematiche in cosmologici, antropologici, teologici e sociologici; nella
seconda, dei “limiti del sapere e della conoscenza”, del fatto ad esempio che
le prove siano credenze, e della distinzione tra verità e realtà. Infine, in
appendice, si trova un “petit lexique” dei paradossi più celebri.
Il secondo volume mette a tema “la
metafisica del paradosso”, precisando cosa si debba intendere per ragione,
intelligenza e conoscenza e quali rapporti intercorrano tra credere, sapere e
conoscere; in seguito, si entra nel merito di quella che l’autore definisce
“conoscenza paradossale” che sconfina nell’intuizione sovrarazionale e
nell’esperienza mistica.
Bérard dimostra che in
tutti i campi del sapere, nessuno escluso, non abbiamo altro che una lunga
serie di conoscenze e conclusioni paradossali; sofismi, paralogismi,
idiosincrasie, contraddizioni, petizioni di principio, ragionamenti imperfetti,
dimostrano, da una parte, l’impossibilità umana di pervenire a una conoscenza
certa, e dall’altra, l’inanità del pensiero sistematico autoreferenziale. Il
punto di partenza di questa visione parziale e distorta della realtà e della
verità filosoficamente intesa, è la famigerata coppia epistemologica
oggettivo-soggettivo, postulante l’esistenza di due dimensioni irriducibili
l’una all’altra, o anche di due modalità conoscitive diverse e contrapposte.
Qui viene in mente Coleridge secondo il quale gli uomini nascono platonici o
aristotelici, idealisti o realisti senza che i due orientamenti nella storia
della filosofia e del pensiero siano mai riusciti a trovare un vero punto di
sintesi. Analogamente sono da respingersi le distinzioni nette tra ragione e
intelletto, come se si trattasse di due facoltà mentali separate, o quelle
altrettanto capziose tra razionale e irrazionale. La “metafisica del paradosso”
di Bérard persegue pertanto i seguenti scopi: superare tutte le idee e le
concezioni dicotomiche della realtà; riconoscere attraverso il “metodo
paradossale” i limiti del razionalismo pretenzioso, esorbitante e ultracogitante
e del deliquio sofistico dei cosiddetti philosophes
a là Kant e a là Hegel; rinunciare ad avere idee chiare e distinte in senso
formale e concettuale; liberarsi dall’incantesimo intellettualistico
inconcludente e inconclusivo; sforzarsi di comprendere che esiste una
conformità dell’intelligenza alle cose e una conformabilità delle cose
all’intelligenza che è poi, essenzialmente, la conformità delle cose
all’intelligenza assoluta da cui esse dipendono; ammettere che la verità che
chiamiamo “Dio” non è e non può essere un prodotto dello spirito umano, ma che
esiste indipendentemente da esso. Se risolutamente e con onestà intellettuale
si segue questo percorso a tappe nella comprensione e nella conoscenza, si può
aspirare realmente a fare l’esperienza di Dio. Solo così allora, la metafisica
si fa ancilla theologiae, nel senso
che attraverso di essa l’intelligenza, in un atto supremo di umiltà, si
predispone a ricevere la verità (la tommasiana adaequatio rei et intellectus). Una metafisica dunque che, come abbiamo
già detto, ha le sue più profonde radici nel Simbolo che, partecipando
ontologicamente del modello archetipico che l’ha generato, rende appunto partecipe il contemplante del suo
“contenuto” spirituale (sul rapporto tra simbolo, teologia e metafisica, come
ci suggerisce Bérard, fanno scuola i libri di Jean Borella). Ma attenzione:
questo essere partecipi della verità, questo entrare in comunione con essa, non
avviene mai in un processo dialettico lineare con un punto di arrivo nell’hic et
nunc, poiché tra Dio e l’uomo ci sarà sempre uno scarto, sempre una
distanza incolmabile (i metaforici e simbolici “due tiri di arco” di cui parla
il Corano). Riconoscere questa inaccessibilità di Dio, come hanno praticato e
teorizzato i mistici cristiani di tutte le epoche, significa ammettere la
propria insufficienza e inadeguatezza (come può il finito contenere
l’Infinito?). Quindi non solo riconoscimento dei limiti della ragione umana di
fronte all’insondabile Abisso divino, ma anche rinuncia radicale alla conoscenza
suprema, “sacrificium intellectus” (Silvano Panunzio parlava analogamente
di “crocifissione intellettuale”). Non rinuncia alla ratio e tantomeno
all’intelligenza, ma rinuncia alla sua idolatria; non diffamazione dell’intelletto
o dell’ordine logico del discorso, ma riconoscimento dell’esistenza di una
facoltà superiore. È questa per
Bérard la premessa gnoseologica e ontologica alla vera gnosis, “conoscenza”, che più profondamente è, come direbbe S. Paolo, “epignosis”,
ovvero “sovraconoscenza”; detto in altri termini: trascendenza attraverso la
santificazione.
