28/02/15

La nuova edizione di "Dio è nato in esilio" nel centenario della nascita di Vintilă Horia

Vintilă Horia, Dio è nato in esilio
pagine 240, Castelvecchi Editore, prezzo € 17.50

Esiliato da Augusto ai confini orientali del nascente Impero Romano, sull’attuale Mar Nero, Publio Ovidio Nasone affida la propria amarezza alle pagine di un diario. Le Metamorfosi, il suo capolavoro, hanno lasciato un vuoto nella coscienza, e gli dèi sembrano aver abbandonato il mondo. Ma proprio qui, nella terra dei Geti, il poeta coglie i primi bagliori di un nuovo culto e prepara il suo spirito a un ultimo, imprevisto cambiamento. Attraverso la figura di Ovidio – diviso tra la disillusione e il sarcasmo, il desiderio e la poesia – Vintilă Horia tenta di elaborare l’angoscia dell’esilio a cui lo aveva costretto il regime comunista in Romania. L’intreccio di esperienza personale e dimensione letteraria rendono Dio è nato in esilio un’opera in cui la scrittura diventa testimonianza, il lirismo denuncia politica e la singolarità di un’esistenza storica assume un significato universale. Nel 1960 il libro vinse il Premio Goncourt, che Horia rifiutò in seguito a una campagna denigratoria orchestrata contro di lui dal governo romeno.
 

