LE INTERVISTE TALEBANE: ALDO LA FATA
Il concetto di Homo religiosus, reso celebre da Mircea Eliade e ulteriormente sviluppato da Julien Ries, costituisce un faro imprescindibile per chi intende riflettere sulla natura profonda dell’essere umano e sulle radici della sua identità. Sebbene spesso associato a correnti identitarie, questo concetto acquista una sfumatura peculiare quando lo si inquadra nel pensiero di questi due grandi studiosi.
Eliade e Ries ci invitano a considerare il patrimonio mitico, simbolico e spirituale non come un mero prodotto storico, ma come un’espressione di una realtà più profonda, metastorica e metatemporale. In altre parole, il sacro, inteso come dimensione trascendente che permea ogni cultura e ogni individuo, trascende le contingenze storiche e le mode del momento.
Da questa prospettiva, le visioni riduttive e ideologiche che spesso caratterizzano le discussioni sull’identità rischiano di impoverire la riflessione sulla spiritualità umana. È fondamentale, invece, confrontarsi con studiosi in grado di integrare la dimensione storica e quella trascendente, offrendo così una comprensione più completa e articolata della nostra identità.
È con grande piacere che oggi accogliamo Aldo la Fata, allievo di Silvano Panunzio e direttore della rivista “Il Corriere metapolitico”. La sua eredità intellettuale, unita alla sua profonda conoscenza delle opere di Eliade e Ries, ci permetterà di approfondire ulteriormente questi temi e di riflettere sul ruolo che la spiritualità può svolgere nella costruzione di una società più giusta e umana.
In un’epoca caratterizzata da un crescente individualismo e da una perdita dei riferimenti tradizionali, il concetto di Homo religiosus ci invita a riscoprire il senso di appartenenza a una comunità più ampia, radicata in valori condivisi e in una visione del mondo che trascende l’individuo. La difesa dell’identità, intesa in questo senso, non è un atto di chiusura verso l’altro, ma piuttosto un’affermazione della nostra umanità comune e della nostra capacità di trascendere i limiti della nostra finitezza.
Dottore La Fata, voglio ringraziarla per la sua disponibilità e chiederle di illustrare ai nostri lettori il suo percorso intellettuale.
Volentieri, ma non prima di aver ringraziato il “Talebano” per l’ospitalità concessami e per l’attenzione riservata al pensiero e all’opera di Silvano Panunzio. Circa il mio percorso intellettuale e spirituale (non posso separare l’uno dall’altro), dirò che esso ha a che fare con quello che il filosofo Julius Evola – altro autore e studioso a al quale devo molto – ebbe a definire “impulso alla trascendenza”. Questo impulso, che nel linguaggio cristiano potremmo chiamare “vocazione”, ha influenzato in modo determinante i miei orientamenti e le mie inclinazioni intellettuali, in particolare il vivo interesse per lo studio comparato delle religioni. Avevo circa quindici anni quando venne pubblicata la prima edizione italiana della “Storia delle credenze e delle idee religiose” di Mircea Eliade, in tre volumi. Ricordo che quella lettura fu decisiva per me, segnando una svolta nelle mie ricerche e nei miei studi successivi. Se ben ricordo, scoprii Eliade proprio grazie a Evola, che fu il mio primo riferimento letterario. Nella biblioteca di mio padre trovai alcuni dei suoi libri, che attrassero immediatamente la mia curiosità di giovane lettore, affamato di conoscenza. Li lessi con grande avidità. Tutti gli autori che Evola citava nei suoi libri furono oggetto del mio interesse e cercai di metterne insieme quanti più ne potevo. A cominciare da René Guénon. Eliade venne appena dopo. Saggi e romanzi. Questi ultimi soprattutto mi appassionarono. Era l’Eliade “esoterico” a colpirmi, quello capace di esprimere nelle sue opere narrative ciò che il più formale storico delle religioni riusciva abilmente a nascondere nelle sue trattazioni accademiche. Sarebbe lungo elencare tutte le mie esplorazioni librarie, ma in sintesi posso dire che, negli anni, mi sono orientato con convinzione verso quella che potremmo chiamare la corrente “tradizionale”, seguendo le orme di Evola, Guénon, Schuon e altri studiosi di questa linea di pensiero, tra cui Panunzio e Mordini. È una prospettiva che, dal mio punto di vista, tenta di conciliare le più elevate visioni spirituali delle religioni tradizionali dell’umanità (senza escluderne alcuna) con il sapere umano, anche accademico, in un raro e prezioso sforzo di sintesi. Due grandi mediatori di questa operazione culturale “provvidenziale” sono stati proprio Eliade e il teologo e antropologo religioso Julien Ries. Pur non essendo gli unici, il loro contributo resta, a mio avviso, quasi ineguagliato.
Vuole spiegare ai nostri lettori chi era e l’importanza di oggi di Silvano Panunzio?