Da quanto
fin qui esposto in pillole e che si trova trattato nelle molte e dense pagine
del formidabile libro di Bérard, possiamo così misurare tutta la considerevole
distanza che corre tra una genuina metafisica religiosa e cristiana che ha le
sue radici nell’essere più profondo che siamo e le tante parodie immanentistiche,
ateistiche e profane che nel Novecento ne sono state fatte. Compresa quella
pseudo-esoterica di un certo perennialismo ultrareligioso e ultrametafisico che
ha avuto l’ardire di correggere e giudicare dall’alto, ovvero da un presunto
punto di vista omniangolare e totalitario, persino la Rivelazione. Ma quale che
sia la validità relativa di queste posizioni dalle quali, come abbiamo già
detto, lo stesso Bérard ha attinto e si è maturato, è certo che dopo la lettura
del suo libro, non si potrà far altro che ridimensionarne il significato e
soprattutto la portata.
[1] Che il pensiero dei presocratici
non fosse un ingenuo pensiero scientifico o semplicemente naturalistico, ma un
sapere metafisico espresso in linguaggio poetico-sapienziale, prima di Giorgio
Colli lo aveva già ben capito il filosofo padovano Marino Gentile.
[2] In preparazione una Métaphysique du sexe che riprende aggiornandoli
e integrandoli alla prospettiva cristiana i temi dell’opera omonima di Julius
Evola uscita nell’ormai lontano 1958.
Ci siamo permessi di chiedere direttamente a Bruno Bérard un commento a quanto da noi scritto sul suo libro. Eccolo:
RispondiElimina"Avec tous mes remerciements pour l’honneur rendu par Aldo La Fata à mon travail sur cette Métaphysique du paradoxe, je réponds ici à l’invitation d’y ajouter un commentaire. Je dirai donc un mot de la métaphysique en général et un autre sur la métaphysique du paradoxe.
Métaphysique:
Il va sans dire qu’Aldo La Fata a positionné avec justesse ce courant métaphysique actuel qui renonce à se positionner au-dessus de toutes les religions, mais gagne un caractère universel lorsqu’il est exprimé en langage chrétien. Peut-être peut-on préciser que le néothomisme est une relative trahison de S. Thomas d'Aquin, en tout cas au sens où il a été indument aristotélisé, alors que l’Aquinate se réfère principalement à S. Augustin et, beaucoup, à S. Denys l’Areopagite -- ce qui illustre l’alternative exclusive Platon ou Aristote souligné par Coleridge et rappelé par Aldo La Fata. Dès lors, de ce point de vue, un S. Thomas d’Aquin authentique fait davantage partie d’une oeuvre comme celle de Jean Borella qu’un René Guénon. Et c’est pour nous l’un des paradoxes essentiels de l’oeuvre de Guénon : il aura rétabli en occident la possibilité d’une intellectualité sacrée (et tout le crédit lui en revient), mais sa connaissance du christianisme paraît surprenamment indigente. On pourrait aussi signaler l’existence d’une « métaphysique analytique », courant typiquement anglo-saxon mais ayant quelque peu envahi la « métaphysique continentale » et qui, pour nous, constitue une pensée prisonnière des mots, une réduction de l’intelligence à la raison.
Métaphysique du paradoxe:
S’il y a éventuellement un mot à ajouter au commentaire d’Aldo La Fata, ce serait de préciser que la démarche a été strictement philosophique (philosophie de la connaissance). Ce qui a été découvert, c’est que la chance de la « simple philosophie » et d'être confrontée aux paradoxes (on distingue paradoxes de la raison et paradoxe de l’intelligence). Si elle accepte les enseignements des paradoxes, elle peut elle-même, pourtant simple philosophie, s’ouvrir et accéder à ce qu’un Nicolas de Cuse a appelé une « docte ignorance ». C’est, en quelque sorte, l’« enseignement spirituel » du paradoxe.