26/02/15

Siria, Iraq e Califfato, eredità della prima guerra mondiale


Che cosa sta succedendo in Siria e in Iraq? Semplice: sta succedendo che uno dei principali alleati degli Stati Uniti nella regione – l’Emirato del Qatar – stia finanziando ed armando un esercito di terroristi che vuole cancellare Iraq, Siria, Libano e Giordania, ed al loro posto creare un impero clericale – il Califfato – ispirato ad una interpretazione fondamentalista dell’Islamismo nella sua versione sunnita.
Scopo di questo articolo non è, tuttavia, quello di investigare sul presente, magari alla ricerca di imperscrutabili disegni destabilizzatori, bensì quello di analizzare le radici storiche di ciò che sta avvenendo oggi. Ebbene, anche questa orrenda guerra in-civile, nasce dagli errori commessi dai vincitori della Prima guerra mondiale (Italia esclusa) e dalla loro pretesa – assurda, boriosa, arrogante – di tracciare i confini delle nuove nazioni mediorientali senza alcun rispetto per le popolazioni che vi sarebbero state incluse. Esattamente come la medesima pretesa aveva presieduto ai nuovi confini europei, creando Stati artificiali (la Cecoslovacchia, la Jugoslvaia), gonfiandone artificialmente altri (la Polonia, la Romania), mutilando i paesi vinti e ponendo le premesse per quel sanguinoso regolamento di conti che sarebbe stato poi la Seconda guerra mondiale.
Orbene, tutto nasceva, all’indomani della Grande Guerra, dalla spartizione delle spoglie dei vinti; e in particolare – per l’argomento di cui trattiamo oggi – dalla spartizione delle province arabe dell’Impero Ottomano. “Spartizione”, in verità, è un termine inadatto, perché nei fatti si trattava dell’acquisizione di quasi tutto da parte di una sola alleata, l’Inghilterra; della tacitazione con un piatto di lenticchie della seconda alleata, la Francia; e della maramaldesca esclusione della terza, l’Italia. Ma sorvoliamo anche su questo aspetto (che potrà essere oggetto di un ulteriore approfondimento) e concentriamo la nostra attenzione su quanto veniva stabilito, prescindendo da giudizi morali o da valutazioni politiche.
Si tenga ben presente – innanzi tutto – che fino a prima della Grande Guerra, l’Impero Ottomano si estendeva su tre continenti: dai Balcani all’Anatolia, al Medio Oriente, all’Egitto (ancorché assoggettato all’occupazione “provvisoria” dell’Inghilterra sin dal 1882).
Nel maggio 1919, approfittando di una momentanea (e polemica) assenza dell’Italia dalla Conferenza della pace di Parigi, Inghilterra e Francia si accordavano per spartirsi le colonie tedesche e le regioni arabo-ottomane. Qualche briciola ai giapponesi nel lontano Pacifico e nulla all’Italia, che si voleva così punire per aver osato opporsi all’assegnazione di Fiume al Regno Serbo-Croato-Sloveno. Alla Francia – come già detto – un piatto di lenticchie: la Grande Siria – comprensiva del Libano – che si saldava al Kurdistan (poi cancellato) e ad una “zona d’interessi” nell’Anatolia sud-orientale (poi abbandonata precipitosamente di fronte all’avanzata di Atatürk). Tutto il resto all’Inghilterra, forse per diritto divino.
Naturalmente, non si poteva esplicitare la natura sfacciatamente colonialista di questa manovra, e ciò per due ordini di motivi: il rispetto del diritto di autodeterminazione dei popoli (che era stato la scusa per giustificare l’ingerenza degli USA in una guerra europea) ed i ripetuti impegni – assunti solennemente dall’Inghilterra – di concedere l’indipendenza agli arabi, se questi si fossero sollevati contro i turchi. Veniva perciò ideato un marchingegno che potesse in qualche modo mascherare i reali intenti di questa operazione: si riconosceva che le popolazioni arabe erano in grado di governarsi da sole, ma le si affidava alla neonata Società delle Nazioni, che avrebbe dovuto amministrarle provvisoriamente e poi accompagnarle verso la completa indipendenza. La S.d.N. poi, attraverso un “mandato”, le affidava – sempre “provvisoriamente” – «al consiglio e all’assistenza amministrativa di una Potenza mandataria».
Questo, nelle grandi linee. Per i dettagli, si rimandava tutto ad una successiva “Conferenza interalleata”, la quale avrebbe dovuto occuparsi anche del destino della Turchia, che l’Inghilterra avrebbe voluto praticamente cancellare dalla carta geografica. La Conferenza si teneva nell’aprile dell’anno seguente in Italia, a San Remo; le sue conclusioni saranno pochi mesi dopo recepite dal trattato di Sèvres, che però non andrà mai in vigore.
Frattanto – tra il maggio del ’19 e l’aprile del ’20 – si era verificato un fatto di non poca importanza: nella regione kurda di Mosul era stato scoperto il petrolio, tanto petrolio. E, allora, i “buoni” della situazione (cioè gli inglesi e i cugini americani) non potevano certo consentire che quel tesoro finisse – tramite il mandato sul Kurdistan – in mani francesi. Tutto lo scenario mediorientale stabilito a Parigi, perciò, veniva cancellato, e la carta geografica del Medio Oriente era ridisegnata ex novo. Il Kurdistan spariva: le sue regioni non petrolifere venivano divise fra la Turchia, la Persia (oggi Iran) e la Siria. Le sue regioni petrolifere, invece, erano accorpate al territorio arabo-sunnita di Baghdad ed a quello sciita di Bassora. Insieme, le tre regioni – che non avevano nulla in comune – erano racchiuse in uno Stato artificiale cui veniva dato il nome (persiano) di Iraq. Naturalmente – inutile dirlo – il relativo mandato era assegnato all’Inghilterra.
La Francia – depredata anche delle lenticchie – non faceva una piega. Incassava pure quest’altra scorrettezza (non certamente la prima!) da parte dei fedeli alleati britannici, continuando disciplinatamente a svolgere il ruolo – come più tardi dirà Mussolini – di “cameriera dell’Inghilterra”. Ad onor del vero, riceverà poi una specie di liquidazione per il suo cessato servizio in Kurdistan: il 25% delle azioni di due compagnie petrolifere, la Turkish Petroleum C° e la Anglo-Persian Oil C°; una inezia, a fronte del fiume di denaro che scaturirà dai pozzi petroliferi iraqeni.
