08/02/08

Servo di Dio Girolamo Savonarola

L’uscita per Mondadori della traduzione italiana del libro dedicato a Giro­lamo Savonarola da parte di Lau­ro Martines, professore emerito dell’University of California di Los Angeles e illustre studioso del Quattrocento fiorentino ( Savonarola. Moralità e politica a Firenze nel Quattrocento), può essere occasione, in questi tempi in cui tanto si parla di 'fonda­mentalismo' e di 'ingerenze del­la Chiesa nella vita civile', a ri­considerare una pagina molto in­tensa e problematica della storia del nostro Rinascimento e della Chiesa.
Su Savonarola si è detto di tutto e il contrario di tutto. Fra Otto e Novecento le Chiese riformate e la storiografia protestante ne fe­cero un 'martire' del perfido e corrotto papa Borgia, Alessandro VI; e così molti continuano ancor oggi a pensare, nonostante studi recentissimi abbiano profonda­mente rivisitato le figure della fa­miglia Borgia e ci abbiano mo­strato le immagini di un Alessan­dro e soprattutto una Lucrezia molto diversi da quelli che gli stereotipi anticlericali avevano diffuso. C’è anche chi ha provato a far del frate ferrarese – come, del resto, di Martin Lutero – un 'martire del Libero Pensiero': il che è francamente troppo. Nella Roma pontificia dei Borgia, a parte la leyenda negra che ancora circonda quel papa, si viveva e si pensava senza dubbio con mag­gior libertà di quanto non accad­de nella Firenze del quadriennio 1494-98, dominata dal cupo e in­transigente frate. E tuttavia, se confrontiamo le figure dei due grandi agitatori religiosi (e politi­ci) dallo snodo tra medioevo e Rinascimento, non è difficile ren­dersi conto che l’agostiniano sas­sone era ancora molto 'medieva­­le', nelle sue prospettive di ritor­no alla purezza della Chiesa e­vangelica, mentre il domenicano ferrarese, pur essendo vissuto mezzo secolo prima di lui, era al contrario già 'moderno', con le sue aperture nei confronti della magia naturalis studiata da Mar­silio Ficino e da Giovanni Pico della Mirandola.
Ma chi era, insomma, Girolamo Savonarola? Le personalità stori­che molto studiate hanno purtroppo questo di caratteristico: più profondamente le si analiz­zano, più esse finiscono con lo scomparire sotto il cumulo delle interpretazioni e della tesi con­trapposte. Possiamo certo dire che fu comunque un mistico di straordinaria capacità di pene­trazione nei divini misteri e un predicatore d’eccezionale forza.
Che la sua parola sia riuscita a catturare perfino il più grande genio pittorico del suo tempo, Sandro Botticelli, pittore di splendide Madonne ma anche di dèi e di dee, l’ultima produzione del quale è una sublime versione dell’escatologia savonaroliana, la dice lunga.
Nato a Ferrara nel 1452, Girola­mo era nipote di un illustre me­dico dell’Università di Padova, Michele Savonarola. Era quindi abituato fin dall’infanzia al lusso, alle agiatezze, alla notorietà. Ma si disgustò presto del mondo, la corruzione del quale lo indigna­va. Entrò nel 1475 nel convento domenicano di Bologna, centro e culla della cultura scolastica in un tempo in cui la palma della filosofia stava passando invece da Tommaso ad Agostino e quindi da Aristotele a Platone: tuttavia la dottrina tomistica gli stava evi­dentemente stretta, come avreb­be più volte anche in seguito dimostrato. Studente, sacerdote e teologo formatosi tra 1475 e 1482, era già piuttosto famoso quando il capitolo lombardo del suo Ordine lo destinò al conven­to fiorentino di San Marco, sede prestigiosa e chiesa prediletta da casa Medici. In un primo tempo predicò su temi esegetici e scritturali: ma, fra 1484 e 1485, avven­ne qualcosa che lo cambiò profondamente. Da allora, le sue prediche furono tutte incentrate sulla fine dei Tempi, la punizione che Dio minacciava all’umanità e la riforma della Chiesa. Abban­donò Firenze e per un triennio, tra 1487 e 1490, predicò nell’Ita­lia settentrionale. Rientrò a Fi­renze nel 1490 per espresso desi­derio di Lorenzo il Magnifico, che pur aveva avversato ma che lo stimava e forse lo temeva e che e­ra sensibile ai suggerimenti di un eccezionale umanista suo consi­gliere e ammiratore del frate, Giovanni Pico della Mirandola.
