19/05/07

Oceano Atlantico, «mare nostrum»

«Tutti i nostri ragionamenti intorno alle cause e agli effetti derivano dall'abitudine». Il principio formulato da David Hume potrebbe a buon diritto essere posto come incipit al lavoro di Bernard Bailyn Storia dell'Atlantico, (edito da Bollati Boringhieri, pagine 128, euro 13) considerando la grande attenzione che il filosofo inglese dimostrò nei confronti degli avvenimenti politici e culturali americani.
La citazione è inoltre rilevante perché la proposta avanzata dallo storico americano Bailyn con il suo breve saggio rappresenta una sfida ad una convenzione interpretativa tanto antica e plausibile da essere ormai radicata nel senso comune. Bailyn propone infatti di abbandonare la concezione dell'oceano Atlantico come uno spazio di separazione tra Europa e Americhe, e di iniziare a considerarlo come una sorta di mare interno, sulle cui sponde si affacciano nazioni europee, nord e sud americane, caraibiche e africane. «Visto in questa prospettiva - spiega il professore di Harvard - l'Atlantico assume i caratteri di una via di comunicazione e la storia dei popoli che vi si affacciano rivela sorprendenti tratti in comune, rimasti a lungo nascosti per la mancanza di un'interpretazione unitaria che li accostasse».

Dialogando con Bailyn si scopre che quest'approccio «si è sviluppato negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, sotto la spinta di esigenze politiche: si voleva rinsaldare il rapporto tra Europa e America e si iniziarono a rintracciare i precedenti storici di questo legame». Tra i primi sostenitori della prospettiva pan-atlantica il professore di Harvard cita gli storici cattolici Hoffman e Hayes, sensibili a difendere la cristianità occidentale contro la minaccia dell'espansione comunista. In particolare Hayes fu uno dei primi a porre l'accento sul disinteresse storiografico per «la comunanza di tradizioni, prospettive e interessi tra l'Europa e la sua frontiera americana». Per l'Italia Bailyn tiene invece a ricordare "«l ruol o centrale svolto da Franco Venturi, con i suoi studi sull'illuminismo e sulla circolazione delle idee di Beccaria in Occidente».
Questione controversa è la precisa definizione dei limiti cronologici di tale storia atlantica, un esercizio metodologico al quale Bailyn non si sottopone volentieri, mostrando d'essere più interessato a una concezione della storia come racconto che all'indagine strettamente scientifica. Sollecitato a fornire un quadro generale di riferimento, il professore di Harvard spiega che la storia atlantica copre «i tre secoli successivi alla scoperta dell'America, dalle esplorazioni geografiche sino alle trasformazioni economiche, politiche e sociali della fine del XVIII secolo». Un periodo vasto, che nel suo saggio è suddiviso in tre fasi successive, dai contorni piuttosto irregolari.
Nel primo periodo - spiega Bailyn - si assiste alla creazione di una nuova terra di confine della civiltà europea, in cui si conduce una vita barbara: una lotta che agli occhi di tutti i soggetti coinvolti - nativi americani, deportati africani ed europei - era condotta contro gente aliena, straniera, ostile, selvaggia e incolta. Le guerre in queste zone furono caratterizzate da brutalità senza freni, da distruzione di intere civiltà e dei loro simboli. «E queste vicende, che si svolgevano in America, ebbero ripercussioni anche in Europa: penetrarono la coscienza comune e generarono l'idea che questo fosse un mondo in cui le regole di civiltà fossero sospese».
Sviluppo e integrazione furono invece le caratteristiche della seconda fase. Con tempi diversi, si formarono e fiorirono in America comunità stabili: a nord città portuali e sistemi di piantagioni, a sud le grandi città come Lima, Città del Messico, Bogotà, che costituirono i bastioni del potere spagnolo. «E le rotte commerciali che univano i produttori e i consumatori sui due continenti - chiarisce ancora Bailyn - fecero dell'Atlantico un sistema di comunicazione coeso, più percorribile e sicuro di molte linee terresti europee». Questo mondo era strettamente interdipendente e ciò che accedeva in un punto aveva ripercussioni a mille miglia di distanza. Ad esempio l'economia del «New England dipendeva dalla tratta degli schiavi africana, dato che le piantagioni delle Indie occidentali erano il mercato dei suoi prodotti agricoli: e dipendeva dai mercati portoghesi e spagnoli per i carichi di pesce spediti nei porti settentrionali della penisola iberica e da lì portati a dorso di mulo negli sperduti villaggi dell'entroterra».
Nel primo secolo della colonizzazione (e anche poi) il centro motore di questo sistema commerciale pan-atlantico fu la Spagna, che deteneva il monopolio dei commerci con le Americhe. Il miglior modo per descrivere questo sistema commerciale, nel quale venivano indifferentemente scambiate cose e persone, resta l'affermazione dello storico Pufendor, secondo cui «la Spagna custodiva la mucca e il resto d'Europa beveva il latte».
La terza fase e ultima fase della storia atlantica è caratterizzata «dalla fortuna dei creoli, persone nate in America da antenati europei», che con il loro spirito d'indipendenza posero la basi per l'inizio di una vicenda autonoma. «Le élites creole - chiarisce Bailyn - iniziarono a vedere la madrepatria come un mondo oppressivo e assorbito in se stesso, avaro e indifferente alle sue responsabilità». Sino al XIX secolo le regioni americane andarono definendo la propria identità e sia il continente americano che quello europeo furono percorsi da uno spirito riformatore. Al termine di questo periodo però l'Europa, l'emisfero occidentale e l'Africa hanno preso strade diverse sono entrati a far parte di un sistema mondiale globale, ponendo così fine all'unità atlantica.

(Fonte: Avvenire; autore: Marco Unia)

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