Conobbi Silvano Panunzio dopo aver letto il suo capolavoro “Contemplazione e Simbolo, summa iniziatica orientale-occidentale”, pubblicato nel 1976. Quell’opera in due volumi, per un totale di circa settecento pagine, mi colpì profondamente. Nonostante le mie letture rischiose iniziate molto presto, sono sempre rimasto cattolico, e nessun autore è mai riuscito a sradicare o compromettere la mia fede. Non saprei spiegarne esattamente le ragioni, ma credo che qualcosa di molto profondo in me mi abbia sempre impedito di deviare verso altre strade, nonostante l’attrazione che ho sempre provato, in particolare, per il buddhismo stoico di Evola. L’opera esoterica di Panunzio, cattolico come me, mi risultò quindi immediatamente congeniale. Panunzio, figlio del noto giurista Sergio Panunzio (1886-1944), si interessò anche lui fin da giovanissimo di esoterismo e religioni e sulle orme del padre cercò di conciliare questi saperi con gli studi politici (presa appunto una laurea in Scienze Politiche). Da qui la “metapolitica”, vichianamente una “scienza nuova” che secondo le sue intenzioni avrebbe dovuto affiancare la “metafisica tradizionale”. La sua grande intuizione, che condivido pienamente e che, dopo la sua scomparsa nel 2010, ho cercato di portare avanti con la rivista di studi universali “Il Corriere metapolitico” – nata dalle ceneri della rivista panunziana “Metapolitica”, di cui fui per un decennio caporedattore – fu quella di comprendere che l’individuo non si salva da solo. La sua peregrinazione terrena si compie come uomo fra gli uomini, in un contesto collettivo, e la sfida consiste nel trovare il modo di far cooperare tutte le energie umane verso un fine che sarà necessariamente comune. Naturalmente, qui posso solo semplificare una visione che trova molti punti di contatto con le tradizioni universali, in particolare con il cristianesimo. Non a caso, Panunzio definì la metapolitica come “escatologia civile”. La Dottrina sociale della Chiesa rappresenta una chiave per comprendere questa metapolitica, anche se non è l’unica. In ogni caso, invito chi volesse approfondire questo approccio a leggere i due corposi volumi di Panunzio, “Metapolitica, dalla Roma eterna alla Nuova Gerusalemme”, recentemente ristampati dall’editore Iduna (2019), oppure il più breve testo di scritti panunziani da me curato, “Che cos’è la metapolitica” (Solfanelli, 2023).
L’importanza di Panunzio oggi si spiega facilmente. Credo che egli abbia colto, meglio di altri autori del medesimo orientamento, le radici dei mali che affliggono l’umanità, tracciando una via percorribile per chi desideri uscire da tale impasse. È fondamentale partire dalle proprie radici culturali e spirituali; chi tenta di prescinderne rischia inevitabilmente di smarrirsi o di evadere dalla realtà. Oggi siamo certamente più consapevoli di una condizione collettiva di sradicamento, un fenomeno che forse ai tempi di Panunzio era meno avvertito e che rende la situazione più complessa per tutti. Tuttavia, resta essenziale partire sempre da un “centro”, e questo centro è quello in cui siamo stati collocati, per nascita, per ventura, o per un disegno trascendente di cui non conosciamo l’origine, ma che siamo chiamati a riconoscere e considerare.
Come valuta la figura di Attilio Mordini?
La valuto molto bene. Sono da sempre un estimatore del “cattolico ghibellino”, fin da quando scoprii la sua opera leggendo la rivista di comparazione e sintesi “Excalibur”, pubblicata verso la fine degli anni Settanta. Ho scritto di Mordini nell’introduzione a una piccola raccolta di lettere di Panunzio indirizzate al nobile fiorentino, di cui fu amico e, in un certo senso, maestro (“Lettere a Mordini”, Solfanelli, Chieti 2024). In quella sede, sottolineavo le differenze tra i due studiosi, ma anche gli importanti punti di convergenza. Molti ritengono che Mordini oggi non abbia più molto da dire e che la sua opera sia superata, inattuale. Tuttavia, io non la penso così.
Tutto dipende da come lo si legge, e credo che essa vada interpretata per la straordinaria capacità di Mordini di trovare “segni” e simboli ovunque, persino tra le pieghe della storia. Con una grande intelligenza e intuizione, riusciva a trarne insegnamenti validi per l’oggi e per il domani. Ritengo che il vero cuore della sua attualità risieda nel suo “metodo”: un’ermeneutica tradizionale che attinge alla sapienza universale, facendo confluire questa conoscenza in un cristianesimo eterno, senza limiti o confini, né confessionali né religiosi (per quanto all’apparenza questi “limiti” possano sembrare evidenti a qualche lettore un po’ superficiale).
Questo approccio “universale” al pensiero e alla tradizione è quanto mai necessario oggi, e lo si ritrova in abbondanza nelle pagine di Mordini, anche laddove il suo pensiero appare più problematico o controverso. Penso che il lettore contemporaneo abbia il dovere di andare oltre i limiti che ogni opera, ieri come oggi, può porre, per trarre beneficio dall’essenziale che vi si trova contenuto. Chi riuscirà a cogliere questo essenziale, saprà scoprire in Mordini tesori di straordinaria bellezza e profondità.
Paolo Guidone