Nel 1491 i frati di San Marco lo e­lessero priore; intanto continua­va a predicare, prima nella sua chiesa e poi in duomo. I suoi strali, che pur non risparmiavano politici e governanti fiorentini, e­rano rivolti soprattutto contro la corruzione della Chiesa romana: domenicano 'osservante', dun­que sostenitore della riforma in­terna dell’Ordine, annunziava e auspicava ormai la necessità d’u­na generale riforma della Chiesa romana. Dopo la morte del Ma­gnifico, nel 1492, il suo messag­gio si fece più intenso e diretto.
Non che auspicasse un rovescia­mento politico: al contrario, fu più vicino al potere mediceo di quanto solitamente non si dica.
Tuttavia, sperò senza dubbio che il re Carlo VIII di Francia, disceso in Italia nel 1494 per ben concreti interessi nel regno di Napoli, ma proclamando di voler organizza­re una crociata, fosse lo strumen­to della punizione e del rinnova­mento della cristianità. Eppure, nel frangente del passaggio del re da Firenze e subito dopo, egli di­mostrò una chiarezza di vedute politiche e un equilibrio che lo imposero all’attenzione dell’opi­nione pubblica: e per almeno tre anni, fino al 1497, dominò la vita politica e spirituale della città promuovendo un progetto di co­stituzione ispirata a quella veneziana che contemperasse le spin­te aristocratiche e quelle popola­ri e sostenendo l’immagine d’una Firenze finalmente visitata dalla concordia e 'Nuova Geru­salemme'. È vero che la sua 'dittatura' fu segnata anche da vio­lenze (le incursioni dei 'fanciul­li' suoi seguaci, i 'roghi delle vanità'), ma tuttavia sembrò per un lungo momento che la crisi a­perta dalla morte del Magnifico fosse davvero risolta.
La città era agitata tuttavia da u­na dura lotta politica tra opposti partiti: i 'piagnoni' seguaci del frate, i 'compagnacci' favorevoli al ritorno degli esiliati Medici e gli 'arrabbiati' fautori invece d’una riforma in senso oligarchi­co- repubblicano. I troppi nemici di fra Girolamo riuscirono a con­vincere papa Alessandro VI, adi­rato per le prediche nella quali il domenicano denunziava la cor­ruzione romana ma restio a prender provvedimenti, ch’era necessario fermarlo. La scomuni­ca, il 25 giugno del 1497, fu l’ini­zio della sua rovina. Il governo fiorentino, timoroso dell’inter­detto che avrebbe potuto abbat­tersi sulla città, gli ingiunse di ta­cere; i suoi avversari, soprattutto i francescani, lo sfidarono ripetu­tamente a un confronto che egli non si sentì d’accettare; infine la folla assalì il convento di San Marco e lo trascinò si può dire di forza dinanzi a un tribunale civi­le, cui si erano però aggiunti due commissari ecclesiastici. Il 23 maggio del 1498 egli, insieme con due suoi fedeli seguaci, fu impiccato e quindi arso in Piazza della Signoria. Non era stato co­munque giudicato da un tribu­nale inquisitoriale né dichiarato eretico. La sua eredità spirituale fu ricchissima, e toccò anche personaggi come Michelangelo.
Nelle sue Prediche, i toni terribili delle immagini apocalittiche si accompagno a momenti profon­di e commoventi, di meditazione e di penitenza. Da anni un ag­guerrito gruppo di fiorentini e non solo sta insistendo perché si porti avanti nei suoi confronti un processo di canonizzazione, ri­spetto alla quale la Curia pontifi­cia sembra tuttavia non aver su­perato riserve e cautele.
Nelle sue «Prediche» i toni terribili delle immagini apocalittiche si accompagnano a momenti profondi e commoventi, di meditazione e di penitenza.

(Autore: Franco Cardini; Fonte: Avvenire del 08/02/2008)

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