Naturalmente, non era questo l’unico pasticcio ascrivibile alla fantasiosa diplomazia degli “Alleati”. Ricordo un complicatissimo balletto di prìncipi ashemiti, prima designati Re di una determinata nazione, poi dirottati su un altro trono, costretti a deambulare sino alla attribuzione delle definitive corone in Siria, Giordania, Iraq. E ricordo, naturalmente, l’assurda vicenda della Palestina: promessa contemporaneamente agli arabi (accordo McMahon-Hüsseyn del 1916) ed agli ebrei (dichiarazione Balfour del 1917).
Ma, anche qui, tralasciamo tante vicende che pure sarebbe interessante approfondire, e concentriamoci sull’argomento che in questo momento ci preme maggiormente: sulle conseguenze dirette, cioè, che la decisione di cancellare il Kurdistan e di creare l’Iraq aveva – ed avrà poi fino ai nostri giorni – sugli equilibri del Medio Oriente e, in particolare, della regione compresa fra l’Anatolia orientale e quella che una volta si chiamava Mesopotamia.
Incominciamo dal Kurdistan, paese a maggioranza musulmana, ma non arabo ed etnicamente affine più all’Iran e alla Turchia che non al resto dell’Iraq. Orbene, dopo aver brevemente sognato ad occhi aperti di poter raggiungere l’indipendenza e l’unità nazionale, i kurdi vedevano repentinamente la loro patria annullata con un colpo di penna ed i loro territori divisi fra la Turchia (a nord), l’Iraq (a sud), la Persia (ad est) e la Siria (ad ovest). Da quel momento iniziava la disperata resistenza nazionale kurda contro le nazioni occupanti, resistenza che ha talora dato vita ad episodi di vera (e crudele) guerra civile, incidendo pesantemente sulla vita politica e sulla stabilità dei quattro paesi interessati. Ricordo – fra gli altri episodi – la breve stagione della Repubblica Popolare Kurda in territorio iraniano (1945), il bombardamento con gas nervino dei guerriglieri peshmerga di Halabja in territorio iraqeno (1988), e soprattutto la lunga stagione di lotte politiche ma anche di sanguinario terrorismo attuata in Turchia dal PKK di Ochalan.
E veniamo all’Iraq, paese – come abbiamo visto – del tutto artificiale, messo insieme soltanto per favorire l’accaparramento delle sue immense risorse petrolifere da parte di inglesi e americani. Tralasciamo tutta una serie di episodi significativi (come la rivolta filotedesca e filoitaliana del 1941) e veniamo alla sua storia più recente. Nel 1968 un colpo-di-Stato militare portava al potere il Baath, un partito nettamente laico ispirato ai princìpi di un nazionalismo panarabo (ma non panislamico) e di un socialismo nazionale (ma non marxista). Ostile agli Stati Uniti e ad Israele, il Baath governava già la Siria (dal 1963) ed aveva numerosi punti di contatto con il movimento degli Ufficiali Liberi nasseriani, al potere in Egitto dal 1952. La leadership del baathismo iraqeno – procediamo sempre in estrema sintesi – era in breve assunta da Saddam Hussein, prima Vicepresidente e poi – dal 1979 – Presidente della Repubblica.
Il laicismo del Baath, oltre ad essere in linea con le proprie radici politiche, era anche l’unico sistema in grado di tenere unito un paese formato da tre diverse realtà etnico-religiose, con una maggioranza musulmana spaccata in due (60% sciiti e 40% sunniti) e con una consistente (allora) minoranza cristiana. Altra peculiarità del baathismo era un rigido nazionalismo economico, che si estrinsecava nella nazionalizzazione dell’industria petrolifera (1972) e nell’utilizzo dei suoi proventi per una profonda modernizzazione del paese e per accrescere il benessere degli abitanti.
Abbattuto il regime baathista ad opera di una pretestuosa invasione americana (2003), il paese è – naturalmente – andato in frantumi: l’antagonismo politico fra le tre componenti è salito alle stelle; per tacere della quarta componente, la cristiana – un tempo rispettata da tutti – che era fatta oggetto della pesante ostilità di un fondamentalismo islamico in forte crescita. Pochi anni dopo, gli Stati Uniti e i loro alleati nella regione avviavano una guerra di aggressione – condotta attraverso un esercito mercenario armato e finanziato ad hoc – contro il regime baathista siriano del presidente Assad, con la scusa (fondata ma assolutamente risibile in Medio Oriente) che il regime di Damasco fosse una dittatura. È da questo esercito mercenario – in larga parte formato da gruppi fondamentalisti – che è nato l’esercito del Califfo e la sua sorprendente creatura politica: l’ISIS, ovvero Stato Islamico dell’Iraq e della Siria.
Obiettivo dell’ISIS e dei suoi sponsor (il Qatar soltanto?) è quello di frantumare l’Iraq, togliendogli la maggior parte dei territori petroliferi e lasciando il resto del paese alla maggioranza sciita ed all’alleanza con il correligionario Iran. Contemporaneamente, il Kurdistan iraqeno dovrebbe poter dichiararsi indipendente, ma privato delle sua zona più ricca di petrolio – Mosul – che dovrebbe rimanere al Califfato (ed alla commercializzazione qatarina) per garantire la sopravvivenza economica della creatura jihadista.
Il progetto presenta numerosi gravi inconvenienti (si pensi all’effetto destabilizzante per la Turchia che avrebbe uno Stato kurdo ai suoi confini), ma è quello che – si dice – abbiano elaborato gli strateghi di Israele: tornare alla situazione del 1919 e cancellare Iraq, Siria e Libano, frantumandoli in una miriade di staterelli coincidenti con le varie realtà etnico-religiose del Medio Oriente. E pazienza se, fra queste realtà, ce ne dovesse essere una che vuol mettere a ferro e fuoco il mondo intero.

Michele Rallo

Fonte: http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=23700 

23/02/15

Una recensione al "René Guénon nel pensiero Cattolico"



Christophe Andruzac,
René Guénon nel pensiero Cattolico,
Ed. Simmetria, Roma 2015, €16,00


Per le Edizioni Simmetria è uscito un breve testo su Guénon, tratto a sua volta da un volume importante di Christophe Andruzac: La contemplation métaphysique et l'expérience mystique. Il testo è commentato da Aldo La Fata che ne ha curato la prefazione e la ricca bibliografia.
Il tema proposto è assai interessante in quanto sappiamo tutti come la vexata questio sulla "anticattolicità" o meno di René Guénon abbia scatenato la fantasia (ma a volte anche il livore) di numerosi esponenti delle varie correnti tradizionaliste europee. Ovviamente, soprattutto in Italia, viene spontaneo fare dei paralleli con Evola che ha sviluppato una teoria dell"individuo assoluto" assai lontana da quella di Guénon. Ma l'opera di Guenon, a cui è sicuramente debitore tutto il pensiero tradizionale dello scorso secolo, si amplia verso gli aspetti più sottili della metafisica vedantina e abbraccia molti stilemi della folgorante via dello "zen" come del sufismo islamico. Per cui, subito dopo la morte dell'autore sono fiorite decine di opere di commento alla metafisica guenoniana. Alcune con lo scopo di studiare in dettaglio l'immenso lavoro compiuto dal francese, altre decisamente e specificamente "polemiche" e soprattutto dense di pregiudizi causati dalla scarsa conoscenza delle radici filosofiche orientali di Guénon. Andiamo perciò dalle critiche del cardinale Daniélou, a Marie Davy che mantiene un giudizio assai obiettivo e distaccato, a Jean Tourniac o ad Angelo Terenzoni aderenti al pensiero guenoniano. Il testo riporta molte "opinioni" di tali autori e propone anche le critiche di Jacques Maritain o di P. de Lubac in cui appare evidente come il contrasto fra una intransigente ortodossia cattolica e una metafisica "vedantina" come quella di Guénon conducano a posizioni teologicamente irriducibili. La lettura di tale piccolo testo è a nostro avviso assai interessante in quanto può mostrare come partendo da giudizi (o forse pre-giudizi) dottrinali, sia assai difficile non solo un dialogo ma anche una sincera comprensione di un pensiero che non è fatto di dogmi apodittici ma soprattutto di approfondimento intellettuale e poi contemplativo. Cosa che trascende e supera la logica e la dialettica.


Alcuni commenti:

Antonello Colimberti
Senz'altro da leggere. Quanto al contrasto fra ortodossia cattolica e metafisica "vedantina" esistono varie soluzioni. Un delle migliori che conosco è quella di un autore che si firma semplicemente come "Moine d'Occident". Titolo del volume: "Doctrine de la Non-dualité (advaita-vada) et Christianisme". Sottotitolo: "Jalons pour un accord doctrinal entre l'Eglise et le Vedanta". Prefazione: Jean Tourniac. Editore: Dervy-Livres, Paris 1982. Particolare: il libro è uscito "avec la permission des supérieurs".

Claudio Lanzi
Molto interessante è anche il lavoro di Siddhesvarànanda (Pensiero Indiano e mistica carmelitana); meno conosciuto (accademicamente) di altri ma, a mio avviso, pieno di suggerimenti di "mistica comparata".
E' il punto di vista di uno yogi che incontra ...San Giovanni della Croce.

Antonello Colimberti
E non dimentichiamo però Swami Abhishiktananda, ovvero il monaco benedettino francese Henri Le Saux!

Claudio Lanzi
Si, anche se ho sempre avuto una grande perplessità nei confronti del monachesimo che va a fare yoga: Credo che soprattutto la mistica benedettina disponga di una tale riserva di metodi ascetici, di tecniche e di possibili incontri con la metafisica che le "mescolanze" (sempre a mio modesto avviso) rischiano di inquinare. Insomma credo che il lavoro di un laico che va a sperimentare l'advaita vedanta sia assai meritevole, mentre credo che un monaco (e questo fu il caso di Le Saux) finisca sempre in un conflitto, non solo dottrinale ma realmente "ontologico".